Tullio Pericoli, domus 11-12/2016, 11 dicembre 2016
UNA MANIERA DI LAVORARE
La passione per il mio mestiere è nata negli anni del liceo classico. Di pomeriggio, andavo alla pinacoteca comunale di Ascoli a copiare le statue, e il direttore Ernesto Ercolani – un bravo pittore che apprezzavo molto, su mia insistenza – accettò di farmi da maestro. Veniva a vedere il mio lavoro e mi dava consigli: questo è stato il mio apprendistato. Ho capito che sarebbe diventato la mia passione quando, a 24 anni, ho preso un pullman per andare a Roma dove avevo appuntamento con Zavattini che mi dedicò tutta la mattina, dopo aver risposto con gentilezza e affetto a una mia lettera. Guardati i miei disegni, alzò la testa e disse: “Tu non devi fare l’avvocato (mi mancavano quattro esami per laurearmi in legge); devi fare questo mestiere perché sei bravo; e non devi venire a Roma, ma andare a Milano”. Zavattini scrisse due lunghe lettere: una per Luigi Baldacci, il fondatore del Giorno, e una per Giancarlo Fusco, che ne era un famoso inviato. Lì è cominciato tutto. Ho lasciato gli studi e sono partito. Ho detto ai miei: “Vado a Milano per un paio di giorni a vedere che cosa succede, se riesco a trovare qualcosa”. E non sono più tornato. Cominciai a disegnare per Il Giorno dove facevo, tra le altre cose, un disegno settimanale per il Racconto della Domenica. Gli autori erano Primo Levi, Gadda, Bassani e così via. Ricordo nelle mie mani i fogli dattiloscritti di Calvino che cominciò a pubblicare Le Cosmicomiche sul Giorno nel 1965. Poi, all’inizio degli anni Settanta, fui chiamato dal vicedirettore del Corriere della Sera, Gaspare Barbiellini Amidei, per rinnovare le pagine culturali con dei disegni; all’epoca, le colonne del Corriere erano solo piombo, una foto al massimo. Io già avevo cominciato a fare qualcosa con Emanuele Pirella per L’Erba Voglio di Elvio Fachinelli. Insieme, abbiamo ideato una striscia in terza pagina dove ‘recensivamo’ un libro appena uscito. Fu una cosa giornalisticamente rivoluzionaria. Dapprima funzionò; ma, dopo un anno circa, commentare un libro a settimana con una striscia cominciava a diventare una fatica. A quel punto, Pirella ebbe l’idea di creare “un salotto letterario”, inventando un personaggio. Così nacque Fulvia. Nel suo salotto, tutti i sabati, s’incontravano persone importanti. Era il 1972. Quella è stata una prima svolta nella mia vita.Nello stesso periodo, come pittore, facevo lavori completamente diversi; avevo un rapporto molto stretto con alcuni artisti, come Tadini, Pardi, Melotti, e con una galleria, lo Studio Marconi, che era un punto di riferimento. Ma lo scontro con il sistema del mercato dell’arte fu molto duro, ne uscii perdentissimo, finché decisi di dare una nuova svolta alla mia vita, lasciando la galleria per lavorare solo con i giornali (nel frattempo, erano iniziate le mie collaborazioni con l’Espresso e poi con la Repubblica). Mi parevano un luogo più vivo, più sincero, senza mediazioni di mercato; lì sentivo di avere un pubblico vero che mi seguiva. Ma, mercato a parte, aprendo una piccola parentesi, la mia distanza dall’arte cosiddetta contemporanea dipende soprattutto dal fatto che mette il concetto prima dell’oggetto; l’illustrazione del concetto diventa un peso per l’arte e la fa invecchiare rapidamente, perché i concetti sono destinati a essere presto superati, a non essere più di moda. Diversamente da quello che succede a un verso di Montale o di Leopardi. Secondo me questo è il vero punto debole di tanta arte di oggi. I lavori che facevo in quegli anni “come pittore” erano, come ho detto, molto diversi da quelli che facevo per i giornali. Nei primi ero molto interessato, come credo di esserlo stato sempre, a capire come nasce un segno. I miei disegni partivano quindi quasi sempre dal basso, come un microfilm: dal piccolo movimento di una linea ne nasceva un’altra, diversa, come fosse stata prodotta dalla prima. Cercavo di comprendere come si inanellavano le forme nella mia testa, una dietro l’altra, seguendo una logica propria. Cercavo la provenienza, quasi la dipendenza di un segno dall’altro, come se una linea partorisse la successiva. È straordinario quando, leggendo un libro o lavorando, si scoprono in noi risorse che non sospettavamo nemmeno di avere. È come se si snebbiasse un mistero: lavorare e riflettere sul lavoro per me sono stati sempre tutt’uno. Mentre si lavora, si aprono filoni di pensieri che percorrono delle vene che sono dentro di noi, ma di cui non sappiamo niente. Questa è la cosa più affascinante, perché si confonde quello che è materiale con qualcosa d’indefinibile che nessuno sa ancora che cos’è. Si scopre anche che il deposito di memoria dentro di noi non è solo nella nostra testa, ma è anche nel nostro corpo, nei nostri muscoli, nel nostro apparato nervoso; la mia mano conserva la memoria di tutti i gesti che ha compiuto, di tutti i modi in cui l’ho costretta a muoversi. Il lavoro dell’artista è spesso associato alla sregolatezza. Ecco, io sono l’opposto: amo citare Goethe, quando diceva che “genio è pazienza”. Non avendo obblighi di orari, fin dall’inizio ho diviso le giornate in due parti: la prima di nutrimento, l’altra di consumo. La mattina leggo, m’informo, approfondisco, studio; il pomeriggio e la sera lavoro, senza orari precisi per smettere. Il luogo comune della tela bianca è poi una gran balla: il vuoto non esiste, se noi siamo ricchi nella testa. Il lavoro avviene anche dentro di noi. Questa è la mia maniera di lavorare, e quello che sempre ho cercato in questo mestiere è di strappare più segreti possibili ai miei strumenti di lavoro: che non sono solo i pennini e i pennelli, ma anche la mia mano, il mio corpo e la mia mente. All’interno di questo modo di fare, ci sono stati balzi da tutte le parti; la mia curiosità, la paziente ricerca nell’applicare la mia mano, la mia tecnica e la mia mente si sono spesi in campi disparati: teatro, satira, pittura e ritratto sono tutte licenze che mi sono preso per il piacere di farlo. Adotto lo stesso metodo – antiaccademico, ascientifico – anche quando leggo un libro. Leggo appunto per nutrirmi e i libri per me più importanti sono paradossalmente quelli che ho dimenticato. Perché mi hanno distratto, facendomi percorrere mentalmente altri sentieri. Mentre leggo, anche il libro legge me, mi abbandono alle parole, alla lettura, alle immagini e questo mi serve molto. Dopo tanti anni, lo strumento che mi resta comunque più caro e insostituibile è la matita. Ho sempre una piccola matita in tasca che ormai è diventata parte di me. Anche per una ragione di comodità e utilità: mi dà la possibilità di prendere un appunto, di fare uno schizzo in qualsiasi momento. Da questa matita, sempre in tasca, che da sola consumandosi diventa l’oggetto ideale, sono nate anche delle storie. Per esempio il libro Storie della mia matita è nato immaginando che la mia matita fosse stata lo strumento per l’uomo per fare un primo segno sul muro e inventare la linea. E senza quella linea non saremmo stati capaci di delineare e definire le cose del mondo. Ed è al contatto della matita che il foglio diventa una specie di campo dei miracoli, dove può nascere tutto.