VARIE 13/11/2016, 13 novembre 2016
APPUNTI PER GAZZETTA - A UN ANNO DAL BATACLAN REPUBBLICA.IT È cominciata alle 9 allo Stade de France, dove 3 kamikaze si fecero esplodere dando il via alle stragi jihadiste di un anno fa, la commemorazione solenne delle vittime del 13 novembre 2015 a Parigi
APPUNTI PER GAZZETTA - A UN ANNO DAL BATACLAN REPUBBLICA.IT È cominciata alle 9 allo Stade de France, dove 3 kamikaze si fecero esplodere dando il via alle stragi jihadiste di un anno fa, la commemorazione solenne delle vittime del 13 novembre 2015 a Parigi. Una giornata di celebrazioni, con targhe commemorative scoperte davanti al Bataclan e ai bistrot dove furono uccise in tutto 130 persone ••• PARIGI - "Non li dimenticheremo". Così Sting riporta la musica dentro al Bataclan. La prima canzone è Fragile, scritta nel lontano 1987. Se il sangue scorrerà, quando la spada incontrerà la carne, seccandosi al sole della sera, la pioggia di domani laverà via le macchie / Ma qualcosa rimarrà per sempre nelle nostre menti. La sala è gremita. Nessuna traccia dell’orrore che ha colpito il 13 novembre 2015. La struttura costruita nel 1865 è stata interamente rifatta, un cantiere durato oltre otto mesi per rifare l’identica scenografia. Parigi, Sting al Bataclan: ’’Non li dimenticheremo’’ Condividi Sting chiede un minuto di silenzio in memoria delle 90 vittime. "Abbiamo due cose da fare stasera", premette. "Rendere omaggio ai morti e celebrare la vita". Dopo Fragile va avanti con Message in a bottle. Nadine Ribet-Reinhart ha perso suo figlio Valentin, 26 anni. "Questo concerto è un meraviglioso regalo" dice, confessando di essere sempre stata un fan dei Police, "è la musica che ascoltavo quando avevo l’età di mio figlio. Sono venuta qui per lui, per tutte le famiglie, i feriti, i superstiti. Insieme dobbiamo essere ballare”. Rinascita del Bataclan, concerto di Sting a un anno dall’attentato Navigazione per la galleria fotografica 1 di 32 Immagine Precedente Immagine Successiva Slideshow () () Molte le canzoni del repertorio classico dei Police. Message in a bottle, quasi a voler parlare a quelli che non ci sono più. Poi Every breath you take, So lonely. Presentando Roxanne, Sting ricorda - parlando in francese - di averla scritta a Parigi nel 1978. "Avevo 12 anni...", scherza. La direzione del Bataclan ha distribuito oltre 400 ingressi ai parenti delle vittime. “Non siamo riusciti ad accontentare tutti” racconta Jules Frutos, gestore della sala che ha faticato a trovare un artista che avesse il coraggio e la forza di affrontare questo concerto così simbolico. Nessun cantante francese ha accettato la proposta. Sting è arrivato direttamente da New York dove aveva fatto un concerto venerdì nell’ambito della tournée per il suo nuovo album 57th&9th. Ha accettato di esibirsi gratuitamente al Bataclan e ha avuto poche ore prima di andare in scena con i suoi musicisti. Doveva suonare un’ora ma il concerto si prolunga: gli applausi, l’entusiasmo sembrano non finire mai. Presenta Insciallah, una delle più belle canzoni del nuovo album, in cui parla dei migranti. Parigi, riapre il Bataclan: Sting sul palco a un anno dalla strage Davanti al Bataclan anche Jesse Hughes, frontman degli Eagles of the Death Metal, la band in concerto la notte della strage, un anno fa Condividi "Bravo Sting!" grida Patricia Correia per cui il concerto è un modo di ricordare e avvicinarsi un’ultima volta alla figlia Pricillia, 35 anni, uccisa un anno fa insieme al fidanzato. “Viva il Bataclan, viva la vita” spiega la donna. Molti superstiti che volevano tornare non hanno trovato un biglietto. Il concerto è andato sold out in meno di un’ora. I proventi saranno devoluti alle due principali associazioni di vittime degli attentati del 13 Novembre. Il giornalista di Le Monde Daniel Psenny, che ha filmato le scene di orrore dalle sue finestre di casa, è venuto con il figlio. “Per me – spiega - è un modo di chiudere il cerchio”. Domenica il Bataclan resterà chiuso in segno di lutto. È prevista una cerimonia con le autorità, verrà svelata una targa con le iniziali delle 90 vittime. Ci saranno anche gli Eagles of Death Metal ma fuori dalla sala. Al Bataclan non sono più "welcome", ha fatto sapere la direzione del teatro dopo che il cantante della band ha ipotizzato complicità degli agenti della sicurezza nell’attacco. In sala stasera c’era anche il vigilante Didi, l’algerino che ha salvato decine di persone aprendo le uscite di emergenza e rientrando per due volte all’interno del teatro nonostante la sparatoria in corso. È al posto di comando, coordina la nuova sala di videosorveglianza. “Dovevo pur controllare che fosse tutto in ordine” ironizza. Tra qualche giorno però prenderà una pausa dal lavoro. È nata la sua prima figlia, "me la voglio godere un po’". Sting ringrazia tutti. "Merci Bataclan". La gente applaude, piange. Un’ultima canzone. Il cantante è sul palco da solo alla chitarra. The empty chair, dal nuovo album, dedicata a James Foley, fotografo ucciso in Siria. "E a tutte le persone che hanno perso una persona cara", aggiunge l’artista britannico. Le luci si spengono. La gente grida "Merci Sting, Merci Bataclan". Il rock ha ripreso il suo posto. Non era facile. Châpeau. TESTIMONIANZA Daniel Psenny è il giornalista di Le Monde che ha ripreso dalla sua finestra la fuga dal Bataclan durante l’attacco terroristico del 13 novembre 2015. Il suo video ha fatto il giro del mondo. Ma da testimone si è trasformato in vittima. "Riprendevo le grida, il sangue, gli spari - racconta - Poi sono sceso ad accorrere un uomo e mi sono preso una pallottola in un braccio. Ed è cambiato tutto. Avevo un’emorragia, un vicino mi ha portato a casa e ha raccolto anche il ferito che cercavo di aiutare. Siamo rimasti tre ore in casa ad aspettare che qualcuno ci portasse in ospedale". E ancora: "Se vai in guerra sai cosa ti aspetta, ma questa è una guerra che è venuta a casa nostra il venerdì sera, prima del week end. C’è chi ha chiuso la finestra, ma tanti sono stati molto coraggiosi" ••• “Andrea, il suo fidanzato, l’ha conosciuto a Trento. Mio marito e io l’abbiamo visto per la prima volta a Venezia per la festa del Redentore, la notte dei fuochi. Tornavamo dal Lido e dietro le mura dell’Arsenale abbiamo incontrato Valeria con questo ragazzo simpatico dalla barba lunga. Lei ci presentava sempre tutti, ma Andrea non ce l’ha presentato, così con mio marito ci siamo detti: qui c’è qualcosa sotto. Poi è cominciato a venire a casa. Si volevano tanto bene, andavano d’accordissimo. A noi Andrea è piaciuto subito. Curioso, sportivo, bravo organizzatore di concerti: un ragazzo di paese – la sua famiglia è di Dro -, attaccato alle amicizie. Anche se poi è finito a vivere a Parigi, per amore. Nel 2012 Valeria ebbe l’occasione di tornare in Italia. Vinse il concorso per un dottorato alla Sapienza di Roma, ma non la borsa di studio, che era riservata ai primi due; e lei era arrivata terza. Le erano passati davanti due ricercatori più anziani, legati ai loro professori. Ma nessuna lamentela, per carità. Valeria rideva della retorica sulle vittime del sistema. Ci diceva sorridendo: “Non sono ancora un cervello, e sono già in fuga”. Semplicemente, è andata così. Voleva tornare in Italia, anche per stare più vicina ad Andrea, ma senza borsa di studio non se l’è sentita. Vinse quella del Cnaf, un ente di welfare francese. E rimase a Parigi. La tesi di dottorato era sulla scelta delle donne se avere o no un secondo figlio. Fece interviste a Firenze, Napoli e in Francia. Voleva scoprire le storie delle persone, non fermarsi ai numeri. Lavorò su tre fattori: la propensione personale, il reddito, il welfare. Le francesi fanno molti più figli di noi italiane anche perché è quasi un business, con tre bambini lo Stato ti dà molti soldi. La maternità non è un problema, è vissuta in modo più naturale. Forse noi sbagliamo a pensarci su troppo, a preoccuparci di tutto: ci vorrebbe un po’ più di spregiudicatezza, di immediatezza. Le nostre madri nelle campagne non avevano quasi da mangiare, però figli ne facevano. Oggi abbiamo queste famiglie con un figlio unico che ha sulle spalle quattro nonni e magari i bisnonni: così il piccolo diventa un po’ troppo il centro dell’attenzione, e fatalmente sarà un po’ troppo viziato, deciderà pure dove andare in vacanza. Devo dire che questo in casa nostra non è successo, i ragazzi se la sono sempre sbrigata da soli. Andrea la raggiunse a Parigi, lavorò un po’ all’università, lui è laureato in sociologia con master in criminologia, poi per guadagnare qualcosa trovò posto in un supermercato, un Monoprix. All’inizio metteva la roba sugli scaffali. Siccome è un ragazzo pieno di inventiva e ricco di talenti, fu notato e gli chiesero di allestire la vetrina per la settimana del cibo italiano. La vetrina di Andrea ebbe grande successo. Così gli affidarono il negozio bio del Monoprix, nell’XI arrondissement. Quello delle stragi. La prima casa che mise su con Valeria era vicina alla Tour Eiffel: 14 metri quadrati in rue César Franck; se uno studiava, l’altro doveva andare a letto o sotto la doccia. Poi due amici che avevano avuto un bambino liberarono il loro appartamento per andare in uno più grande, così loro si trasferirono nell’XI, vicino al negozio di Andrea, in rue Oberkampf. Mia figlia mi mandò una foto della nuova casa su whatsapp. Comunicavamo molto così, sul cellulare”. “Il mattino del 7 gennaio 2015 ricevetti un messaggino da Valeria: “Solo per dirvi che io e i miei amici stiamo bene”. Non capivo a cosa si riferisse. Poi accesi la tv: stavano parlando di un grave attentato a Parigi. Era l’attacco a Charlie Hebdo, il giornale di satira. Quando la notte del 13 novembre si è cominciato a parlare di una strage a un concerto, messaggini non ne abbiamo ricevuti. Abbiamo provato a chiamarla sul cellulare, e non rispondeva. E lì abbiamo intuito. Lei era molto premurosa, faceva in modo che non dovessimo mai preoccuparci. Doveva esserle successo qualcosa. Il 14 novembre è stata una giornata terribile. Un rincorrersi di speranze vane, con il console che chiamava tutti gli ospedali di Parigi. Per farmi coraggio ho pensato che forse Valeria aveva perso la borsa, e in effetti era uscita di casa senza, lo faceva spesso, la considerava un impiccio; il cellulare l’aveva dato ad Alessia, la sorella di Andrea, e non aveva documenti con sé. Questo ha contribuito a creare incertezza. Io continuavo a sperare, ma mio marito è andato a dormire convinto che nostra figlia fosse morta. Cosa sia accaduto al Bataclan ci interessa fino a un certo punto. Spetta alla magistratura chiarirlo. Noi vogliamo molto bene ad Andrea che ha perso il suo grande amore. Siamo andati a Parigi a riconoscere Valeria e a portarla a casa. Alla tv francese ho detto quella frase, sul fatto che nostra figlia era una persona meravigliosa, che sarebbe mancata molto a noi e anche al nostro Paese. Ci siamo resi conto che l’emozione cresceva con i giorni, che non potevamo salutarla solo in modo privato. Non era un fatto privato. Ci tenevamo che Valeria venisse ricordata da tutti per quella che era: la sua morte ne ha fatto una figura pubblica, anche se fino a poco prima quasi nessuno sapeva che era vissuta. Proprio lei, un’oscurissima demografa: categoria che viene tirata in ballo solo in caso di catastrofe, come i geologi dopo un terremoto. Volevamo un posto dove ci potesse stare chiunque desiderasse esserci; quindi non poteva essere un posto al chiuso. In Venezia ci sono pochi spazi grandi: campo santo Stefano, campo san Giovanni e Paolo, campo santa Margherita, campo san Polo. E piazza San Marco. Non volevamo un funerale religioso: Valeria non aveva avuto un’educazione religiosa, non sarebbe stato giusto. Ma non volevamo neppure una cerimonia che escludesse qualcuno, perché Valeria non doveva diventare una figura di parte: quando uno muore in una strage di terroristi, è sbagliato che sia vista come portatrice di un’idea di parte. Aveva le sue idee, ma questa è altra cosa. In piazza dovevano esserci i rappresentanti delle tre religioni. E il patriarca Moraglia ha capito, è stato generosissimo, ha fatto un discorso meraviglioso. Le amiche di Valeria l’hanno ricordata. Elena Fontanari ha ricordato la sua preoccupazione di “piacere al potere”. In effetti avvertiva il rischio di un’ambiguità tra lo stare dentro le istituzioni e il gridare contro le ingiustizie. Il suo desiderio di costruire, di far bene le cose, poteva aver attenuato il suo lato “anti”; ma era critica con la politica di Renzi, con il Jobs Act. Poi, quando hanno detto questa cosa delle unghie, mi sono sentita un po’ in colpa: Valeria si mangiava terribilmente le unghie, un’altra cosa che ha ereditato da me… Per gli assassini non provo nulla. Sento una profonda pena per le loro famiglie, per le loro madri. Ho letto che una donna ha avuto tre o quattro figli kamikaze in Siria: sono cose che sgomentano. Noi piangiamo una figlia innocente; loro chi possono piangere? Persone capaci di fare queste cose qua? Come fai a opporti a un uomo disposto a morire per ammazzare altre persone? E’ incontrollabile. E’ gente che ha subito un indottrinamento, un lavaggio del cervello. La strage di Parigi è rimasta nella memoria di tutti, ma chi ha perso una figlia in un incidente stradale non soffre di meno. Le madri delle sette ragazze dell’Erasmus morte in Catalogna non soffrono meno. E’ una consolazione vedere tanti ragazzi che come Valeria ci credono, si mettono in gioco, vanno all’estero, studiano o insegnano in Spagna, in Inghilterra, in America. Lei aveva avuto l’occasione di tornare ma non aveva vinto la borsa di studio; è andata così, recriminare non serve, lei non aveva recriminato. Trovava però incredibile che un suo amico avesse rinunciato a un posto al Louvre, a schedare i depositi: si era scandalizzata che fosse tornato indietro. Era convinta che le donne dovessero lavorare. In questo era un’estremista: considerava immorale vivere del lavoro altrui. Io le dicevo: guarda Valeria che non è sempre facile. Col tempo si era un po’ moderata, ma insisteva su un punto: più le donne lavorano, più fanno figli; e rinviare troppo la maternità finisce per creare un sacco di guai. Sì, ci stava pensando seriamente, a fare un figlio con Andrea. Ci teneva tantissimo a diventare mamma, appena finito il dottorato. Quest’anno forse saremmo diventati nonni". •••• PARIGI Alle 21.42 del 13 novembre 2015 gli Eagles of Death Metal vennero interrotti dalle raffiche di kalashnikov di tre terroristi dello Stato islamico. Tanti spettatori pensavano fossero petardi. Adesso, un anno dopo, sul palco c’è Sting che parla francese davanti a persone che in molti casi hanno perduto quell’innocenza: c’è chi nella vita quotidiana ormai scambia qualsiasi rumore, una porta che sbatte o una lampadina che scoppia, per colpi di mitra. Tra i 1500 spettatori ci sono superstiti che ora saltano, piangono, si abbracciano, gridano «I’ll send an SOS to the world», disperata richiesta di aiuto di uno dei più grandi inni rock di sempre. Ricordano le novanta vittime e celebrano il rito del concerto rock — «festa di perversione» secondo gli islamisti —, che nonostante quell’orrore non si è fermato. «Stasera abbiamo due compiti — dice Sting appena salito sul palco —: ricordare quelli che non ci sono più, e celebrare la vita». Un minuto di silenzio, e il concerto comincia con la delicata Fragile , seguita da una Message in A Bottle cantata in coro dal pubblico. Poi i pezzi del nuovo album, compreso Insciallah , più o meno alla stessa ora degli spari del 13 novembre. Ci vuole del fegato per intonare una nenia arabeggiante in un’occasione come questa, e Sting ce l’ha. È una canzone sui migranti, spiega. La gente applaude, in particolare l’assolo del grande trombettista di origine libanese Ibrahim Maalouf. L’amato Bataclan riapre, con una nuova insegna rossa. Fuori c’è Jesse Hughes, il cantante degli EODM, un po’ in disparte perchè non è stato invitato. «Dovevo essere qui oggi — dice —. Il Bataclan riapre, è meraviglioso». Dentro, tra il pubblico, c’è l’uomo che registrò con il telefonino il momento terribile dell’inizio dell’attacco (il file audio, trasmesso da «Tra poco in edicola» di Radio Rai, fece il giro del mondo). L’altro italiano oltre alla povera Valeria Solesin. Vincenzo Capuana ha 69 anni, «l’età di David Bowie», dice scherzando. Vive a Parigi dal 1979, quando si trasferì da Perugia come funzionario della Banca commerciale. Ha una moglie e un figlio «e una parte della mia vita è la musica rock». «Assisto a circa 120 concerti l’anno, gli Eagles of Death Metal li ho visti sette volte, Sting con stasera 26, contando la carriera con i Police». È qui per «incamerare nuovi ricordi, metterli sopra a quelli vecchi». Nota che la porta di ingresso è molto più ampia, che le «uscite di sicurezza sono diventate sette mentre prima erano due ed erano pure chiuse», per il resto la struttura della sala è rimasta la stessa, con quel lungo bar dove tanti vennero massacrati. «Vede? Io stavo al piano di sopra, sul balcone, e ho visto tutto. Ero con un gruppo di amici, all’inizio non abbiamo capito. Poi ho visto gli schizzi di sangue, le persone che cadevano. Un amico è morto, due sono rimasti feriti». Vincenzo Capuana ha visto negli occhi Ismaël Omar Mostefaï, 29 anni. «Era sul balcone anche lui, quando ha smesso di sparare sulla folla in basso mi ha preso per la spalla e mi ha detto «tu vieni con me». Teneva anche un’altra persona, tra il mitra e la cintura esplosiva era un po’ impacciato, così gli ho dato una spallata e sono riuscito a fuggire, calpestando i cadaveri». Di quell’uomo, Vincenzo Capuana ricorda lo sguardo, «come quello di un coccodrillo». E adesso? Come sta, mentre la serata sta finendo? «Bene. Come se avessi visto un altro dei miei tanti concerti». Il rito ha funzionato. Sting chiude il concerto con Every Breath You Take , c’è un’aria da festa del liceo. Poi torna per i bis dei primi Police: So Lonely , Walking on the Moon , Roxanne . Un anno dopo, al Bataclan si poga. MARCO IMARISIO BRUXELLES L’hanno chiamata la fiamma della speranza ma sembra una gabbia. L’opera che ricorda le vittime delle stragi di Parigi e Bruxelles è in fondo alla place comunale, proprio di fronte alla casa della famiglia Abdeslam. La strage del 13 novembre ha fatto una vittima in più, ha detto la sindaca Françoise Schepmans durante l’inagurazione, avvenuta due giorni fa. «E siamo noi» ha aggiunto. L’installazione consiste in un parallelepipedo d’acciaio alto due metri e mezzo, alla base del quale c’è una candela destinata a rimanere sempre accesa. La volontà è di farla diventare parte integrante del paesaggio di Molenbeek, perché dimenticare è impossibile. Partirono tutti da qui. E qui nel marzo del 2015, dopo quattro mesi di latitanza a casa propria, venne catturato Salah Abdeslam, l’unico superstite degli attentati, dirimpettaio di Abdellhamid Abbaoud, il figlio del venditore di tessuti che abitava nella via accanto, considerato la mente del gruppo. Il peggior attentato avvenuto in Europa dal dopoguerra, la dichiarazione di guerra dell’Isis al mondo intero, è stato concepito in Siria ma pianificato e sviluppato in un sobborgo di Bruxelles da un gruppo di amici che si conoscevano da sempre. Ancora oggi sono tanti i luoghi oscuri di quella strage, e molto se non tutto di quel che ancora non si sa gira intorno alla figura del figlio più celebre di Molenbeek. Salah Abdeslam non parla dal giorno della sua cattura. Custodisce soprattutto il mistero del suo ruolo. Le ultime rivelazioni, rimbalzate dagli Usa e poi confermate da fonti francesi, gli consegnano la parte del traghettatore, e inseriscono la strage del Bataclan all’interno dell’altra grande crisi del nuovo secolo, quella dei migranti. «13 novembre, una storia europea», titola Le Monde . Isis ha approfittato dell’estate del 2015 quando si aprì la rotta balcanica dell’immigrazione, usandola come una opportunità. Il primo fu Abbaoud, fino ad oggi considerato la mente della cellula terroristica, che il primo agosto 2015 passò per l’Ungheria. Gli altri jihadisti vennero trasportati proprio da Salah Abdeslam, che tra il 30 agosto e il 2 ottobre ne trasportò almeno dieci su auto affittate per l’occasione, facendo avanti e indietro da Bruxelles all’Ungheria. Nel suo primo viaggio porta a destinazione Bilal Hadfi, che si farà esplodere davanti allo Stade de France, e Chakib Akrouh, un altro figlio di Molenbeek, ucciso con Abbaoud nell’assedio del 18 novembre a Saint Denis. Poi toccherà tra gli altri a Najim Laachraoui l’ex studente universitario di Bruxelles che preparò le cintura esplosive usate a Parigi e il 22 marzo 2016 si fece esplodere all’aeroporto di Zavendem, e al gruppo dei «francesi», i tre del commando che uccideranno 90 persone al Bataclan. L’ultimo andirivieni è del 2 ottobre, quando al campo di Bickse, alla periferia di Budapest, preleva altri tre complici, due dei quali oggi introvabili. Forse tornati in Siria, forse no. Il giorno seguente, sbarcano sull’isola di Leros gli «stranieri», i due iracheni saltati in aria allo Stade de France e altre quattro persone che non faranno in tempo a raggiungere Parigi. Ma c’è ancora molto da scoprire nelle strade di Molenbeek, ormai familiari ai cronisti di mezzo mondo. «Salviamo Oussama Atar, un belga dimenticato nelle carceri irachene». Nel 2010 i manifestanti scandivano il suo nome, e intanto lanciavano in aria palloncini bianchi. Le associazioni umanitarie si mobilitarono per la liberazione di un cittadino di origine marocchina che cinque anni prima aveva attraversato il confine iracheno senza passaporto per «portare medicinali alla popolazione». Conobbe il carcere di Abu Ghraib, e quello di Camp Bucca, dove divise la cella con Abu Bakr al-Baghdadi, il futuro fondatore dell’Isis. Fu liberato nel 2012. La sua famiglia fece causa allo stato belga per la lentezza delle procedure. Deve ancora ricevere ventimila euro di risarcimento. Secondo gli investigatori francesi, Oussama Atar sarebbe quel «Abou» citato dai terroristi nei loro sms, l’uomo che ha reclutato i terroristi, e che dalla Siria ha coordinato gli attacchi. Al suo ritorno, abitò per qualche mese a rue des Quatres Ventes, la strada dove poi verrà arrestato Salah Abdeslam. Poi sparì. Abbaoud, l’anima nera che voleva fare decine di altri attentati, era solo un esecutore dei suoi ordini. A Molenbeek ancora oggi vengono effettuate in media trenta perquisizioni al giorno. Stanno cercando quelli che mancano ancora all’appello. Sarà anche una storia europea, ma è cominciato tutto qui. In una piccola città che ancora per molto tempo sarà prigioniera della propria reputazione.