VARIE, 13 novembre 2016
GIOCONDA PER SETTE
Cinquecento anni fa, nell’autunno del 1516, Leonardo da Vinci arrivò alla corte di Francesco I portandosi dietro la Gioconda (Scorranese, Corriere.it).
Francesco I comprò la Gioconda per quattromila ducati d’oro (due anni dello stipendio di Leonardo).
È un quadro di inestimabile valore (le ultime stime parlano di oltre 1 miliardo di euro).
Alla Gioconda Leonardo lavorò diecimila ore.
Tutti immaginano che il quadro sia molto grande in realtà non lo è: 77 centimetri per 53.
Ogni giorno 40mila persone si accalcano davanti alla Gioconda al Louvre.
Anni fa il Journal du Dimanche chiese a un reporter di passare una giornata accanto alla Gioconda, osservando le reazioni dei visitatori che spesso entrano nel Louvre solo per vedere il capolavoro di Leonardo. Risultato: il più delle volte, i visitatori restano davanti alla Monna Lisa per non più di dieci secondi, il tempo necessario per farsi un selfie. E molti se ne vanno delusi. «È piccola», «È lontana», «Non si vede bene», sono alcuni dei commenti più frequenti.
I custodi del Louvre ricordano turisti che hanno avuto malori davanti al quadro.
La vetrina che protegge la Gioconda è spessa 30 millimetri e pesa circa una tonnellata.
Nel 2009 una russa, frustrata per non essere riuscita a ottenere la nazionalità francese, scagliò contro la Gioconda una tazza di tè che si infranse colpendo la vetrina che protegge il dipinto.
Secondo lo studio di un gruppo di ricercatori informatici olandesi e americani, pubblicato qualche anno fa su New Scientist, l’enigmatico sorriso di Monna Lisa esprime felicità per l’83 per cento, disgusto al 9 per cento, paura al 6 per cento e rabbia al 2 per cento.
Di primo acchito, soffermandosi sul sorriso della Monna Lisa, questo ci sembra quasi inesistente ma, mentre lo sguardo si muove sugli occhi, sui capelli, la sua bocca sembra animarsi e il sorriso si apre molto di più. La spiegazione scientifica di questo fenomeno percettivo è stata fornita dalla neurobiologa Margaret Livingstone della Harvard Medical School e va a coinvolgere la visione centrale e periferica della retina. Quando il sorriso è al centro della nostra attenzione (e la sua immagine colpisce il centro della nostra retina) appare quasi inesistente, ma quando ci focalizziamo altrove, entra nella visione periferica della retina e appare sfumato e più ampio: il sorriso risulta così più evidente nella visione periferica che in quella centrale. Leonardo dipinse il sorriso di Monna Lisa usando ombre che vediamo molto meglio con la nostra visione periferica e, per questo, per vederla sorridere di gusto bisogna fissare gli occhi della donna o qualunque altra parte del quadro, in modo che le sue labbra cadano nel campo della visione periferica.
Secondo una videoamatrice del Québec l’inesplicabile sorriso della Gioconda nasconderebbe la natica di un ragazzo. Per provarlo, girare il quadro di 90 gradi incorniciando unicamente il sorriso: la spina dorsale corrisponde alle righe delle labbra e l’angolo della bocca ai due globi carnosi. Suzanne Giroux, ricordando che Leonardo era mancino, scriveva da destra a sinistra e in caratteri rovesciati e pensava che un dipinto fosse più bello se visto allo specchio, sostiene che il sorriso, inclinato a novanta gradi, rappresenta due schiene diverse: l’immagine e il suo riflesso, cioè i glutei di due ragazzi. Leonardo era omosessuale e fu processato a Firenze per sodomia attiva il 9 aprile 1476 (Jean-Luc Henning, Breve storia delle natiche, Es).
«Il sorriso, lo stesso che aleggia anche sulle labbra della Dama con l’ermellino, di sant’Anna, del Battista, è il vero protagonista del dipinto. Grazie a questo sorriso ineffabile, l’umore di Monna Lisa sembra mutare continuamente: una volta appare beffarda, un’altra malinconica, un’altra ancora chiusa nel suo mistero. Non siamo mai sicuri dello stato d’animo con cui la signora ci guarda. Leonardo riuscì a ottenere questo effetto inventando la tecnica dello sfumato, che gli permetteva di lasciare alcune parti indefinite. Qui ha lasciato evanescenti gli angoli della bocca e gli angoli degli occhi, i punti dove si cela l’espressione di un volto» (Lauretta Colonnelli, Cinquanta quadri. I dipinti che tutti conoscono. Davvero?, edizioni Clichy).
La Gioconda non ha le sopracciglia. «Non si sa quando Monna Lisa ha perso le sopracciglia: forse in qualche restauro antico, come sembra di capire da un resoconto di Cassiano dal Pozzo del 1625» (Lauretta Colonnelli, Cinquanta quadri. I dipinti che tutti conoscono. Davvero?, edizioni Clichy).
Il dipinto non è su tela, come molti credono, ma su tavola di pioppo tenero,
nonostante Leonardo raccomandasse di usare legno di noce insieme con l’«arcipresso o pero o sorbo». Gli altri suoi quadri sono quasi tutti su noce.
presso o pero o sorbo (Lauretta Colonnelli, Cinquanta quadri. I dipinti che tutti conoscono. Davvero?, edizioni Clichy).
Il ponte romanico che si vede nel quadro, ancora perfettamente funzionante, sarebbe quello di Buriano, nel Valdarno vicino ad Arezzo (Lauretta Colonnelli, Cinquanta quadri. I dipinti che tutti conoscono. Davvero?, edizioni Clichy).
Gioconda o Monna Lisa sono i nomi che Giorgio Vasari attribuì nel 1550 al
celebre quadro di Leonardo, identificando la donna in Lisa Gherardini, mo-
glie del ricco setaiolo fiorentino Leonardo del Giocondo. In seguito sono state formulate varie ipotesi sull’identità della misteriosa signora, perfino che l’artista abbia creato un viso ideale di donna partendo da un autoritratto. Alcuni studiosi, sulla scorta di un piccolo saggio di Sigmund Freud sull’infanzia di Leonardo, non disdegnano l’idea che abbia dipinto a memoria i lineamenti e il sorriso della madre, intravisti da piccolo
prima di essere separato da lei e affidato alla famiglia del padre. Altri hanno suggerito l’identificazione di Monna Lisa con l’amante di Giuliano de’ Medici, rifacendosi alla notizia che il cardinale Luigi d’Aragona, durante una visita allo studio dell’artista nel 1517 in Francia, vide il ritratto di «una certa donna Fiorentina facta di naturale ad instantia del quondam magnifico Juliano de Medici». Ma questa ipotesi sposterebbe l’esecuzione del quadro al periodo tra il 1513 e il 1516, quando Leonardo era ancora
a Roma, ospite di Giuliano (Lauretta Colonnelli, Cinquanta quadri. I dipinti che tutti conoscono. Davvero?, edizioni Clichy).
Al contrario del Cenacolo, che cominciò ad essere riprodotto dal momento in cui fu completato, La Gioconda diventò un mito soltanto verso la metà dell’Ottocento. E questo perché fino ad allora in pochissimi avevano potuto vederla. Lo stesso Vasari ne parlava per sentito dire. La tavola rimase per lungo tempo negli appartamenti reali a Fontainebleau, poi nella Petite Galerie du Roi, a Versailles. Nel 1797 fu esposta al museo del Louvre, sorto con la Rivoluzione, ma nel 1801 Napoleone la reclamò per la camera da letto di Giuseppina Beauharnais. Quando fu eletto imperatore, nel 1804, la restituì al Louvre (Lauretta Colonnelli, Cinquanta quadri. I dipinti che tutti conoscono. Davvero?, edizioni Clichy).
Fu Théophile Gautier il primo di una schiera di poeti a riconoscere la bellezza, la grazia e il mistero della Gioconda e a creare con queste suggestioni il mito della femme fatale: «Une femme mystérieuse
/ dont la beauté trouble mes sens…» (Lauretta Colonnelli, Cinquanta quadri. I dipinti che tutti conoscono. Davvero?, edizioni Clichy).
Nel 1911 sparì dal Louvre, rapita dall’imbianchino italiano Vincenzo Peruggia che se le tenne in casa, su una seggiola davanti al tavolo di cucina, per due anni e mezzo.
Il furto si trasformò in una straordinaria occasione per la divulgazione popolare del quadro: quando il Louvre riaprì i battenti dopo una settimana di chiusura, i parigini si recarono in massa a contemplare la parete vuota.
Dopo qualche tempo, per sostituire la Gioconda fu scelto il Ritratto di Baldassarre Castiglione di Raffaello.
Il giorno dopo il furto “Le Matin” titola «Inimaginable», “Le Figaro” «La Joconde a disparu». La crisi di Agadir che vede Francia e Germania sul piede di guerra finisce in seconda pagina. Al Louvre, mentre iniziano gli interrogatori di custodi e impiegati presenti (257 persone), si prendono impronte digitali a tutti. Il conservatore del museo offre per primo le dita al tampone inchiostrato. Furono 1350 i sospettati. Si ipotizzò il furto ad opera dei tedeschi. Pensarono al collezionista pazzo. Fu seguita anche la pista del maniaco sessuale.
Del furto fu sospettato persino il poeta francese Guillaume Apollinaire: aveva dichiarato, infatti, di voler distruggere i capolavori di tutti i musei per fare posto all’arte nuova. Così fu condotto in prigione. In realtà, il suo arresto aveva come unica prova la testimonianza, falsa, dell’amante Honorè Ge’ri Pieret, che lo accusò di aver ricettato statuette antiche rubate dal museo. Venne interrogato anche Pablo Picasso ma anche lui fu poi rilasciato.
Picasso, una volta scagionato, ci rise sopra al caffè con la battuta diventata famosa: «Amici, vado al Louvre, serve qualcosa?».
Vincenzo Peruggia, decoratore e imbianchino, era originario di Dumenza, un paese del nord della provincia di Varese. Emigrò in Francia giovanissimo, dove ebbe l’occasione di lavorare anche al Louvre e partecipare ai lavori per la sistemazione della teca di vetro dove era custodito il dipinto, allora nel Salon Carrè. Conosceva quindi benissimo il luogo e le abitudini del personale del museo. E rubare la Gioconda e portarla in Italia, per lui, fu un gioco da ragazzi. Quella domenica notte precedeva il canonico giorno di chiusura del Louvre e l’imbianchino Peruggia dormiva sereno nel ripostiglio in attesa che arrivassero le sette del mattino quando, allentatasi la sorveglianza, tolse con facilità il dipinto dalla cornice e se lo infilò sotto il cappotto. Era stato lui stesso a inserirlo nella teca tempo prima e sapeva come agire. Poi con tutta calma si diresse verso l’uscita e chiese aiuto ad un idraulico perché gli aprisse il portone. In un baleno fu così su Rue de Rivoli e poco dopo in un comodo taxi. Erano le 8,30 del mattino. Le uniche misure di sicurezza allora consistevano nell’addestramento delle guardie al judo. E il furto dal Louvre rappresentava un’assoluta novità.
Perruggia tenne con sè il dipinto per quasi due anni e mezzo, cercando poi di rivenderlo all’antiquario fiorentino Alfredo Geri. Ma proprio in quell’occasione fu arrestato. Il ladro sostenne sempre di aver rubato il quadro di Leonardo solo per restituire al suo Paese «il frutto dei saccheggi napoleonici». Non sapeva che la Gioconda è da sempre, e a pieno diritto, francese, essendo stata venduta per 4mila ducati a Francesco I dallo stesso Leonardo Da Vinci.
Processato, Peruggia fu definito «mentalmente minorato» e venne condannato a un anno e quindici giorni di prigione, poi ridotti a sette mesi e quindici giorni. La sua difesa si basò sul patriottismo e suscitò anche qualche simpatia. Si parlò persino di "peruggismo".
«Marciranno i tetti, ma il mio nome rimarrà celebre per sempre» (Vincenzo Peruggia alla figlia Celestina).
Le avanguardie del Novecento vedevano la Gioconda come il simbolo di un passato polveroso che doveva essere superato e messo in ridicolo. I futuristi nel 1911 giunsero a rallegrarsi per il furto del dipinto. Nella stessa occasione, anche il grande critico d’arte Bernard Berenson affermò ironicamente di sentirsi sollevato dalla scomparsa della Gioconda perché era «diventata un incubo». Dirà poi, con il suo solito snobismo, di non sopportare più la devozione di massa di cui Monna Lisa era oggetto: «Entrano nel museo docili al comando delle guide, corrono davanti al capolavoro, si inchinano dinanzi a esso ed escono felici senza aver capito nulla».
Nel 1918 fu pubblicata una cartolina con la Gioconda-Kaiser, cui seguì la Gioconda-Stalin.
Ormai popolarissima, la Gioconda fu deturpata in mille modi. Marcel Duchamp, nel 1919, ne fece una riproduzione fedele, le aggiunse dei baffi e la scritta provocatoria «L.H.O.O.Q.» la cui pronuncia riproduce le parole «Elle a chaud au cul», «Ella ha caldo al culo».
In seguito, anche Salvador Dalí disegnò i baffi a Monna Lisa, con la differenza che lui, in modo narcisistico e insieme autoironico, la trasformò in una specie di autoritratto: con i propri baffi lunghi, ricurvi e impomatati, con i propri occhi spiritati e con le proprie mani che impugnano monete d’oro.
Nel secondo dopoguerra altri artisti ripresero l’«icona Gioconda» per le loro sperimentazioni; fra questi, gli americani Robert Rauschenberg e Andy Warhol. Il primo, esponente della corrente New Dada, la inserì nei suoi collage di materiali di riciclo, di immagini e oggetti «vecchi e vissuti», mentre Warhol ne fece un uso che rientra nella sua poetica di manipolazione e riproduzione seriale delle icone di massa (come nella serigrafia del 1963 Trenta sono meglio di una ), senza fare alcuna distinzione di valore fra lei e altre celebrità come Marilyn Monroe, Jacqueline Kennedy, Elvis Presley, Mao Zedong e persino la Coca-Cola e la zuppa in scatola Campbell. In seguito, innumerevoli sono stati gli artisti che hanno «citato» Monna Lisa: da Kazimir Malevic a René Magritte, a Fernand Léger, da Terry Pastor a Graham Dean, a Jean-Michel Basquiat.
Nel 1950 il cantante americano Nat King Cole ottenne grande successo con una canzone che dice: «Sorridi per sedurre un amante, Monna Lisa? / O è il tuo modo di nascondere un cuore spezzato?».
Monna Lisa, perfino cantata da Gigliola Cinquetti: «Se io fossi la Gioconda, allora sì che mi ameresti».
Dagli anni Cinquanta in poi la Gioconda è stata stampata su innumerevoli confezioni o pubblicità di prodotti: arance, calze, preservativi, fiammiferi, parrucche, rum, sigari, compagnie aeree e così via.
La body artista francese Orlan, nel 1990, si sottopose a un intervento di chirurgia plastica per modificare la propria fronte come quella della Gioconda.