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 2016  novembre 12 Sabato calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - LA PROTESTA CONTRO TRUMP REPUBBLICA.IT PORTLAND - Una persona è stata colpita da un colpo di pistola ad una manifestazione anti Trump a Portland, in Oregon

APPUNTI PER GAZZETTA - LA PROTESTA CONTRO TRUMP REPUBBLICA.IT PORTLAND - Una persona è stata colpita da un colpo di pistola ad una manifestazione anti Trump a Portland, in Oregon. Lo dice la polizia locale che chiede a tutti di "evacuare l’area immediatamente". Lo sparo sarebbe stato esploso vicino al ponte Morrison dove passava il corteo. Gli agenti hanno inoltre diffuso una descrizione del possibile attentatore come un "maschio afro-americano, tarda adolescenza, vestito con una felpa nera con cappuccio e blue jeans". Le forze dell’ordine invitano gli eventuali testimoni a farsi avanti. Secondo un testimone, l’uomo sarebbe stato colpito a una gamba, ma la polizia non ha confermato questa notizia. Portland, scontri tra polizia e dimostranti alla manifestazione anti-Trump Navigazione per la galleria fotografica 1 di 20 Immagine Precedente Immagine Successiva Slideshow () () PUBBLICITÀ inRead invented by Teads Le proteste nella città dell’Oregon sono state le più dure da quando in varie città e campus universitari degli Stati Uniti sono state inscenate manifestazioni contro Trump. Anche ieri la polizia ha usato lacrimogeni e granate stordenti per disperdere la folla dopo che centinaia di manifestanti hanno marciato in città bloccando il traffico e sporcando i muri con i graffiti. Il corteo è inIziato in maniera pacifica, ma è presto degenerato in atti di violenza dopo che i dimostranti si sono uniti a un gruppo anarchico iniziando a danneggiare auto ed edifici. Durante i disordini, ’alcuni oggetti in fiamme’ sono stati lanciati contro i poliziotti che hanno risposto con i lacrimogeni. Portland: spari durante la protesta anti-Trump, un ferito Condividi SPECIALE ELEZIONI Ma le manifestazioni sono continuate in altre città americane. In centinaia hanno marciato per le strade di Los Angeles fermando la circolazione e sventolando cartelli con la scritta: "Respingiamo il presidente eletto". Proteste anche a Miami e a New York, dove i manifestanti si sono riuniti al Washington Square Park e vicino alla Trump Tower, dove vive il magnate, sulla Fifth Avenue. In merito alle proteste, Trump ieri, in un primo momento, ha accusato i media di istigare i manifestanti contro di lui: "Abbiamo appena avuto un’elezione presidenziale molto trasparente e di successo. Ora manifestanti di professione, incitati da mesi, stanno protestando. Questo è ingiusto". Salvo poi fare marcia indietro e usare una tattica più conciliante. Su Twitter infatti ha teso la mano ai manifestanti: "Amo il fatto che piccoli gruppi di manifestanti la scorsa notte abbia mostrato passione per il nostro grande Paese. Ci uniremo tutti e ne saremo orgogliosi". FERMATE I TTP WASHINGTON - Primi effetti dell’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. Il nuovo presidente degli Stati Uniti si insedierà il 20 gennaio prossimo, ma il suo staff ha avvertito di Barack Obama di non assumere iniziative rilevanti in politica estera durante la transizione. E ha subito ottenuto un risultato concreto: l’amministrazione uscente ha sospeso i suoi sforzi per far passare al Congresso l’accordo di libero commercio trans-pacifico (Tpp) in questi due mesi, spiegando che il destino dell’intesa dipenderà dallo stesso Trump e dai parlamentari repubblicani. Fonti governative hanno fatto sapere che Obama tenterà di spiegare la situazione ai leader degli altri 11 Paesi firmatari della partnership la prossima settimana in Perù, quando parteciperà a un summit regionale. L’avvio della transizione conferma che il passaggio di consegne sarà un percorso a ostacoli che riflette le tensioni all’interno della società statunitense. Per la terza notte consecutiva diverse città americane sono state attraversate da manifestazioni di protesta contro il presidente eletto. Marce e sit-in si sono svolti a Miami, Philadelphia, Columbus, New York (nei pressi della Trump Tower, dove abita il tycoon). Lo slogan è sempre lo stesso: "Not my president". In alcuni casi i manifestanti hanno bloccato temporaneamente alcune strade ma non ci sono stati incidenti. OBAMACARE Il team di Donald Trump ha ammonito Barack Obama: non faccia passi rilevanti in politica estera durante la transizione perché potrebbe "mandare segnali contrastanti". Il presidente americano uscente, infatti, è alla vigilia di un ultimo viaggio in Europa perché preoccupato dal rischio di sfaldamento del continente. Sale intanto la protesta negli Usa: per la seconda notte dopo il verdetto delle urne, che ha incoronato Donald Trump presidente degli Stati Uniti, migliaia di cittadini americani che non riconoscono il miliardario come loro rappresentante si sono riversati per le strade. Molte città americane, da Baltimora a New York, da Chicago a Denver, da Dallas a Oakland, si sono riempite, di persone che hanno protestato contro la vittoria del candidato repubblicano nella corsa alla Casa bianca. E crescono anche i timori per le future iniziative della nuova amministrazione: New York resisterà ai piani più controversi di Donald Trump sull’immigrazione se il presidente eletto deciderà di metterli in pratica, ha detto il sindaco, Bill de Blasio. Ma nella sua prima intervista da presidente eletto al Wall Street Journal, Trump è sembrato voler confermare un cambio di passo rispetto all’aggressività dimostrata durante la campagna elettorale ("Ho vinto. Ora è diverso") e ha detto: "Potrei salvare una parte dell’Obamacare". Novità nel team del miliardario: ha sostituito il capo della sua squadra di transizione nominando al vertice il vicepresidente eletto Mike Pence. Finora a capo dello staff, costituito dopo l’estate, c’era il governatore del New Jersey, Chris Crhistie. Trump e l’Obamacare. Donald Trump è disposto a salvare parti della riforma sanitaria ribattezzata Obamacare. E’ lo stesso Trump a spiegarlo al Wall Street Journal nella sua prima intervista da quando ha sconfitto la rivale democratica Hillary Clinton. All’indomani del suo primo incontro nello Studio ovale della Casa bianca con il presidente uscente Barack Obama, Trump mostra un possibile compresso sull’Affordable care act, la riforma approvata nel 2010 e che durante la campagna elettorale aveva promesso di abolire. "Gli ho detto che valuterò i suoi suggerimenti e, in segno di rispetto, lo farò", ha spiegato il magnate dell’immobiliare. In ogni caso, il suo obiettivo è agire "rapidamente" (come detto ieri dopo il suo incontro con lo speaker alla camera, il repubblicano Paul Ryan) perché così come è secondo lui la riforma sanitaria non funziona ed è troppo costosa (il prossimo anno in oltri 30 Stati sono previsti aumenti fino al 25% per conservare la copertura assicurativa). Trump si è detto tuttavia disposto a salvare due punti cruciali: quello che impedisce ai gruppi assicurativi di negare la copertura medica a chi ha condizioni mediche preesistenti e quella che permette a un genitore di garantire con la sua polizza assicurativa una copertura anche i propri figli fino a una certa età. "Le apprezzo molto", ha detto. PUBBLICITÀ inRead invented by Teads Tra le sue priorità più urgenti, ha spiegato, c’è la deregulation delle istituzioni finanziarie per permettere alle banche di "concedere di nuovo prestiti" (riferimento implicito alla riforma se non all’abrogazione della legge Dodd-Frank, approvata nel 2010, che ha stretto i freni ai colossi di Wall Street dopo la crisi iniziata nel 2008) e la messa al sicuro dei confini contro i cartelli della droga e l’immigrazione illegale, ma non la commissione di inchiesta su Hillary Clinton promessa in campagna elettorale: "Non è in cima ai miei pensieri", ha detto Trump che ha usato toni più concilianti anche nei confronti dei manifestanti contrari alla sua elezione: "Dobbiamo unire il Paese" e la strada migliore per ottenerlo è quella di creare posti di lavoro. New York contro Trump. Il primo cittadino della Grande Mela ha promesso che farà di tutto per non aprire al tycoon il database di New York con le identità di oltre 850 mila immigrati illegali che vivono in città senza "una vera e propria lotta". De Blasio ha precisato che qualsiasi proposta che sarà vista come "una minaccia per i newyorkesi verrà contrastata". Nel 2015 a New York è stata istituita una sorta di carta di identità per gli immigrati senza un regolare visto che prova la residenza e si può ottenere fornendo pochissima documentazione. E per questo è accessibile a quasi mezzo milione di illegali. De Blasio: "Proteggeremo i musulmani di New York" Condividi Il viaggio di Obama In Europa. "Sulle questioni grandi, trasformative in cui il presidente Obama e il presidente eletto Trump non sono allineati, non penso che sia nello spirito della transizione tentare di far passare punti dell’agenda contrari alle posizioni" di Trump, ha confidato a Politico un suo consigliere per la sicurezza nazionale. Il presidente americano uscente sarà infatti in Grecia il 15 novembre e poi il 17 in Germania, dove parteciperà anche ad un vertice nel nuovo formato "Quint": intorno al tavolo ci saranno Usa, Italia, Gran Bretagna, Francia, oltre al Paese ospitante. Lo scopo è affrontare in particolare due emergenze: crescita economica e instabilità geopolitica, legata a Siria, Isis, migrazioni e Ucraina. Ma nelle intenzioni del presidente americano, questo incontro avrebbe dovuto riconfermare l’impegno verso l’Europa e la Nato e definire un’agenda comune contro il populismo da lasciare alla nuova amministrazione americana che, nelle speranze di Obama, avrebbe dovuto essere guidata da Hillary Clinton. Ma la storia, come si sa è andata diversamente. Prendere iniziative durante la transizione "sarebbe non solo controproducente ma manderebbe anche segnali contrastanti", ha aggiunto al giornale il conigliere di Trump. Prima che il tycoon vincesse le elezioni, nei circoli democratici di politica estera si ipotizzava che Obama avrebbe potuto fare un ultimo tentativo per rilanciare i colloqui di pace israelo-palestinesi e spingere forte sul Congresso per l’approvazione dell’accordo commerciale trans-pacifico (Tpp). Ma secondo l’entourage di Trump, Obama non dovrebbe neppure pensare di fare passi del genere. E la visione fra i due presidenti, anche in politica estera, è radicalmente diversa. Secondo fonti vicine al governo, quando Obama era entrato alla Casa Bianca, non aveva molta attenzione per l’Europa, perché la considerava un alleato solido e stabile; ora ne esce molto preoccupato di lasciare il continente in frantumi e non solo per la Brexit e l’aggressività russa. L’incertezza per le elezioni in Francia e Germania, il referendum costituzionale in Italia, il debole governo spagnolo, l’emergenza dei migranti legata a terrorismo e guerre prefigurano un forte rischio di instabilità. Ma se, nella visione di Obama, la Ue e (in particolare) la Nato sono i pilastri dell’equilibrio transatlantico che vanno rinforzati, per Trump l’Alleanza atlantica va ripensata: "L’America deve restare, ma dobbiamo spendere molto meno", aveva detto neo-presidente repubblicano in un’intervista alla Cnn durante la campagna elettorale. Parole che ora fanno dire al numero uno della Commissione Ue Jean-Claude Juncker: "Penso che rischiamo di perdere due anni aspettando che Donald Trump termini di fare il giro del mondo che non conosce". Nuovo capo alla guida del team di transizione. Sarà Mike Pence, il vicepresidente eletto, a guidare il team di transizione alla Casa bianca: prenderà il posto del governatore del New Jersey, Chris Christie, che da mesi cooordinava il gruppo. Christie, comunque, insieme all’ex sindaco di New York, Rudy Giuliani e a Michael T. Flynn, generale dell’esercito in congedo, continueranno a lavorare al passaggio di consegne. Trump ha detto ai suoi consiglieri che vuole sfruttare l’esperienza e i contatti di Pence a Washington per guidare il processo, scrive il New York Times, che ricorda come Christie continui a essere coinvolto, pur non direttamente nello scandalo del bridgegate, che di recente ha portato all’accusa di truffa due dei suoi più stretti collaboratori: avrebbero chiuso parte delle corsie del George Washington Bridge, il ponte che collega il New Jersey a Manhattan con l’intento di creare code e problemi all’amministrazione democratica di de Blasio. Secondo alcuni analisti proprio questo scandalo potrebbe rischiare di lasciare fuori dalla squadra di governo Christie. KU CLUX CLAN MENTRE migliaia di americani delusi e sconcertati scendono in piazza per contestare il futuro presidente Donald Trump, al fianco del tycoon scende in campo il Ku Klux Klan: l’organizzazione razzista e suprematista bianca ha annunciato sul proprio sito che il 3 dicembre organizzerà una "parata per la vittoria" in North Carolina, senza precisare la città in cui si svolgerà la manifestazione. "L’anima nera di Donald Trump", il film sul supporter del Ku Klux Klan - Lo speciale Condividi "La corsa di Trump ha unito la mia gente", è scritto con un sinistro gioco di parole nella didascalia sopra il ritratto di Trump: la parola "race", in inglese, vuol dire sia "corsa" che "razza". Subito dopo la vittoria del candidato repubblicano un ex leader del Ku Klux Klan, David Duke, aveva rivendicato con un tweet il contributo del gruppo nella sua elezione: "La nostra gente ha svolto un ruolo enorme!". Fin dal giorno dopo l’elezione del candidato repubblicano sui social erano circolate foto e messaggi di denuncia di violenze a sfondo razziale, in particolare contro giovani donne musulmane. JP MORGAN TESORO MILANO - Si profila un derby Goldman Sachs-JP Morgan per il ruolo di Segretario al Tesoro americano e riaffiorano le critiche di chi vede nei colossi di Wall Street quella “fucina di classe dirigente” che fa gridare al conflitto d’interessi. Nulla di nuovo, verrebbe da dire, visto che già anni fa i resoconti di stampa segnalavano come Goldman Sachs prestasse alla nazione i servizi dei suoi due top manager Bob Rubin e Hank Paulson, segretari al Tesoro con Bill Clinton e George Bush. Oggi, le indiscrezioni danno l’ex di Goldman, Steve Mnuchin, e l’ad di JP Morgan, Jamie Dimon, come papabili indicati dallo staff del presidente eletto Donald Trump. Le loro banche sono nel lotto delle 23 prescelte dalla Fed di New York a primary dealer, controparti privilegiate invitate a partecipare in maniera “consistente e concorrenziale” alle aste dei titoli di Stato Usa. Materia che non scarseggerà nei prossimi anni, se si considera che già oggi gli Stati Uniti siedono su 19mila miliardi di dollari di debito e che le politiche economiche di Trump rischiano di farlo lievitare di 7mila miliardi in un decennio. “Ma non è dalle commissioni per partecipare a queste aste che rischia di derivare il loro potere”, ragiona un banchiere d’affari, “quanto piuttosto dalla eventuale vicinanza ai centri di decisione garantita da ex esponenti in un ruolo chiave per la politica economica e monetaria”. Certo, l’indipendenza della Fed dal Tesoro dovrebbe essere sempre garantita. Ma più osservatori vedono già montare la pressione sulla Banca centrale da parte dell’amministrazione Trump, per quanto i portavoce repubblicani si siano affrettati a tranquillizzare gli animi. Ai primary dealer, d’altra parte, è richiesto il continuo apporto di spunti al desk della Fed di New York, che conduce le operazioni di politica monetaria decise dal Fomc di Washington, sull’andamento dei mercati finanziari: osservazioni che aiutano a indirizzare la politica monetaria stessa. Ruoli e intrecci che, col debito, rischiano di far montare i sospetti tra le fila di chi vorrebbe chiudere per sempre le porte girevoli tra finanza e cosa pubblica. MAURIZIO RICCI Qualcuno ha parlato dell’emergere di un Nuovo Ordine mondiale. Ma non c’è bisogno di agitare parole che evocano spettri lontani, angosciosi, totalitari. Molto più sobriamente, Florian Philippot, braccio destro di Marine Le Pen, ha detto: "Il loro mondo sta crollando. Si sta cominciando a costruire il nostro". "Loro", naturalmente, sono le élites liberali, cosmopolite, internazionaliste, "noi" sono i nuovi movimenti che diffidano del commercio internazionale, sono gelosi della sovranità nazionale, difendono l’omogeneità culturale dei singoli paesi. Il punto è che la costruzione di questo mondo populista è affare non remoto, ma immediato. L’Europa sta per affrontare, a scadenza serrata, nell’arco di un anno, una serie di "Trump moments". E, secondo l’agenda stesa dal giornale Politico, si comincia subito, domenica. In Bulgaria, un ex generale, che ha vinto il primo round, potrebbe essere confermato dal ballottaggio alla presidenza. Rumen Radeev non ha esperienza politica, sarà appoggiato da una colazione di partiti di estrema destra filorussi ed è lui stesso ritenuto vicino a Putin. Una sua vittoria comporterebbe, probabilmente, le dimissioni del governo attuale e nuove elezioni parlamentari. Due settimane dopo, il 4 dicembre, in Austria, si rifanno le elezioni per la presidenza della Repubblica, invalidate per il pasticcio dei voti postali. Norbert Hofer, sconfitto di stretta misura dal candidato verde la volta scorsa, potrebbe vincere il rematch, portando al vertice del paese il rappresentante di un partito di estrema destra, con radici naziste, come il Partito della Libertà che fu di Joerg Haider. Difficile che l’attuale governo di centro sinistra sopravviva ad una vittoria di Hofer. Lo stesso giorno c’è il referendum costituzionale, in cui Renzi si gioca il suo destino. I grillini da una parte, i leghisti dall’altra si attribuirebbero il trofeo di una sconfitta dell’attuale presidente del Consiglio. C’è maretta anche in Danimarca, dove il governo Rasmussen traballa ed elezioni anticipate potrebbero essere indette prima della fine dell’inverno. A cavalcare l’opposizione è il Partito del Popolo Danese, da sempre antieuropeo. Il leader Kristian Thulesen Dahl è convinto che la spinta anti immigrati lo favorirà nelle urne. Il 15 marzo si vota in Olanda. Geert Wilders, il leader del Partito per la Libertà, noto per le sue campagne anti islamiche, dovrebbe prendere la stessa quota di voti del Partito Popolare del premier Mark Rutte, diventando l’ago della bilancia del futuro governo. Il 23 aprile, un evento storico si produrrà in Francia. Se le previsioni saranno rispettate, per la prima volta, il Fronte Nazionale, con la sua candidata Marine Le Pen, arriverà in testa al primo turno delle presidenziali. Dopo la Francia, tocca alla Merkel. Il 27 agosto si rinnova il Bundestag. Gli euroscettici e nazionalisti di Alternativa per la Germania sono praticamente certi, sull’onda delle polemiche sugli immigrati, di superare la soglia di sbarramento ed entrare in Parlamento. Subito dopo, in ottobre, si vota nella Repubblica Ceca. I sondaggi danno 10 punti di vantaggio sui socialdemocratici a Andrej Babis, una sorta di Berlusconi locale, che guida un partito fondato cinque anni fa, dal nome iperpopulista Azione dei Cittadini Insoddisfatti. Gli inglesi, con la Brexit, la loro parte, com’è noto, l’hanno già fatta. Ma non occorre che l’ondata populista sul continente abbia lo stesso successo. La Le Pen, Wilders, Dahl, Hofer possono anche non raggiungere la vittoria finale. Ma le leggi della politica implicano che, se le previsioni di una loro avanzata verranno rispettate, saranno in grado di condizionare pesantemente i rispettivi governi. In meno di dodici mesi, l’Europa potrebbe non essere più la stessa. ARMI MILANO - Le strane logiche dei mercati regalano a Wall Street il più surreale dei paradossi: il crollo dei titoli dei produttori di armi dopo il trionfo di Donald Trump alle elezioni presidenziali Usa. Il futuro inquilino della Casa Bianca - non è un mistero per nessuno - è un paladino del secondo emendamento Usa, quello che consente di tenere in casa senza regole e limiti fucili e pistole. Durante la campagna elettorale non ha perso occasione per ribadire le sue posizioni, promettendo che avrebbe liberalizzato l’uso delle armi da fuoco anche negli uffici e nelle chiese. La sua vittoria, immaginavano tutte le persone di buon senso, avrebbe dovuto far da detonatore alle azioni del settore in Borsa. Invece non è andata così. Un secondo dopo la campanella d’inizio delle contrattazioni nel secondo giorno post-elettorale sono iniziate a piovere le vendite come se alla presidenza Usa fosse stato eletto il Mahatma Gandhi. E a fine seduta per i big del comparto è stata un Caporetto: Smith & Wesson ha perso il 6%. Ancora peggio è andata alla Sturm Ruger, che ha chiuso con un crollo del 12%. Un naufragio controintuivo che - spiegano gli analisti - ha una ragione contorta come la psiche dei listini: la delusione degli investitori per la mancata vittoria di Hillary Clinton, la nemica numero uno dei produttori di armi a stelle e strisce. Un’ipotesi che avrebbe provocato una corsa agli acquisti dell’ultimo minuto dopo l’annuncio dei risultati e prima del suo insediamento, facendo volare - almeno così immaginava Wall Street - le vendite nelle settimane successive al voto. Smith & Wesson & C. invece, malgrado lo scivolone di ieri, possono dormire ora sonni tranquilli. Trump in campagna elettorale è stato chiaro: "Hillary vuole togliervi le pistole. Vuole che la gente non si difenda e vuole liberare pericolosi criminali - ha detto - . Noi non lo permetteremo, gli americani hanno il diritto di difendersi al 100%. Quando diventerò Presidente degli Stati Uniti ci sbarazzeremo delle gun free zone". Una posizione chiara che gli è valsa l’appoggio della potentissima National Rifle Association. Nessun limite in vista, insomma. Anzi, è più probabile che il neo-presidente, pagando il suo debito elettorale, liberalizzi ulteriormente il possesso di armi da fuoco. Lo stesso Barack Obama in fondo in otto anni di presidenza non è riuscito a fare molto contro la loro lobby. I tentativi di restringere la vendita di pistole a negozi licenziati o di imporre check up penali e sanitari per gli acquirenti sono in sostanza naufragati. E i titoli della Smith & Wesson, nelle due legislature in cui è rimasto alla Casa Bianca, hanno quintuplicato il loro valore. DOPO lo shock dell’elezione di Donald Trump, cominciano ad emergere voci che ci invitano a non lasciarci andare alle emozioni, a non esagerare, a sottoporre questo sorprendente evento a un’analisi realista e priva di emotività. SEGUE A PAGINA 33 ANZI, addirittura a vederne i possibili aspetti positivi. Qualcuno mette l’accento sul fatto che chi è stato sconfitto se lo meritava: Hillary Clinton, incarnazione dell’establishment, è stata respinta da cittadini frustrati, indignati, assetati di cambiamento. E il cambiamento è sempre positivo, no? Non manca chi sottolinea che Trump non è mosso dall’ideologia, ma da una miscela di interessi personali e opportunismo politico, e quindi non è detto che metterà in atto quello che aveva promesso/ minacciato durante la campagna elettorale. Il pregiudizio favorevole nei confronti dell’imprenditore in politica (qualcosa che in Italia conosciamo bene) è molto radicato. In campo progressista, poi, c’è chi dà il benvenuto al risultato delle elezioni americane definendolo un salutare scossone a una sinistra contraddittoria, autolesionista, priva di orientamenti chiari, incapace di parlare a quelli che dovrebbero costituire la sua base naturale: gli esclusi, quelli che sono svantaggiati da un sistema economico che promuove disuguaglianza e blocco di quella mobilità sociale che, soprattutto in America, era il vanto più essenziale del capitalismo. Vi sono poi i sostenitori della continuità del sistema americano, che prevedono che Trump — che sarebbe in fin dei conti un conservatore, anche se un po’ sboccato e becero — finirà per essere riportato al mainstream repubblicano. È certo comprensibile che si voglia evitare di lasciarsi andare allo sconforto. Dopo tutto, il sole — come ha detto Obama nella sua prima dichiarazione post-elettorale — è sorto anche dopo l’elezione di Trump e nessuno è in grado di prevedere al cento per cento quali esattamente saranno le caratteristiche di un’amministrazione Trump. Ma troppi sono gli elementi che permettono di ritenere che si tratti di speranze piuttosto patetiche e poco fondate. È vero che l’establishment democratico ha subito una sconfitta meritata non solo per i suoi errori di strategia, ma per avere rincorso un centrismo reso impossibile dalla mutazione, molto prima di Trump, del Partito Repubblicano dalla moderazione al radicalismo del Tea Party. La piattaforma elettorale di Trump non è certo di sua creazione, dall’intenzione di abolire la riforma sanitaria di Obama alla mano dura contro l’immigrazione (il muro con il Messico), dallo sviscerato amore per le armi anche da guerra nelle mani dei cittadini all’irrefrenabile passione per la diminuzione delle tasse (ai ricchi, si intende). Temi su cui sarebbe molto difficile per Trump deludere le aspettative dei suoi elettori. Senza parlare del fatto che la campagna di Trump ha mobilitato una più che inquietante componente politica: quella che in America si definisce eufemisticamente “destra alternativa — alt.right”, ma che sembra difficile non definire fascista, dal Ku Klux Klan ai suprematisti bianchi. L’elezione di quello che è stato il loro candidato li farà sentire autorizzati non solo a diffondere la loro ideologia, cosa che peraltro già fanno in modo capillare via internet e le numerose radio estremiste, ma anche ad affermare la loro presenza, spesso armata, sul territorio. Chi vuole essere ottimista a tutti i costi fa poi riferimento al sistema costituzionale americano, a quei checks and balances che dovrebbero impedire una gestione accentrata e incontrollata del potere. Si dimentica che Donald Trump non controllerà solo l’esecutivo, ma anche il potere legislativo, con la maggioranza sia alla Camera sia al Senato, che il giudiziario, dove darà la propria impronta con la nomina di nuovi giudici della Corte Suprema. Lo stesso patetico tentativo di sminuire il significato dell’elezione di Trump lo vediamo anche per quanto riguarda la politica estera, dove molti sono riluttanti a immaginare cambiamenti sostanziali e sottolineano che esistono interessi permanenti, sia in campo economico che in quello della sicurezza, che nemmeno il più scatenato demagogo può permettersi di ignorare una volta arrivato alla carica presidenziale. E invece l’arrivo di Trump alla Casa Bianca avrà ripercussioni molto radicali e metterà in moto dinamiche potenzialmente destabilizzanti. La Nato: Trump non è certo un antimilitarista, ma ritiene che gli alleati siano “free riders” e non paghino le loro quote per la difesa comune. La polemica non è nuova, ma ora lo stile non sarà più quello che Washington ha usato finora: pressanti ma garbati inviti a fare di più. Putin: il leader russo non ha più simpatia per i Repubblicani che per i Democratici, ma ha visto nella possibile elezione di Trump un’occasione per guadagnare spazi di fronte a un’America ormai “curata” dall’internazionalismo liberale di cui Hillary era rappresentante, nella versione “falco”. Forse spera di poter raggiungere più facilmente accordi — che sanzionerebbero il riconoscimento della Russia come potenza con cui si deve trattare — con qualcuno che gli assomiglia sul terreno di una realpolitik che non ha paura del cinismo e della spregiudicatezza. Tre temi internazionali su cui è sicuro che l’impatto della presidenza Trump si farà sentire sono: il riscaldamento globale, che Trump ha definito un falso problema basato su una pseudoscienza; l’accordo nucleare con l’Iran, su cui Trump ha espresso pareri violentemente negativi; gli accordi sul commercio internazionale, bestia nera del populismo protezionista cha ha svolto un ruolo centrale nella campagna di Trump. Infine, è difficile credere che esistano molti “minimizzatori” alle Nazioni Unite, dato che è prevedibile che la nuova amministrazione americana passerà dalla critica all’aperta ostilità. Soprattutto se, come possibile, dovesse diventare Segretario di Stato John Bolton, ex rappresentante americano all’Onu, di cui è coerente e appassionato nemico, famoso fra l’altro per avere dichiarato che il diritto internazionale non ha alcun valore legale. Non resta che dire: “Allacciate le cinture”. Saremo ben presto messi tutti alla prova — una prova non facile. ©RIPRODUZIONE RISERVATA