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 2016  novembre 14 Lunedì calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - CHE SUCCEDE AL MESSICO DOPO TRUMP


http://www.trend-online.com/ansa/il-dollaro-riduce-le-perditementre-vola-lo-yen-e-precipita-il-peso-messicano--254883/
9 NOVEMBRE
Dollaro ancora in calo sulle maggiori valute internazionali, ma con perdite lievemente ridotte : il *Dollar Index *cede lo 0,45% e si riporta a 97,41 dollari dopo minimi in zona 95,88. Le conseguenze della elezione di Donald Trump alla presidenza si sentono sul peso messicano che perde l’8,76% sul biglietto verde, il cambio *USD/MXN *vola così a quota 19,92. E’ una debacle per la valuta messicana alle prese con un nuovo inquilino della Casa Bianca che ha annunciato la costruzione di un muro per arginare l’arrivo dell’immigrazione dal sud e ha definito l’accordo di libero scambio NAFTA il peggiore accordo mai firmato. In pratica il peso messicano sta subendo il peggiore ribasso dal dicembre 1994 quando il governo annunciò una svalutazione del 13-15% durante la cosiddetta Tequila Crisis. Al gennaio di quello stesso anno risaliva l’entrata in vigore dello stesso NAFTA, l’accordo di libero scambio tra Messico, Stati Uniti e Canada.

Il vantaggio del dollaro sul peso messicano è praticamente l’unica buona notizia per il biglietto verde che cede lo 0,31% sull’euro (dopo ribassi più consistenti stamane), lo 0,21% sulla sterlina *e l’1,65% sullo *yen. Da notare che proprio la *moneta del Sol Levante *agisce in queste ore da bene rifugio con un rialzo dell’1,35% anche sull’euro e dell’1,43% sulla sterlina.

(GD)


SARCINA
NEW YORK Via «due o tre milioni di migranti illegali». Sono «criminali, pregiudicati; fanno parte delle gang; sono trafficanti di droga». Verranno «cacciati» o «messi in prigione». Donald Trump conferma la linea dura sull’immigrazione. Rispunta anche il muro al confine con il Messico che non era stato più evocato dopo la vittoria dell’8 novembre. «Lo faremo e sarà il Messico a pagarlo. In alcuni tratti potrà essere una recinzione, ma lo faremo». Il presidente eletto ha parlato a lungo in un’intervista a «60 minutes», una delle trasmissioni più seguite della Cbs . L’emittente ha anticipato nel corso della giornata alcuni stralci, mentre la versione integrale è andata in onda alle 19 (l’1 di notte in Italia).

Trump ha ripreso, dunque, i toni della campagna elettorale su uno dei temi che si sono rivelati decisivi per battere Hillary Clinton. L’uscita del neopresidente ha di nuovo spiazzato il vecchio gruppo dirigente del partito repubblicano. Lo speaker della Camera dei rappresentanti, Paul Ryan, ha commentato con la Cnn : «In questo momento le deportazioni di massa non sono una priorità per i repubblicani. Penso che dovremo tranquillizzare le persone su questa storia delle deportazioni».

Ieri sera Trump ha nominato il suo futuro capo di gabinetto: sarà Reince Priebus, presidente del Republican National Commitee, l’organo di governo del partito. In realtà il «transition team», il gruppo che sta curando il passaggio delle consegne alla Casa Bianca, sembra molto concentrato sul tema «law and order». Due giorni fa Kris Kobach, responsabile per l’immigrazione, aveva annunciato che l’obiettivo era di «aumentare del 75%» le espulsioni rispetto all’era Obama. Secondo le stime vivono, e spesso lavorano, negli Stati Uniti tra gli 11 e i 12 milioni di stranieri senza permesso. Nel corso della campagna elettorale il costruttore newyorkese aveva prima promesso di mandarli via tutti. Poi era sceso a 6 milioni. Ieri, nella prima uscita televisiva da neopresidente, si è attestato «sui 2-3 milioni».

L’annuncio di Trump ha già suscitato polemiche e ulteriori divisioni nell’opinione pubblica. Nelle principali città americane sono state programmate proteste anche per la serata di ieri. Sabato migliaia di persone avevano marciato a New York, Chicago, Los Angeles. A Portland, nell’Oregon, gruppi di attivisti hanno lanciato oggetti contro la polizia. Venti arresti.
Giuseppe Sarcina

GAGGI
T rump cerca di non deludere gli elettori ai quali aveva promesso un muro «bello e imponente» al confine col Messico ed espulsioni di massa per 11 milioni di immigrati illegali. Ma, dopo aver cambiato rotta sulla sanità (pronto a mantenere alcuni punti cardine dell’odiata Obamacare), su Obama (il presidente «disastroso», il peggiore della storia americana, è diventato «a very good man», un leader che ha fatto molte cose buone) e su Hillary Clinton (prima «nasty woman», il demonio, una truffatrice da mandare in galera, ora una «donna forte e brillante, una grande avversaria»), il presidente eletto ridimensiona anche il punto più controverso della sua agenda.

Sì alle espulsioni, ma ad essere mandati via saranno solo i clandestini che Trump definisce delinquenti, quelli che hanno commesso reati gravi. Due milioni, forse tre, dice con calcolo nasometrico The Donald. Sarebbe comunque un trauma sociale ed economico. E, certo, milioni di famiglie ora hanno paura: verranno cacciati solo i veri delinquenti o anche chi ha preso un multa? Ma la minaccia di espellere 11 milioni di clandestini non c’è più: sugli altri si deciderà dopo aver messo in sicurezza le frontiere col celebre muro. Che ora, ammette Trump, in molti tratti di confine potrebbe essere un semplice reticolato. Che c’è già.

Quanto alla revisione degli accordi di libero scambio Nafta, Trump andrà avanti: pensa che con meno immigrati, più protezionismo e le opere pubbliche (muro compreso) l’economia rifiorirà. Ma non spingerà troppo l’acceleratore perché Pena Nieto, il debole presidente messicano che cerca l’accordo con lui, ha le elezioni nel 2018. Se lo indebolisce ancora più e alimenta un’ondata nazionalista, tra due anni Trump rischia di avere a Città del Messico un leader molto più duro e ostile.

RAMPINI
FEDERICO RAMPINI
DUE giorni prima aveva promesso di «unificare l’America». Ieri sera Donald Trump ha rilanciato la minaccia più lacerante che ci sia: «Espellerò dai due ai tre milioni di immigrati». Parole gravi, che aveva già pronunciato in campagna elettorale, ma che seminano più allarme e paura in bocca al presidente-eletto. L’annuncio fatto ieri nell’intervista alla Cbs è solo parzialmente mitigato da alcuni correttivi.
SEGUE A PAGINA 23
PRIMO: in contemporanea il presidente della Camera Paul Ryan — i cui voti sono necessari per fare passare riforme dell’immigrazione — ha contraddetto implicitamente Trump. «La priorità — ha detto Ryan — è rendere il confine più sicuro », cioè prevenire gli ingressi di nuovi clandestini, anziché deportare quelli che già sono qui. Lo stesso Trump peraltro ha già declassato il Muro col Messico, precisando che in certe zone della frontiera potrebbe accontentarsi di costruire… una “cinta”. Infine ci si può sempre consolare col fatto che Trump era partito in campagna elettorale dalla minaccia di espellere tutti gli 11 milioni di immigrati senza permesso di soggiorno. Se è già sceso da 11 a 3, di qui all’Inauguration Day del 20 gennaio c’è speranza?
Ma le parole del neopresidente fanno molto male, comunque. Intere comunità di stranieri, che da anni vivono e lavorano, pagano le tasse, hanno i figli a scuola, si sentono piombare in uno stato di angoscia, non sanno cosa sarà di loro. Trump sostiene di voler cacciare per primi «i criminali, i membri delle gang, i trafficanti di droga». Fosse vero, non arriverebbe a due o tre milioni. La verità è che lo stesso reato di immigrazione clandestina può trasformarti in “criminale”, allora sì che la platea dei soggetti a rischio di espulsione si allarga molto.
Dalle minacce ai fatti per fortuna la distanza è abissale. Trump non ha i mezzi per individuare gli immigrati senza documenti di soggiorno, arrestarli e rinviarli nei paesi di provenienza. Dovrebbe dispiegare un esercito per farlo. Le forze federali specializzate ( Border Patrol, Immigration and Customs Service) sono inadeguate. Le polizie locali prendono ordini da sindaci e governatori, non dalla Casa Bianca. È il federalismo, bellezza: quella bandiera dei poteri locali che per decenni fu orgogliosamente rivendicata dalla destra, ora diventa l’ultimo contropotere in mano alla sinistra. Due Stati come la California e New York (il primo e il terzo per popolazione e ricchezza) sono governati dai democratici e non daranno la caccia all’immigrato. Il sindaco di New York, Bill de Blasio, negli ultimi anni aveva distribuito agli immigrati senza “Green Card” una carta d’identità cittadina che equivale ad una sorta di sanatoria di fatto. De Blasio ha già annunciato che, qualora l’Amministrazione Trump dovesse chiederglieli, distruggerà gli archivi per impedire che quelle liste di stranieri siano usate ad altri fini.
Comunque è poco probabile che Trump voglia andare fino in fondo. La caccia al clandestino che gli procurava applausi nei comizi, nella realtà lo caccerebbe in un mare di guai. Anche ammesso che al prezzo di una militarizzazione del paese si riesca a lanciare una caccia a milioni di persone, sarebbe la paralisi di interi settori economici. Ristoranti e alberghi, pulizie a domicilio, fattorini per le consegne, l’agricoltura e l’edilizia: se ci sono 11 milioni di immigrati senza documenti di soggiorno, è perché l’America ha bisogno di loro. La caccia allo straniero provocherebbe rapidamente la rivolta di tanti piccoli e grandi imprenditori, una base sociale che Trump non vorrà inimicarsi. Non è questo il modo per rispondere alle tensioni — reali — legate alla società multietnica. Lo stesso operaio bianco del Michigan che ha votato Trump perché si sente un dimenticato, uno straniero in casa sua, non andrebbe a raccogliere pomodori in Florida per il salario di un ecuadoregno.
Poiché Trump ha dimostrato di essere un bugiardo seriale, un impostore e un venditore di fumo, è probabile che i proclami xenofobi resteranno tali: rumore e propaganda. Magari il neopresidente farà qualche visita al confine col Messico, inaugurerà un cantiere di costruzione di un pezzettino di Muro (o cinta?), si prenderà il merito per l’espulsione di qualche migliaio di spacciatori, e dichiarerà vittoria. Tanto più che già da qualche anno, per fattori macro-economici esterni, i flussi d’ingresso dal Messico si sono fortemente ridotti.
Intanto però una generazione di studenti e alunni delle scuole, nati in questo paese da genitori “clandestini”, avranno vissuto l’incubo di vedere padre e madre arrestati, rinchiusi in centri di smistamento, espulsi verso paesi con i quali non hanno più un vero rapporto da molti anni. Inauguration Day è lontano due mesi, e già questa presidenza comincia malissimo.

ROSALBA CASTELLETTI

NAZIONALE - 14 novembre 2016
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14/11/2016
l’america di trump
Qui Tijuana
Di qua la madre dall’altro lato i figli “Non siamo dei criminali”
DALLA NOSTRA INVIATA
TIJUANA (MESSICO). Ogni venerdì sera Michael James Paulsen fa le valigie e insieme ai tre figli si mette in macchina per un centinaio di chilometri da Vista, una città a Nord di San Diego, per raggiungere la moglie Emma Sanchez a Tijuana, appena oltre il confine messicano. La coppia segue la stessa routine da oltre dieci anni, da quando Emma, originaria dello Stato di Michoacan, cresciuta a Guadalajara e entrata illegalmente negli Stati Uniti a 24 anni, è stata espulsa. «Il 6 giugno 2006. È stato allora che è iniziato il mio castigo (“punizione”, ndr), il 6-6-6. Mio marito lo chiama il “giorno del diavolo” ». Oltre 22mila immigrati negli Stati Uniti senza autorizzazione con almeno un figlio nato negli Stati Uniti sono stati rimpatriati nella prima metà del 2014, secondo i dati più recenti dell’Immigration and Customs Enforcement (Ice), l’agenzia federale responsabile del controllo delle frontiere e dell’immigrazione. Emma ha attraversato il confine illegalmente nel 2003, nonostante tre anni prima — trovata dagli agenti di frontiera senza documenti — fosse stata bandita dal territorio statunitense per cinque anni. «Avevo completato gli studi come odontotecnica e volevo fermarmi solo il tempo necessario a mettere da parte i soldi per aprire una clinica a Guadalajara, ma dopo un mese ho incontrato Michael a una fermata del bus. Un mese dopo ci siamo sposati e poco dopo è arrivato il primo di tre figli». Alexader aveva quattro anni, Ryan tre e Brannon sei mesi quando Emma ha finalmente deciso di “regolarizzare” la sua posizione. Un cittadino americano può richiedere che il coniuge ottenga la residenza permanente o la “green card”, ma se questi ha vissuto senza documenti negli Stati Uniti viene bandito per un periodo che va dai 3 ai 10 anni. «Io avevo infranto la legge. Ero entrata in America illegalmente dopo che ero stata bandita nel 2000. Per questo mi hanno proibito di rientrare in America per dieci anni. Non importava che mio marito fosse un veterano dei Marines o che avessi tre figli e che stessi ancora allattando il più piccolo. Mi è crollato il mondo addosso». Da allora Emma vive a Tijuana e Michael a Vista con i tre figli. «È difficile crescere senza una madre», racconta Alex. «Quando mi chiedono di lei, non dico che è una deportata. La gente penserebbe che è una criminale, ma non lo è. Sappiamo che la nostra vita non è normale, ma io e i miei fratelli non ne conosciamo un’altra». Gli fa eco il padre Michael. «Li sto crescendo io: li porto a scuola, cucino, faccio il bucato, faccio tutto. Sono la mamma e il padre. Pago due affitti. A volte faccio due lavori. È dura. La “sentenza” potrebbe finire tra qualche mese. E finalmente io e Emma potremo riabbracciarci dall’altra parte del muro».
( r. cas.)
©RIPRODUZIONE RISERVATA ALEXANDER PAULSEN “ Crescere senza mia mamma è difficile So che la mia vita non è normale, ma è l’unica che conosco


nortenos


«Bene, però non basta. Insieme al muro bisogna costruire le garitte per controllarlo, e mandare i doganieri lungo il confine a pattugliarlo». Per Tim Foley, l’ex paracadutista direttore dell’Arizona Border Recon, la conferma che Donald Trump alzerà la barriera promessa davanti alla frontiera col Messico rappresenta il riscatto della propria esistenza. Altre voci, però, rispondono che non servirà a nulla, mentre la deportazione dei 12 milioni di illegali dividerà solo le famiglie e il Paese.
Foley pattuglia ogni giorno il confine nella zona di Sasabe, a Sud di Tucson, andando a caccia di illegali: «Ne sono passati da 78 Paesi diversi, inclusi Somalia e Sudan». Lungo i 3200 chilometri di frontiera esistono già tratti difesi da barriere metalliche, che sono costate 6,5 milioni al miglio (1,6 km), ma non hanno fermato il transito. «Il 75% del traffico - spiega Foley - riguarda la droga, non i migranti. E i cartelli sono troppo determinati per lasciarsi fermare da un muro. Possiamo farlo alto 4 metri, ma vendono le scale alte 4 metri e mezzo. I narcos troveranno il modo di aggirarlo, perché già usano i droni per consegnare le partite. Oppure scaveranno tunnel». Questo è il motivo per cui Tim chiede a Trump di andare oltre: «Come in caserma, per rendere efficace il muro di difesa servono le guardie nelle garitte. Poi bisogna avere uomini che pattugliano la barriera. Nella zona di Tucson il Border Patrol ha circa 300 uomini, che però passano tutto il tempo negli uffici. Per fermare davvero il traffico devono schierarsi al confine: i numeri ci sono, basta cambiare tattica e turni».
Lo sceriffo della Maricopa County Joe Arpaio è stato per anni il simbolo della lotta agli illegali, ha sostenuto Trump, e il suo nome circola come possibile membro della nuova amministrazione: «Il muro - mi dice al telefono da Phoenix - è solo il primo passo». Arpaio è stato appena sconfitto nella corsa per la settima rielezione a sceriffo, proprio perché la comunità ispanica si è rivoltata contro i suoi metodi, che gli hanno procurato un’incriminazione per discriminazioni verso i latini: «Non era una condanna. Comunque il vero problema non sono gli illegali che vengono a lavorare, ma i criminali e i narcos. Infatti Trump parla di 3 milioni, non 12. Nella mia contea abbiamo 12.000 ispanici riconosciuti colpevoli di reati penali. La maggior parte lavora per i cartelli. Quando li deportiamo, però, il 39% prima o poi torna nelle nostre prigioni. Questa è la vera emergenza da fermare: non la deportazione in massa dei latini onesti venuti a lavorare, anche se nel farlo hanno violato la legge, ma i professionisti del narcotraffico, che fanno avanti e indietro tra la frontiera e il carcere perché guadagnano un sacco di soldi con la droga. Per riuscirci servono cinque cose: costruire il muro, pattugliarlo, costringere il governo messicano a collaborare nella lotta al narcotraffico, deportare gli illegali che commettono crimini e alzare le sentenze contro chi viene espulso e ritorna».
Nella valle del Rio Grande, la zona del Texas dove c’era stata l’invasione dei migranti bambini, fanno un altro ragionamento. Secondo Gilberto Ocanas, avvocato e operativo democratico, «la vera emergenza in corso al confine è la guerra fra i cartelli rivali, perché dopo la cattura del Chapo il gruppo di Sinaloa si è indebolito, e gli altri stanno cercando di scalzarlo». Ad agosto scorso persino Jesus Alfredo Guzman, figlio ed erede del boss, è stato rapito dai rivali della «Jalisco Nueva Generacion» per lanciare un segnale di sfida. Il traffico nella zona di McAllen avviene a cavallo del confine come se non esistesse. Alcuni agenti di dogana sono corrotti e prendono mazzette per farlo passare.
Questo darebbe ragione a Trump sul muro, ma Ocanas pensa che non abbia senso per motivi pratici. Non fermerebbe il traffico, perché la stessa polizia è complice, i cartelli hanno una rete oltre il confine, e non è difficile far passare i carichi oltre il muro. A non volerlo però sono soprattutto i messicani onesti e ricchi, che stanno portando i loro soldi negli Usa, in particolare nella valle del Rio Grande. Questa è una delle aree in maggior espansione economica in America, proprio perché sta ai messicani come Miami sta ai ricchi brasiliani. Loro non vogliono il muro perché sarebbe un disastro per il business. Chiedono invece una collaborazione più serrata fra Usa e Messico per combattere i cartelli. La strategia preferita sarebbe creare zone protette, dove la gente comincia a sentirsi sicura e il business legale fiorisce, dando alla manovalanza del narcotraffico la possibilità di fare gli stessi soldi, ma in maniera onesta. Insieme alle operazioni di sicurezza congiunte, per debellare i cartelli approfittando della guerra per la successione al Chapo. Il muro poi non ha senso perché questa zona è mista da sempre: i messicani chiamano tutti gli abitanti, da una parte e dall’altra del confine, nortenos, cioè messicani del Nord. Sono tutti imparentati, e molti di quelli che Trump vorrebbe espellere hanno figli o famigliari legalmente americani: non andrebbero mai via, o comunque tornerebbero.
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ILLEGALI

“È un meccanismo già oliato
Obama ne ha espulsi 2,5 milioni”
Il professor Franzen: ma le procedure possono durare anni

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Professor Niels W. Franzen, direttore di «Imigration Clinic» della University of South California, il progetto di deportare 2 o 3 milioni di clandestini è realizzabile?
«Gli Stati Uniti attualmente deportano tra i 300 e i 400 mila clandestini ogni anno, la presidenza Obama è stata una delle più severe in questo senso con oltre 2,5 milioni di deportati dal 2009 al 2015. Al netto di coloro che sono stati fermati al confine. Quindi i meccanismi sono già oliati da un punto di vista tecnico».
Come si individuano i clandestini meritevoli di deportazione?
«Prima di tutto con un intenso coordinamento tra governo federale e le autorità di giustizia criminale radicate sul territorio. Uffici degli sceriffi, polizia, agenti di frontiera, tribunali. In secondo luogo con controlli su imprese sospettate di ricorrere a manodopera clandestina, in particolare nel settore agricolo».
Una volta individuati e fermati cosa accade?
«Secondo la legge del 1996 il soggetto interessato non è subito deportabile. Per la maggior parte sussiste il diritto a essere giudicati da un tribunale dell’immigrazione e dovrà essere il giudice a decidere con decreto di espulsione. Al quale si può ricorrere ai gradi superiori di giudizio».
Tradotto in termini di tempo?
«Si tratta di procedure che possono durare dai tre ai sei anni, durante le quali il soggetto può essere imprigionato o meno a seconda dei casi. In caso di appello si va oltre. Attualmente ci sono 570 mila procedimenti giudiziari ancora pendenti in Usa».
Tradotto in costi?
«Diversi miliardi di dollari che il governo deve pagare. Secondo l’America Action Forum le previsioni di spesa arrivano a 400 miliardi di dollari nell’arco di venti anni».
Nella pratica come avviene la deportazione?
«Se si tratta di messicani ad esempio si organizzano pullman del governo scortati con cui i clandestini vengono portati al confine che passano a piedi attraversando i terminali di accesso. Si stanno sperimentando anche “charter” governativi chiamati “Interior deportation flight”, diretti a Città del Messico per impedire che i deportati provino subito a rientrare. Per altre nazionalità si usano voli di linea con i deportati in custodia sino all’imbarco».
Un’ultima cosa, si è detto che Obama ha deportato più di ogni altro presidente in passato, allora perché tutto questo clamore con Trump?
«Perchè le azioni di Obama, per quanto aggressive, facevano distinguo precisi, ad esempio non separare le famiglie, non prendevano di mira gli illegali che avevano figli nati in America e quindi cittadini Usa. O coloro che non avevano commesso reati. E non prendevano di mira gli illegali che si trovavano da molto tempo negli Stati Uniti dove avevano lavorato, pagato le tasse e costruito una vita. Ciò che si teme è che Trump vada oltre».


[fra. sem.]

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