Flavia Gasperetti, pagina99 5/11/2016, 5 novembre 2016
MASCHIO O FEMMINA? DECIDERÀ DA GRANDE
Allora, la buona notizia è che Papa Bergoglio e i vescovi più allarmisti avevano ragione: la perfida ideologia del gender è al lavoro, signori, e vuole i/le vostr@ figli@. Magari stavate ancora lì a cercare di chiarirvi se il gender sia meglio o peggio dell’Isis, ma non importa, non è più tempo di fare le pulci alla minaccia, di rubricare e incasellare. Il gender, avanza, inesorabile, e vuole liberare le nuove generazioni dalla dittatura del rosa e dell’azzurro, delle principesse, dei tutù, e dei loro equivalenti maschili che ora su due piedi non mi vengono in mente – stavo per dire “cowboy”, ma temo che questo riveli solo lo status di nullipara della sottoscritta, e così la sua età avanzata e lo scarso spirito di osservazione.
I segnali dell’imminente apocalisse sono ovunque e sono globali: la nuova parola d’ordine è gender neutral. Dall’agosto del 2015, il colosso americano della grande distribuzione Target ha smesso di utilizzare designazioni gender-specific per identificare i giocattoli destinati a bambini e bambine, a ruota hanno seguito i Disney Store, Amazon e Mattel. I canadesi, nella loro smania di essere sempre i primi della classe hanno addirittura emendato il loro inno nazionale per renderlo più inclusivo: il terzo verso, in cui si celebrava l’amore patriottico dei ‘figli’ (maschi) della nazione, è stato rimpiazzato con un generico ‘noi’ pigliatutto.
A spalancare le porte all’avanzata del neutro, si direbbe, sono in molti casi proprio i genitori. Famiglie dove, semplicemente, si sceglie di non imporre ai bambini tutto l’indotto materiale e psicologico che pare concepito al fine esclusivo di femminilizzare le bambine e mascolinizzare I maschi. L’educazione gender-neutral, leggiamo sui numerosi siti dedicati, nella sua accezione più diffusa propone di mettere a disposizione dei bambini giocattoli di qualsiasi tipo, facendo scegliere a loro. Stesso discorso vale per i vestiti, la lunghezza dei capelli, le attività sportive. C’è chi si spinge più in là. Ci sono coppie che addirittura evitano di comunicare ad amici e parenti il sesso biologico della loro prole fino al raggiungimento dell’età scolare, perché si sa, per crescere un bambino ci vuole un villaggio e qualsiasi progetto neutral-utopistico parte male se il villaggio è pieno di nonne e zii che ti stordiscono a forza di “bella signorinella” e “ti stai facendo proprio un ometto”. Va detto che di queste famiglie visionarie si legge quasi sempre solo sulla stampa estera, e viene da chiedersi se a Cambridge o nel Quebec le nonne siano un po’ più discrete che qui, perché sono certa che la mia, di nonna, in nessun modo si sarebbe trattenuta dal dare una sbirciata all’interno del mio pannolone alla prima opportunità.
In un non trascurabile rispetto, gli anglofoni sono avvantaggiati: liberi dal determinismo linguistico della finale -a, e -o, possono con più facilità assegnare nomi neutri alle loro creature gender-free. È una tendenza piuttosto diffusa, l’anno scorso negli Stati Uniti i nomi unisex più popolari sono stati Hayden (39% bambine e 61% maschi), Charlie (che pare da maschio, sì, ma il 48% dei Charlie del 2015 è femmina) e Emerson. Sul NewYork Times troviamo anche un piccolo vademecum per guidare nella scelta del nome gender neutral, cognomi di personaggi celebri, nomi di alberi o di luoghi, per esempio, sono tutti neutri pronti all’uso e alcuni, come Dakota e Phoenix, già molto popolari. Leggo queste statistiche e mi chiedo fino a che punto possiamo aprirci al trend anche qui in Italia. E non perché ai miei contemporanei con figli manchino la creatività sguaiata e un totale sprezzo per i rancori futuri della loro discendenza, anzi – ma noi il neutro non ce l’abbiamo, nemmeno per i nomi comuni di fiori e alberi. Se anche potessimo raccogliere gli spunti offerti dal New York Times, davvero ne avremmo il coraggio? Siamo pronti a chiamare i nostri figli post-gender Fiesole o Pertini? Magari Hibiscus?
Ma soprattutto, poi, a nonna chi glielo dice?