Cristina Lacava, IoDonna 12/11/2016, 12 novembre 2016
SONO UN GENIO CHE SFORTUNA!
Con i pallini rossi ce l’ho fatta (forse). Con i quadratini verdi e blu pure. Arrivata a linee e triangoli mi sono arresa. Le sequenze logiche non fanno per me. E con i tempi richiesti 39 risposte in 40 minuti dopo i primi quiz mi girava già la testa. Pazienza.
Ho provato a misurare il mio Q.I. sul test online del Mensa, l’associazione internazionale dei cervelloni. Chiunque può cimentarsi, sia nel facsimile del test d’ingresso (quello vero si fa in sede, così non si può barare) sia nella gara di giochi logici Brain (info su mensa.it) in corso a novembre. Basta avere più di 16 anni, provateci. Chissà, magari scoprite di avere un Q.I. superiore a 130 tipo Geena Davis, o Emma Watson, o Matt Damon e capacità insospettate, come il 2 per cento della popolazione.
Ma il punto è: e poi? Che vita aspetta i superintelligenti o, meglio, i plusdotati? Bruttina, purtroppo. Non sempre, certo, e le associazioni come il Mensa aiutano a fare network. Ma chi si ritrova da solo, con una mente e una sensibilità super, spesso fa più fatica di noi miseri normali. Lo sostiene una psicologa francese, Jeanne Siaud-Facchin, che ha appena pubblicato Troppo intelligenti per essere felici (Rizzoli); un titolo che non prevede neanche il punto interrogativo. I plusdotati (da non confondere con i primi della classe, anzi) se la passano maluccio: troppe pressioni da parte della famiglia portano stress e paura di sbagliare. Ma il peggio sono l’ansia di perfezionismo, la fatica ad accettare le regole imposte dall’esterno, il senso di colpa se si deludono gli altri, la noia, la solitudine che deriva dal sentirsi diversi, perfino la paura di fallire. Un disastro, insomma. «Essere plusdotati è un modo diverso di essere intelligenti» dice Siaud-Facchin. «Non si tratta di essere più intelligenti dal punto di vista quantitativo, ma qualitativo: ci sono grandi capacità di comprensione e di memorizzazione e un’emotività, un’acutezza dei sensi talmente straripanti da inondare il campo del pensiero. Vivere in una condizione così particolare è una grandissima forza ma anche un estenuante interrogarsi che può portare sofferenza».
Per riconoscere il genio, il Quoziente Intellettivo è solo un punto di partenza, che va affiancato a un’analisi psicologica individuale, come quella che fanno
a LabTalento, il laboratorio di ricerca
sulla plusdotazione dell’università di
Pavia, che organizza il 26 novembre
un convegno internazionale sul te-
ma. «Ogni anno, valutiamo una ses
santina di bambini, e la maggior par-
te supera la prova» dice la fondatrice
Maria Assunta Zanetti. La conferma definitiva arriva poi dalla scienza: «I gifted, come li chiamiamo, hanno più densità di neuroni nelle zone frontali, che si attivano in modo più veloce. Il loro pensiero è arborescente, si sviluppa per affastellamento. Sanno le tabelline ma non riescono a spiegare come ci sono arrivati».
Per loro, i guai partono con la scuola: irrequieti, insofferenti, spesso finiscono per essere confusi con gli iperattivi. Ma il peggio arriva con l’adolescenza, per la sensibilità esasperata, la difficoltà di inserirsi nel gruppo dei pari, l’inevitabile delusione amorosa. La scuola era una noia già alle elementari? Alle superiori di più, tanto vale mollarla (gli abbandoni sono altissimi). La salvezza spesso è all’università: «Se hanno resistito, trovano percorsi più adatti a loro. In genere scelgono quelli scientifici, perché hanno sviluppato l’emisfero destro» dice Zanetti.
Problema nel problema, sono le ragazze. La parità è lontana, in fatto di genialità: «Si nascondono, e gli insegnanti non sono capaci di individuarle. Stando a loro, la forbice maschi/femmine è molto ampia. Ma non è vero. Il genio è unisex» dice Isabella Morabito, direttore di Gate Italia, spin off dell’università di Padova. Le donne intelligenti, però, ancora oggi fanno paura, sembrano dominatrici. Quindi, perché rivelarsi? Meglio stare zitte, fingere, soffrire in solitudine. Fino a quando, almeno, troveranno un uomo intelligente come loro. «Ma se nessuno ti aiuta, crolli».
Ne sa qualcosa il regista Giulio Base, membro del Mensa Italia. Lui è riuscito a non essere infelice grazie a un antidoto potente, i genitori: «Quando la maestra lo chiamò, perché a un test ero risultato sopra la media, risero. Avevano la quinta elementare, non ci credevano. Mi hanno te
nuto con i piedi per terra, giusta-
mente. A scuola andavo bene ma
non benissimo. Preferivo diver-
tirmi». Poi la doppia laurea, in
Lettere e in Teologia, «con qual-
che difficoltà, perché mi aveva-
no costretto a fare ragioneria e
non conoscevo il latino».
Alessandro Sala, anche lui nel
Mensa Italia (ha 160 di Q.I. ), fi-
sico a Trieste, suona il basso con
la band metal Rhapsody of Fire,
e fa tournée in tutto il mondo. «Per fortuna non devo timbrare il cartellino. In laboratorio lavoro con rapidità, arrivo al risultato, poi mi trasformo in musicista. Mi sento realizzato». A differenza del regista, però, lo scienziato non ha gran bei ricordi: «A due anni e mezzo già scrivevo e leggevo. Mia madre interrogava mio fratello maggiore sui compiti e rispondevo io. A scuola mi annoiavo: se sai già le risposte, che ci stai a fare? Preferivo rinchiudermi in casa e studiare astronomia. E la prima ragazza l’ho avuta a vent’anni». Una via d’uscita alla fine c’è, per reggere allo stress di un alto potenziale. La spiega la stessa Siaud-Facchin: «Importante è avere genitori attenti ma non pressanti che aiutino a risollevarsi quando si sprofonda, utilizzando l’intelligenza come una risorsa e la sensibilità per sviluppare la creatività» conclude. «Se ci si riconcilia con la propria intelligenza e si canalizza questa grande energia, si scoprono prospettive inedite per costruire e creare». E vivere bene. In fondo, poteva andare molto peggio.