Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 14/11/2016, 14 novembre 2016
“GIÀ DA BAMBINO GLI ALTRI GENITORI DICEVANO AI FIGLI: È UN DELINQUENTE”. [Intervista a Gerard Depardieu] – Gerard Depardieu dice che non tutto è tangibile e sostiene persino sia una gran fortuna: “Non possiamo controllare ciò che ci sfugge e ciò che ci sfugge è l’essenziale
“GIÀ DA BAMBINO GLI ALTRI GENITORI DICEVANO AI FIGLI: È UN DELINQUENTE”. [Intervista a Gerard Depardieu] – Gerard Depardieu dice che non tutto è tangibile e sostiene persino sia una gran fortuna: “Non possiamo controllare ciò che ci sfugge e ciò che ci sfugge è l’essenziale. È la magia dell’esistenza. Se fossimo consapevoli di essere felici ci perderemmo la metà di quella stessa gioia”. A occhio, nella sua generosa attitudine ai piaceri, Depardieu non si è lasciato vivere. Ancora viaggia, sbuffa, ride, suda, impreca, urla al cielo, scherza e scrive come faceva nella New York immaginata da Marco Ferreri, nei lunghi mesi con Bertolucci sul set di Novecento, o negli interni sofferti di Truffaut. Innocente, edizioni Clichy, è l’ideale seguito della sua autobiografia. Un manifesto libertario, tenero e languido, incendiario e polemico, in cui le riflessioni su Edgard J. Hoover e sugli Stati Uniti non sono più importanti dei ricordi della selvaggina e del vino di Borgogna bevuto con Jean Gabin all’epoca in cui Depardieu era solo un ragazzo e non un signore a un soffio dai 68 anni con più 160 film alle spalle. “Con Gabin – racconta – ci sedevamo a tavola alle undici e restavamo a mangiare fino al primo pomeriggio. Aveva visto tutto e nel tempo aveva delimitato il confine dei propri interessi: il cibo era tra quelli. Poteva apparire irsuto e respingente, ma in realtà era un gran signore che quando parlava non aveva il vizio di essere banale. Lui e Bernard Blier sono stati paterni. Fondamentali. Mi hanno aiutato a trovare lavoro e – cosa più importante – si sono fidati di me aprendomi il loro mondo. Era un altro mondo, quello. Il mondo in cui sono cresciuto. Un mondo in cui ogni cosa sembrava possibile”. Saltimbanchi, attori, ballerini, night e locali, osterie e retropalchi, vanterie ed espedienti, animatori: “Che poi ci raccontavano di essersi messi le banane nelle mutande prima di invitare le signore sulla pista”. In Innocente scorre un’altra Francia: “La Francia presessantottina”, in cui Depardieu aveva vent’anni e ancora non sapeva che avrebbe avuto modo di cambiare idea: “Ho ascoltato gli altri e ho capito tante cose. Truffaut, ad esempio, credevo fosse solo un piccolo borghese. Per non guardare pigramente lui e la sua opera e per capire veramente che meraviglia di uomo pieno di storia, avventura e romanzo fosse, l’ho dovuto conoscere. Veniva dalla strada e nonostante l’educazione e la classe, era rimasto lo stesso ragazzo che era a vent’anni ”. Dalla strada veniva anche Depardieu: “A Châteauroux, i genitori degli altri bambini ammonivano i figli e li tenevano lontani da me: ‘È un delinquente’– dicevano – con lui non devi giocare’. Ho dovuto tagliare un cordone e iniziare il mio viaggio lasciando una famiglia che forse, a ben vedere, non mi avrebbe neanche voluto perché mia madre rimase incinta proprio nel momento in cui si era decisa a lasciare mio padre”. Da apolide in rotta con la natia Francia e ora a stretto contatto con la Russia, Depardieu giura di trovarsi benissimo: “Più che con Putin, criticato da quegli stessi giornalisti che non solo non conoscono lui, ma neanche hanno idea di chi sia il cittadino medio nella Russia di oggi, con la spiritualità di quel Paese. Dalla fisicità dei loro riti. Dalla liturgia che si trasforma in festa. Nelle chiese cattoliche si respira sempre una certa aria di crocifissione. Nel rito ortodosso invece avverti allegria e desiderio di una condivisione felice, quasi da sagra campagnola”. Alla spiritualità, da bambino, Depardieu arrivò per vie traverse: “In verità non fui neanche battezzato. Vivevamo in un quartiere cattolico, ma soldi da spendere in comunioni e battesimi non ce n’erano. Avevo frequentato catechismo, ma solo per qualche tempo. Prima che il prete mi cacciasse perché a suo dire avevo pensieri impuri e disegnavo donnine senza veste”. Il problema, dice Depardieu: “Era l’estrazione sociale. Il denaro abbatte qualunque barriere. Se fossi stato ricco, quel pastore mi avrebbe tenuto tra le pecore”. All’età acerba, ai precettori, alle tonache e alle evasioni, pensava anche Fellini: “Che anche a settant’anni ti riportava ai tempi in cui vestivi con i pantaloni corti e innocenza era un termine che aveva ancora senso. Per Fellini andare indietro con i sogni e fissare quell’istante infantile fatto di aspirazioni e perfidie, era essenziale. Fellini lo conobbi a fondo nei tanti pranzi in cui con Marcello Mastroianni, imprecava contro i produttori e il sistema cinematografico. Si lamentava di avere delle idee e di non riuscire a metterle in pratica. Trovare i soldi per produrre i suoi film era diventato sempre più difficile come oggi sarebbe un’impresa per tanti registi con cui ho lavorato e che da Ferreri in giù avrebbero trovato la porta chiusa. Fellini l’aveva capito. ‘Me ne andrò – diceva – con tanti film da fare che non si gireranno mai’”. I rimpianti non gli piacciono, ma fa un’eccezione: “C’è stata un’epoca in cui potevi parlare con Marcello e Federico, Mario Monicelli e Bernardo Bertolucci e renderti conto che il cinema pulsava di una leggerezza lieta che in seguito si è dissolta. Erano persone colte, quei registi, oneste e determinate a raccontare. Senza motivazioni economiche e senza questa mannaia del profitto e del guadagno a indirizzare scelte e tendenze”. L’arte, riflette Depardieu: “Se esiste per calcolo semplicemente non è arte. Mi immalinconisce pensare ai gusti del pubblico e sapere che c’è gente, nel cinema o nella letteratura, che modella il proprio manufatto ipotizzando l’impatto di ciò che scriverà e di quello che la gente vuole acquistare”. Se moda è una parolaccia, Festival un vocabolo da salvare: “Non è vero che sono morti e anzi, in un panorama che già oggi vede produrre il novantasette per cento dei film in lingua inglese, più che mai, hanno un valore di testimonianza e di libertà”. In Innocente, insieme a un ritratto non benevolo della Francia e del cinema francese, si legge che “Il cinema deve essere vero, cioè pericoloso”. Gerard beve acqua, ci pensa: “C’è scritto perché ci credo. Tutto il libro è questo in fondo, un privilegio da autodidatta. Ho parlato, un orecchio attento ha ascoltato e i pensieri sono stati filtrati in presa diretta. Il cinema deve essere pericoloso ed è un po’ ridicolo idealizzare chi il cinema, anche ferocemente, l’ha fatto. Quasi tutti gli attori importanti che ho conosciuto erano persone difficili. A volte cattive, altre menefreghiste, altre ancora nevrotiche, raramente interessate a chinarsi sui problemi degli altri. Erano egoisti e selvaggi, spesso non simpatici e anche per questo erano immensi”. Pausa: “Non volevano piacere, volevano solo raccontare”.