Paolo Portoghesi, domus 11-12/2016, 11 dicembre 2016
COMPLESSITÀ E CONTRADDIZIONI
La gioia della condivisione: questo l’indimenticabile sentimento suscitato dalla lettura di un piccolo libro che arrivava dall’America, e a me, cittadino romano, parlava, in modo spregiudicato e avvincente della città che avevo cominciato a studiare con passione. Condivisione di che cosa, di quali pensieri e giudizi? Anzitutto, condivisione della curiosità e della reazione ai pregiudizi, alle pigre abitudini, ai luoghi comuni consacrati, alle proibizioni inconsulte.
Le immagini pubblicate da Venturi mettevano insieme Borromini e Brasini, Michelangelo e Lutyens, Palladio e Butterfield e, leggendo il libro, si capiva che Venturi, che aveva passato a Roma, nella American Academy del Gianicolo, dei mesi preziosi per la sua formazione, aveva reagito alle cose che vedeva con assoluta sincerità, senza tenere in nessun conto le colonne d’Ercole erette tra il lecito e l’illecito, tra il moderno e il falso antico, tra il bello e il brutto, dalla critica ufficiale. Insomma, leggendo, si aveva la sensazione di una liberazione dai dogmi, di un’affermazione coraggiosa dei propri gusti, delle proprie predilezioni, delle cose da cui ciascuno ritiene, a proprio rischio, che ci sia qualcosa da imparare.
Per fare un solo esempio: la facciata demonizzata dai critici, ritrovava nel libro, piena legittimità, insieme alla ‘delittuosa’ decorazione. Allora, negli anni Sessanta, un periodo in cui l’eco della guerra era ancora forte, si era creata una cultura che riteneva di sapere bene cosa non si doveva fare e, molto meno, cosa invece era necessario fare. L’antifascismo, come tutti i movimenti sorti per abbattere, era per sua natura settario.
Basti pensare al disprezzo imperante, negli anni Sessanta, verso l’architettura, considerata come retorica espressione del potere politico e, quindi, come qualcosa di estraneo agli ideali democratici. Il risvolto di questa filosofia era poi la piena apertura alla speculazione edilizia. Per questo, i nuovi ministeri vennero acquistati dallo Stato trattandone la realizzazione con i costruttori romani, senza che venisse bandito un concorso.
Il libro di Venturi, in modo indiretto ma sottile, era portatore di un messaggio importante: quello di farla finita con le proibizioni e di guardare alla realtà dei fatti, smettere di attenersi alle ortodossie e accettare l’inquietudine e la tensione come segno di partecipazione a un tempo di poche e labili certezze.
Nel campo dell’architettura significava abbandonare l’illusione che il lavoro delle avanguardie avesse determinato una irreversibile tabula rasa, cancellando per sempre il valore della memoria.
Ho parlato di condivisione perché più o meno ad analoghe conclusioni qualcuno di noi era arrivato già per conto suo. Non per caso chi avesse la pazienza di rileggere la mia presentazione della casa Baldi – in contraddittorio con Bruno Zevi, nel numero 86 di L’architettura, cronache e storia del 1962 – troverebbe la rivalutazione sia della complessità, sia della contraddizione.
La nostra generazione – o almeno il gruppetto di amici che aveva molte affinità spirituali: Roberto Gabetti, Aldo Rossi, Guido Canella – si era formata guardando le vecchie annate delle riviste di architettura e contestando la storia scritta dai vincitori o almeno da quelli che si ritenevano tali, scoprendo le contraddizioni tra i diversi movimenti, anche di quelli dei vinti, e la ricchezza delle diverse tendenze che hanno costruito l’architettura moderna come ideale etico, piuttosto che come repertorio di forme intercambiabili. Nello stesso anno in cui uscì il libro di Venturi, Rossi pubblicò L’architettura della città, un libro completamente diverso, ma non meno importante per superare gli equivoci di una modernità che non vuole confrontarsi con la memoria collettiva, con la tradizione, con la concretezza dell’atto costruttivo.
Tra i meriti del libro di Venturi non va dimenticata la rivendicazione del diritto a guardare senza pregiudizi e la conseguente rivalutazione delle architetture romane di Armando Brasini. Brasini è l’eroe, anche lui, di una ‘resistenza’, ma non di quella nata contro la ferocia nazi-fascista: una resistenza meno titolata e sacrosanta, ma pur sempre rispettabile contro il Modernismo, contro l’azzeramento del codice classico. Il suo era un punto di vista più artigianale che intellettuale, ma le sue opere non mancano di qualità architettoniche. Ricordo di aver scoperto Brasini affacciato alla ringhiera anulare che circonda la lanterna della cupola di Michelangelo. Di lì, il complesso del Buon Pastore appariva da lontano come una cattedrale gotica con i suoi 100 obelischi (rimossi, poi, per evitare rischi). La curiosità di vedere questo edificio mi portò a visitarlo e non potei non riconoscere che apparteneva alla città, ne rispettava l’identità, dandone una personale interpretazione, con una probità professionale pari alla profusione di particolari di grande plasticità. Rivedere nel libro di Venturi quelle immagini mise in pace la mia coscienza di modernista disobbediente, e gliene sono grato. Da lui, tra l’altro, ho imparato l’autoironia. Non va dimenticato che Venturi era stato allievo di Louis Kahn, l’opera del quale si era diffusa in Italia non senza polemiche proprio in quegli anni. L’architettura americana, dopo un’autocritica radicale come quella proposta da Kahn con tono profetico, che riscopriva la fertilità della tradizione, offriva con Venturi un’ipotesi meno radicale, meno coerente, meno biblica, ma più vicina alla realtà.
Oltre che al passato era importante guardare al presente, alle contraddizioni della città, al sorgere di nuovi problemi e di nuovi valori; guardare al ‘popolo’, ma senza illusioni romantiche, a un popolo in crisi, in atto di perdere la sua identità, ma nonostante tutto dotato ancora d’idee, di sentimenti, di gusti, di predilezioni, da guardare non con disprezzo, ma con curiosità e, in certi casi, da assecondare con ironia. Venturi si considerava in piena sintonia con la Pop-Art e guardava a Las Vegas, come un fenomeno in cui c’era qualcosa da imparare perché lì l’architettura, o il suo simulacro, trasmetteva realmente dei significati in una forma accessibile, eloquente, persuasiva. Oggi ci rendiamo conto che tutto ciò faceva parte dell’orgia consumistica che ha finito per sommergere anche l’architettura, ma in quegli anni l’anticonformismo di Venturi e di Denise Scott Brown, compagna della vita ma anche stimolo intellettuale di straordinaria intensità, servì a mettere a fuoco il problema della comunicazione attraverso il linguaggio architettonico e a liberare il mondo dell’architettura da quella seriosità che già Bruno Taut aveva bollato come una delle tare del Modernismo.