Carlo Tecce, Il Fatto Quotidiano 12/11/2016, 12 novembre 2016
ECCO QUANTO COSTA COMPRARE IL VOTO ALL’ESTERO: 160 MILIONI
Il voto degli italiani all’estero non rispetta la Costituzione. Come ha denunciato l’ambasciatrice Cristina Ravaglia – che di mestiere per la Farnesina sorveglia le operazioni elettorali e le politiche migratorie – nel documento riservato pubblicato ieri dal Fatto. Non solo. Il voto dei 4 milioni e 23 mila italiani all’estero, per aiutare Matteo Renzi a vincere il referendum, è diventato pure costoso: vale oltre 160 milioni di euro di finanziamenti. Come dimostra la legge di Bilancio che il governo ha farcito di generosi omaggi per i connazionali espatriati.
Il primo gesto di attenzione va rintracciato all’articolo 74 (commi 9 e 10) del testo all’esame della Camera: “È istituito, nello stato di previsione del ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, un fondo da ripartire con una dotazione finanziaria di 20 milioni di euro (già lievitati a 25 con un emendamento) per l’anno 2017, di 30 milioni di euro per l’anno 2018 e di 50 milioni di euro per ciascuno degli anni 2019 e 2020, per il potenziamento della promozione della cultura e della lingua italiane all’estero”. Il conto: 155 milioni in 4 anni. Chi gestisce il denaro? Il centro studi di Camera e Senato ha individuato i destinatari, che poi risultano essenziali per mobilitare gli elettori non residenti in Italia e avvalorare la narrazione di Palazzo Chigi: “La promozione della lingua e cultura italiana all’estero è affidata ad una rete estesa: 83 Istituti italiani di cultura (Iic), 135 istituzioni scolastiche italiane all’estero, 146 enti gestori e 176 lettori di ruolo. È una rete che arriva a coprire 250 città nel mondo”.
Per capire meglio l’ingarbugliata questione, che si riduce a un prosaico scambio di favori in vista del referendum, va introdotto nel racconto un deputato nominato nella circoscrizione America Meridionale per il Pd: si chiama Fabio Porta, classe ’63, nato a Caltagirone. In queste settimane lo scaltro Porta è in giro a procacciare preferenze per il Sì, a distribuire promesse, a rassicurare le associazioni. In settembre ha accompagnato il ministro Maria Elena Boschi in Uruguay, Argentina e Brasile. Non soddisfatto dei 155 milioni di euro stanziati per rianimare la cultura italiana, il deputato ha presentato un emendamento per reperire altri 4 milioni da spendere per la manutenzione degli immobili degli uffici diplomatici, per le attività di studio e, soprattutto, per “assistere le comunità di italiani residenti all’estero”.
La legge di Bilancio è un’alchimia contabile fragile: quello che metti di qua, lo devi togliere di là. E la dem Eleonora Cimbro, autrice di un’altra modifica, e lo stesso Porta hanno deciso di finanziare la propaganda referendaria col Fondo per le politiche sociali (ridotto di 9 milioni a 291 milioni totali). Non è finita. Perché Porta legifera anche su richiesta. Breve preambolo. Quando il voto degli italiani all’estero non serviva, per garantire gli 80 euro in busta paga, il governo ha sfoderato una tassa di 300 euro per la domanda di cittadinanza e poi ha aumentato le tariffe consolari (incluso per il visto di studio). A distanza di un paio di anni, gli italiani all’estero hanno lanciato una petizione popolare per chiedere al governo di sfruttare le risorse raccolte “per assumere nuovi addetti sia a contratto locale, sia di ruolo, anche con concorso interno”. Al circolo italiano di San Paolo in Brasile, venerdì 28 ottobre, c’era l’ubiquo Porta a trattare coi vertici brasiliani del Pd, che di recente hanno coinvolto nella vicenda Lotti, Boschi e Renzi. Il messaggio per l’esecutivo è limpido: “L’accoglimento di questa richiesta sicuramente favorirebbe – si legge in una nota ufficiale – una più ampia e convinta partecipazione degli italiani all’estero al referendum del 4 dicembre a sostegno del Sì”.
Con sensazionale efficienza, il provvedimento auspicato dai connazionali ha trovato ospitalità nella legge di Stabilità, articolo 61, commi 3 e 4: il governo trattiene 6 milioni di euro all’anno generati dalla tassa dei 300 euro e concede il gettito in eccesso – nel 2015 furono 4 milioni – “al funzionamento e alla razionalizzazione delle sedi all’estero del Ministero”. Il passaggio è molto anodino, non viene citato il lavoro assegnato al personale locale, cioè agli italiani all’estero che non appartengono alla filiera diplomatica.
Per fortuna, ci pensa Porta con un emendamento: “Priorità per la contrattualizzazione di personale locale da adibire, sotto le direttive e il controllo dei funzionari consolari, allo smaltimento dell’arretrato riguardante le pratiche di cittadinanza”. Dopo il contratto con gli italiani, ecco il contratto con gli italiani all’estero.