Caterina Soffici, Il Fatto Quotidiano 11/11/2016, 11 novembre 2016
“BASTA FIGHETTE”: CLINT E LA VOCE DELL’AMERICA SUL RING DELLA RABBIA
Basta con la retorica dell’Altra America. Perché “altra”? Rispetto a quale supposto paese? E se l’Altra America fossero invece la California e il New England, Philadelphia e New York i luoghi dove domina il pensiero unico del politicamente corretto? Il racconto dell’America che ha votato Trump potrebbe invece partire da qui, da una prospettiva rovesciata. Non l’“altra”, ma l’America tout court, quella dell’uomo comune che se ne sbatte dei diritti dei gay, perché i gay gli danno un po’ di fastidio (anche se ha paura ad ammetterlo). Che non vuol sentir parlare di armi al bando, perché ha il fucile accanto al comodino e vuole poter sparare a chi mette piede nel suo giardino. E che quando esce lo mette nel cassone del pick up, perché non si sa mai. Che mal ha sopportato un presidente nero e che mai avrebbe voluto una donna nella stanza dei bottoni. Che sta dalla parte dei poliziotti, sempre e comunque, anche se sparano a un ragazzino nero senza motivo, perché bisogna vedere se era davvero disarmato e vedrai che qualcosa avrà fatto, sennò non gli sparavano.
La classe media tra paure e hamburger
L’americano maschio bianco medio (non è un giudizio questo, ma i dati elettorali: per Trump hanno votato il 53% uomini e il 58% bianchi) vuole ritrovare il suo orgoglio perduto. Ripartiamo dall’America di Clint Eastwood, convinto supporter repubblicano da sempre. In un’intervista alla rivista Esquire, l’86enne attore dei western di Sergio Leone aveva tirato fuori dalla fondina la 44 Magnum e aveva messo a nudo l’anima dell’ispettore Callaghan, il duro che parla chiaro e non ha paura a dire cose sgradevoli, se ce n’è bisogno. “Basta con i buonisti leccaculo”, aveva detto. Basta con questa pussy generation, una generazione di fighette. “Sono stufo del politicamente corretto. Questo non si fa, questo non si dice. Certi politici si muovono come se camminassero sulle uova. Quando ero giovane io, certi argomenti non erano tabù e non erano considerati razzisti”. Quindi fece il suo coming out pro Trump, mosca rara tra le star di Hollywood. Non era proprio un endorsement, ma una dichiarazione di supporto: “Non sono eccitato dal votare Trump. Ma almeno dice ciò che pensa, anche se spesso dice cose sbagliate e non sono d’accordo, riesco a capire da dove viene e quel che dice”.
È lo stesso Clint che durante la campagna di Obama contro John McCain, mise in scena la sua sfiducia registrando un video nel quale, da solo su un palcoscenico, faceva domande a una sedia vuota. Obama era il vuoto.
Quello che scandalizza a New York, che a Philadelphia è giudicato disgustoso e impresentabile, piace all’America di Clint.
Che è l’America della ragazzina di Million Dollar Baby, così povera che mangia gli avanzi dai piatti nel ristorante dove lavora, ma non rinuncia al suo sogno americano di salire sul ring. È l’America di Clint ma anche della provincia desolata dei quadri di Hopper, con le friggitorie aperte tutta la notte e i baracchini degli hamburger lungo le strade deserte.
È anche l’America di Raymond Carver e dei suoi racconti fulminanti. Quella classe media che vive nelle casette e si ingegna con mille lavoretti per arrivare a fine mese, in uno squallore esistenziale che solo i grandi artisti e i grandi scrittori sanno cogliere e rendere con quella efficacia.
Stranieri fuori e il mito dei Padri Fondatori
Trump è l’opposto di un artista. È il miliardario cafone che però ha intercettato il fluido di disperazione che esce da quelle casette, da quei fast food lungo le highways, dalle cucine piene di junk food e Coca Cola.
Che mentre Cher e Madonna sfilano e manifestano il loro disappunto, sul web si scatena @EastwoodUsa, un account twitter che secondo i giornali è un fake di Clint. Sfotte una ragazza in lacrime: “Hillary supporter, ahah”. Chiama Scharzenegger a sparare con lui in segno di gioia: “Sei pronto amico? Porta le pistole grosse”. Esagera: “TRUMP TRUMP TRUMP. Dal mio ranch posso sentire l’armata marciare alle urne. Un suono vittorioso!”. Poi l’account verrà sospeso da Twitter. Rimane in Rete uno degli ultimi cinguettii: “Gli uomini e le donne che sono stati lasciati indietro non lo saranno più”. Non è di Clint, ma chi l’ha scritto parla a nome di quell’America. È stato ritwittato 200 mila volte e ha raccolto quasi 600 mila cuoricini.
“Make America great again” è lo slogan di Trump. Poteva essere semplicemente “Make America again”. L’America di Clint vuol tornare ai Padri fondatori, alle origini, che non erano politicamente corrette ma davano una speranza a tutti. Fuori gli stranieri, riprendiamoci il suolo americano. La nostra terra, vandalizzata dagli scarponi dei messicani che lavorano per un tozzo di pane e dai prodotti cinesi a basso costo.
Quell’America si porta con sé il Ku Klux Klan? I peggiori istinti xenofobi, sciovinisti, machisti? Non importa. Ieri il New Yorker ha titolato: “An American Tragedy”. Per l’America di Clint è un pensiero da fighetta buonista leccaculo.