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 2016  novembre 13 Domenica calendario

“ERA ORA, FINALMENTE SONO CONSIDERATO UN VENERATO STRONZO” [Intervista a Stefano Benni] – Pin vuole partire, Alina è obbligata a restare, Stefano Benni scrive La bottiglia magica e ne agita una di succo di frutta

“ERA ORA, FINALMENTE SONO CONSIDERATO UN VENERATO STRONZO” [Intervista a Stefano Benni] – Pin vuole partire, Alina è obbligata a restare, Stefano Benni scrive La bottiglia magica e ne agita una di succo di frutta. Ci sono mappe, prigioni e alberi anche in un bel libro – pubblicato da Lizard – che dipinto da Luca Ralli e Tambe porta la fantasia a colori di Benni in mare aperto, più in là della Luisona, dei 40 anni di Bar Sport, del bianco e nero della rievocazione o della definizione stringente: “Non posso chiamarla graphic novel perché i miei amici disegnatori ci tengono molto alla precisione, forse ‘storia illustrata’. Ma non trovare una definizione per La bottiglia magica è un buon segno. Non si riusciva a trovarne una neanche per Pompeo. Che è complicato dire cosa sia stato, proprio come è impossibile incasellare Andrea Pazienza”. Lo portammo in scena con una serie di diapositive sullo sfondo perché il testo di Pompeo aveva forza a prescindere dai disegni ed era teatralissimo. Insieme a Lolita, uno dei miei soli due spettacoli vietati. Ci intimarono di mettere un cartello in sala. Suggeriva la visione – ‘per i temi trattati’ – a un pubblico adulto. E noi il cartello lo mettemmo”. Benni ha 69 anni. Ha girato film, scritto romanzi, racconti, satire, poesie e teatro. Ha immaginato vacanzieri nudisti a Filicudi, trame orwelliane e campionati mondiali di Pallastrada. Ha inventato formule profetiche ma qualcuna l’ha dimenticata: “Non mi ricordo tutto quel che ho scritto. Alcune cose sono invecchiate, altre si sono spente. Alcune erano robaccia, altre non fanno più ridere e altre ancora hanno attraversato due o tre generazioni”. Benni assistette prima a un’epifania: “La novità liberatoria della satira di allora fu il suo essere al riparo dal meccanismo del politically correct”, poi a un funerale. “La grande stagione finì con un’indigestione e con lo spettro della retorica si affacciò una visione un po’ statale della professione. Ogni giornale aveva la propria vignetta, cominciarono le celebrazioni e si persero slancio e verve”. C’era la politica: “E rimaneva una cosa seria, seriosa. Al primo corsivo che scrissi per il Manifesto, Rossana Rossanda insorse ‘Chi è questo scemo?’. Diventammo amici un po’ alla volta, con circospezione”. Dal politichese al giapponese, Benni è stato tradotto ovunque. È nato a Bologna, ma è cresciuto sull’Appennino. Circondato dalle mosche di Trastevere, per vie traverse, torna alle origini: “La campagna era bella, ma non era tutta rose e fiori. Mi fanno ridere quelli che dicono ‘ah gli odori della campagna’. Le mucche non sapevano di Chanel e neanche il letamaio”. Dalle parti di Monzuno lei era soprannominato Lupo. Anzi il soprannome le è rimasto. Perché mio nonno mi aveva trovato con i cani, a sole già calato, a imitare l’ululato del lupo. Vivevo al lume di candela, nella casa buia, e uscire con i cani per prendere sonno – un atto di solidarietà – mi rassicurava. È vera questa storia? Verissima, anche se ogni volta la romanzo di nuovo. Mi fecero vedere da uno psichiatra, fortunatamente intelligente. Disse che ero spaventato e selvatico, ma quasi normale. Sono cresciuto con l’acqua del pozzo e sono arrivato al computer. In 60 anni ho vissuto un’accelerazione folle che la mia scrittura non poteva ignorare. Sono fortunato. Posso guardarmi dietro, nel fondo del pozzo e proiettarmi nello schermo di un computer. A molte accelerazioni vanno incontro Pin e Alina, i giovani protagonisti de La bottiglia magica. È un omaggio a due testi che io amo molto. Pinocchio e Alice nel paese delle meraviglie. La bottiglia magica è un libro che si può leggere dai 12 ai 105 anni, in cui il divertimento è circondato dalle ombre. Come Alice e Pinocchio, due libri molto scuri e insidiosi, nient’affatto consolatori. Di versioni dei due classici ne abbiamo viste tante. Disney con Pinocchio non ci capì un cazzo e fece cantare il grillo come Frank Sinatra. Avrebbe potuto fare una gran cosa Benigni, ma forse si concentrò troppo sul mercato americano e sui buoni sentimenti. Pinocchio è un libro feroce. Quello che accade al protagonista è terrificante. Lei aveva provocatoriamente definito Lewis Carroll “Il casto pedofilo”. Nabokov era veramente innamorato di Lolita? Letterariamente sì. Se ne potrebbe parlare per una vita, ma è davvero così importante? E allora Achab e la balena che rapporto hanno? Un rapporto erotico? Se vogliamo psicanalizzare la letteratura finisce che non leggiamo più, interpretiamo. Preferisco evitare. Mi hanno appena spedito la ricerca di un professorone americano su Alice Liddel. Penso che non la leggerò. Voglio tenermi in testa il mistero. Tra le pagine de La bottiglia magica compare anche David Bowie. Negli Anni 70 ero in vacanza a Londra e di Bowie avevo sentito parlare poco. Un amico disse: “Andiamo a questo concerto” e si mise in fila per 8 ore. Grazie al suo sacrificio vidi qualcosa che non dimenticherò mai. Cosa vide? Un folletto fantastico, che per tutta la vita, anche quando campava solo di latte e coca, seppe dimostrarsi serissimo e mantenere l’enorme dignità dell’artista totale. Bowie mi sorprese. Fu importante come leggere un libro chiave. Mi dissi: “Ma allora il rock può essere anche questo”. La follia, i costumi e l’eros, certo, ma soprattutto l’impatto sul modo di intendere la vita di chi lo ascoltava. Gli operai inglesi cominciarono ad andare in giro con l’ombretto, fu un’esplosione di libertà. Che anni furono i ‘70? Anni fantastici e terribili, in cui lo scambio tra artisti fu straordinario e disordinato. Di sicuro il ’77 fu diverso dal ’68, anche se nel ricordarlo si indulge alla memoria dei grandi errori, della droga e degli aspetti più sgradevoli, dimenticando che l’Italia ebbe una propria tormentata controcultura. Ma lei se li era letti davvero Deleuze e Guattari? Purtroppo sì (Ride). Insieme a Baudrillard, erano nella triade obbligatoria. Il povero Emanuele Severino non se lo filava nessuno. Io ero onnivoro. Leggevo Gadda, Céline ed Eliot e nel collettivo ero lo sporco controrivoluzionario, il compagno che affrontava i volumi sbagliati. Rivendicavo il diritto di scegliermi i miei autori. E trovavo più ispirazione in Eliot e Bowie che in tutto L’Anti-Edipo. Eliot l’ho portato in scena con musicisti jazz, di Bowie ho tradotto i testi che sono ermetici, profondi e molto, molto belli. Ermetico e neo premio Nobel è Bob Dylan. Anche se considero i testi di Bowie superiori ai suoi e nonostante sostenerlo mi sia costata una rissa notturna con alcuni amici, sono felicissimo per il Nobel. Le canzoni di Dylan sono poesie. Sia chi plaude, sia chi insorge, comunque, ha ottimi argomenti e pieno diritto di esporli. Accettiamo le polemiche per quello che sono, degli scontri di passioni accesi e legittimi. Lei il Nobel a chi l’avrebbe dato? Forse a Joyce Carol Oates, o a Roth. Ma è anche possibile che “i 12 vecchietti con la prostata rancida” come dice Irvine Welsh (e mi dispiace che lo dica perché soffro di prostata e Irvine non sa che un giorno toccherà anche a lui) si siano arrabbiati di fronte alle pressioni di “quelli-che-quest’anno-tocca-agli americani”. Così hanno deciso di mandare tutti a fare in culo e di spiazzare l’uditorio. Hanno una responsabilità pazzesca quei vecchietti. O si accetta la loro decisione o ci si incazza. Ma ripeto, salviamo la polemica. Fa parte della passionalità della letteratura. Si ricorda la tripartizione arbasiniana? Bella promessa, solito stronzo, venerato maestro. Io aspiro a venerato stronzo, di più non posso chiedere. Ascoltavo la musica e volevo giocare a calcio. Non ero uno di quelli che diceva “voglio fare lo scrittore” e non mi aspettavo di diventarlo. Per me gli scrittori erano inaccessibili. Pensavo vivessero su un altro pianeta. Mi sono avvicinato alla scrittura piano piano. Poi cosa è successo? Amavo leggere e ho trovato qualcuno, specialmente Grazia Cherchi, che nonostante la mia dubbiosa vocazione, mi ha spinto a impegnarmi. La sua voce, il suo ironico: “Si può fare meglio”, mi accompagna ancora. Ero vanitoso ed ero convinto di dover far ridere a tutti i costi. Sommavo aggettivi e acrobazie linguistiche per far vedere di esser bravo. Grazia mi fece lavorare sui miei difetti e sulle mie debolezze. Mise in discussione tutto e anche a prezzo di litigate furibonde, mi trasformò. Le devo tanto. È grazie a lei che mi sono sentito per la prima volta scrittore. Lo ha fatto nonostante la critica – ha detto lei: “Abbia nei miei confronti atteggiamenti che vanno dall’odio atavico, alla fastidiosa sopportazione, fino al sospettoso rispetto e all’entusiasmo amicale”. Alla lunga, vedendo che non rispondevo mai e che avevo lettori di qualità, si sono arresi anche i critici che mi consideravano sottocultura. Per molti di loro ero e resto un venerato stronzo, e come ho già detto, mi sta benissimo. Benni, ma lei è un monumento. “Sui monumenti – diceva De André – ci cagano i piccioni”. Fabrizio è il mio rimpianto artistico più grande, quello di non aver fatto quasi nulla insieme. Tutti e due timidi, lui più di me, ci scrivevamo lettere e telegrammi. Per lui provavo la sana invidia che si prova nei confronti di chi ha un talento che ti manca. Lo insultavo: “Sei un maledetto, io ci ho messo 4 anni a finire il libro e tu nei 2 minuti di una canzone (ad esempio Novecento) hai detto tutto”. De André possedeva un’ironia unica. Avevamo molte letture in comune, ma caratterialmente eravamo diversi. Vi vedevate molto? Le rare volte in cui ci incontravamo non parlavamo dei massimi sistemi. Mi parlava di come usava il dialetto genovese e io gli rispondevo con le parolacce in emiliano. Con le lettere cambiava tutto perché la distanza preserva le belle amicizie. Le ho ancora tutte. Cos’è che la fa ridere ancora? Rido ancora molto con Totò e Stanlio e Ollio. E come tutti, rido di cose di cui mi vergogno e di cui non vorrei ridere. Di battute da cinepanettoni, o barzellette razziste, o di uno skater che finì contro una vetrina. Lì per lì ho riso, poi sono andato ad aiutarlo. Che rapporto ha l’Italia di oggi con l’autoironia? L’autoironia è un dono raro e l’Italia sembra divisa tra la vanità dei “leinonsachisonoioisti” e la resistenza tenue dei “mifacciaipiaceristi”. Ma la vanità è difficile da gestire e avere un Totò interno che ci irrida con un “Mi faccia il piacere” è un’impresa. Non so se tutti gli autori comici e di satira ce l’hanno. Se ti dicono: è troppo facile starne fuori, vuole dire che loro ci sono dentro fino al collo. La frase è sua. Ma siamo sicuri? Come tutti gli aforismi puoi girarlo da qualunque lato, ma ultimamente, è innegabile, è in voga un nuovo editto: “Se piace a tutti deve piacere anche a te”. E se non ti piace sei snob o radical chic. Io non credo. Non disprezzo niente e non dico “fa schifo”, amo la differenza, non il disprezzo, perché il disprezzo uccide tutto, ma le differenze sono vita, sono loro che creano l’unicità della tua cultura. Voglio continuare a dire con forza: “Non mi piace”. Anche se un’opera vendesse milioni di copie, e riempisse 10 stadi. Un miliardo di like non mi farà mai ritenere certi artisti pop dei veri musicisti. Altrimenti la cultura diventa il mondo delle maggioranze e invece – salvaguardando anche quelle – è abitato da minoranze fertili. Non amo la resa senza condizioni al gusto comune né l’elitarismo eremitico. E dove è possibile stare? Siamo finiti in un mondo estremamente difficile da semplificare e con mille quotidiane ragioni per lagnarsi. Io lotto tutti i giorni con la mia natura terribilista, con il dire “tutto è una merda”. Ho scritto che da quando è morto John Lennon è iniziato il declino della cultura mondiale, ma è una provocazione. Almeno per metà. Si sente un misantropo? Per niente, qualcuno ha detto che sono un misantropo con tantissimi amici. Concede pochissime interviste. Ho fatto il giornalista e sono un po’ sospettoso. Sento molto la responsabilità della parola. Può darsi che mi difenda anche troppo, ma diventando vecchio non voglio che le parole vengano sprecate. Poi qualche volta le spreco anch’io, ma questa è un’altra storia. Non vuole che vengano sprecate e teme siano fraintese? Mi dà un immenso dolore il fraintendimento, la sciatteria, la fretta nel riportare la risposta. Non cedo al ricatto dell’attualità, voglio esitare e dubitare. Con il web, quando una cosa è detta, è detta per sempre. È bello quando firmi un tuo pensiero, è bello che un libro possa sfidare tutte le interpretazioni e le banalizzazioni. Sentendo molto la responsabilità della parola, chiedo al mondo delle parole la maggior precisione e profondità possibile. Lo so che è difficile, ma ci provo fino in fondo. Forse così perdo molte occasioni “televisive”, ma non me ne frega niente. Non si vede nella tv di oggi? Se mi dessero un’ora per parlare di Lolita, andrei. Raggiungerei uno share dello 0,3 per cento, ma sarei contento. Da Fazio è andato. Due volte in 25 anni. È stato tra i pochissimi a invitarmi e non posso che ringraziarlo, ma in 10 minuti non si può dir niente. Lui aveva giustamente una trasmissione da condurre, io andavo in una direzione e lui partiva nell’altra. Non è un dramma, il bello della tv è che non è obbligatoria. Ho scritto centinaia di racconti, amati da tanti, ma non c’è mai stata una volta in cui la tv italiana li abbia considerati per un progetto. Un dirigente li definì “troppo complessi e arrabbiati”. Una vigliaccheria culturale. Una brutta vigliaccheria culturale. Ci si indigna perché nel web circolano contenuti stupidi e superficiali, ma si accetta che stupidità e superficialità dilaghino in televisione. Le dispiace? È un dispiacere sanato dal fatto che nessuno possa dirmi: “Vendi i libri perché vai in tv”. E in tv, ci sarei andato soprattutto a parlare dei libri che amo, non a parlare di me. Andrebbe? Adesso che sono diventato un venerato stronzo non più. Come ho scritto una volta, ogni scrittore si sente sopravvalutato nei giorni pari e sottovalutato nei dispari. Se penso a Melville, ignorato per tutta la vita, capisco che mi è andata sin troppo bene. È felice di quel che ha fatto? Felice e incredulo. Quando sulla scansia della libreria mi vedo tra Beckett e Borges rimango senza fiato. Non è falsa modestia, è gratitudine. Sono un lettore, prima che uno scrittore.