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 2016  novembre 11 Venerdì calendario

QUELLA VOLTA CHE IO E MORAVIA ABBIAMO DOVUTO MANGIARE UNA PROBOSCIDE– [Andrea Andermann] «Una volta, eravamo in Gabon, stavamo andando a mangiare in una bettola: senza accorgerci calpestiamo una colonia di formiche che, ci dicevano, erano in grado di soffocare un bambino

QUELLA VOLTA CHE IO E MORAVIA ABBIAMO DOVUTO MANGIARE UNA PROBOSCIDE– [Andrea Andermann] «Una volta, eravamo in Gabon, stavamo andando a mangiare in una bettola: senza accorgerci calpestiamo una colonia di formiche che, ci dicevano, erano in grado di soffocare un bambino. Il tempo di entrare e siamo avvolti da un formicolìo: ci siamo lanciati in bagno e ci siamo svestiti completamente per cacciarle via!». Andrea Andermann è una miniera di ricordi: «Ventidue anni di viaggi, abbiamo fatto insieme, io e Alberto Moravia. L’“altro” e l’“altrove” erano i nostri obiettivi». Ed è proprio con il titolo Andando Altrove che oggi pubblica (in Italia per Bompiani) una straordinaria scelta delle «migliaia e migliaia di fotografie» scattate – «con una Leica e una russa Gorizont, per i paesaggi “smisurati” che amo» – durante alcuni di quei viaggi, in Mongolia, Yemen e Africa varia (questi ultimi diventarono anche documentari), insieme con i testi dello scrittore, in parte pubblicati negli anni ‘70 e ‘80 sul Corriere della Sera, in parte inediti, come le rare poesie. Ci incontriamo a Roma, negli uffici della Rada Film, la sua casa di produzione: negli ultimi due decenni, in particolare, Andermann ha realizzato, anche da regista, veri kolossal, mettendo in scena, in diretta tv, le opere liriche nei luoghi e nelle ore della libretto, quindi Tosca a Roma, Traviata a Parigi e Rigoletto a Mantova. «Alberto abitava in fondo a questa strada, il Lungotevere della Vittoria. Eravamo molto legati, io e mia moglie siamo stati anche testimoni alle nozze con Carmen (Llera, ndr), e questa era la sua casa di riserva, in questa stanza abbiamo passato mesi, negli anni, quando tornavamo dai viaggi», ricorda, mentre Nerina, un cairn terrier nero trovata alla periferia di Ostia, abbaia e fa festa. Il volume è già uscito in Francia, da Grasset, «che normalmente non fa libri di immagini: ma per Olivier Nora è stato un colpo di fulmine». A Parigi la critica l’ha accolto in maniera trionfante: «È stato quasi imbarazzante». L’hanno chiamato anche “libro-film”. Come è nato? «Il progetto, avviato nei primi Anni ‘80 con Moravia, prevedeva tre volumi separati. Avevamo messo a punto anche un paio di abbozzi di menabò. Mancato Alberto (nel ’90, ndr), non ho voluto farne più nulla. Solo otto anni fa ho deciso di riprenderlo in mano. Racconta un viaggio “parallelo”: le immagini non illustrano esattamente il testo né viceversa. Sono intervenuto su ogni scatto, per spremerlo e tirarne fuori l’anima: ho lavorato sui colori e sulla luce. Io non sono un fotografo: sono solo uno che prende appunti. Ma ho imparato molto da Vittorio Storaro (tre volte premio Oscar, ndr): è lui il direttore della fotografia di tre dei miei film». L’“Altrove” del titolo, in realtà, lei ce l’ha nel sangue...
 «Io sono nato da una famiglia paterna ebrea che veniva dal cuore dello “yiddishland”, allora al confine dell’impero austro-ungarico: il villaggio di Nivra, che tradotto significa “coloro che non credono”, sul fiume Zbrucˇ, alla fine dell’800 apparteneva alla mia famiglia. Con i primi, ferocissimi pogrom del 1905, la loro grande casa in cima alla collina fu incendiata. Mio padre era piccolo e la famiglia si trasferì a Vienna. Lì lui divenne un noto avvocato: in quella Mitteleuropa, conobbe mia madre, più giovane di lui, di famiglia ebraica benestante, nel commercio di tessuti...». Sembra un film. «Alla fine, mio padre ha fatto 4 matrimoni, mia madre 5. Con l’Anschluss (l’annessione dell’Austria da parte di Hitler, ndr), essendo lui molto esposto come antinazista, cambiò tutto. Riuscì a mettere in salvo la famiglia in Albania, dove aveva rapporti col re per motivi di lavoro e dove io sono nato. Poi sono arrivato in Italia, a Lecce. Lì ho studiato dai gesuiti, il mio maestro è stato Giuseppe De Rosa, mente della rivista Civiltà cattolica. Alla fine sono andato all’università a Parigi, alla Sorbona: facoltà di Lettere, indirizzo teatro». È così che ha cominciato a viaggiare? «Quando ero studente, da un bouquiniste, un venditore di libri usati lungo la Senna, trovai una bellissima copia del volume Voyage au Congo di André Gide, sul viaggio che fece nel 1927 e fu, per lui e per la Francia, dopo la pubblicazione del libro, la reale scoperta del colonialismo. In questo voyage, in cui lo stesso Gide si richiama a Cuore di tenebra di Joseph Conrad, fu accompagnato dal suo intimo amico Marc Allégret, che era regista – siamo a pochi mesi dalla fine del muto – e girò un film, che io vidi alla Cinemateque. Allora proposi a Moravia, con cui ci conoscevamo già bene, di rifare quel viaggio, ma come un docu-drama: quindi di partire e filmare tutto in diretta, ma dopo una lunga preparazione. Così abbiamo risalito il fiume Congo per settimane e settimane con Moravia che ha idealmente ripercorso – con lui come fil rouge – le opere di Conrad e Gide, oltra al Viaggio al termine della notte di Cèline». Quando vi eravate conosciuti? 
«A Parigi avevo studiato teatro con una particolarissima attenzione alla ricerca documentale: oggi, qui, in fondo al corridoio, ho un archivio enorme di libri e ritagli di giornale. Allora – ero un ragazzino – avevo cominciato a fare l’aiuto regista con Franco Zeffirelli, per la messa in scena di Tosca, all’Opéra di Parigi: la cantante si chiamava Maria Callas». Quando si dice cominciare bene. «Sono tornato a Roma e con Zeffirelli abbiamo fatto La lupa con Anna Magnani. È così che ci siamo incontrati con Moravia: andava parecchio a teatro, ricordo che in quello di Via Belsiana c’era tutta una compagnia di scrittori – Siciliano, Augias... I viaggi ci hanno subito fatto legare. Il primo, in Costa d’Avorio e Benin, lo facemmo già nel periodo di Natale del ’68: tre settimane, io, lui e Dacia Maraini, con cui stava allora. Ero un ragazzo, lui aveva il “doppio” della mia età, e anche di Rada, la mia compagna, (l’attrice Rada Rassimov, diventata famosa con il film Il buono, il brutto e il cattivo di Sergio Leone, e ora produttrice col marito, ndr), che è poi venuta in parecchi viaggi. Però noi facevamo i “genitori” e Alberto era il bambino». Quanti ne avete fatti? «Dal ’68 al ’90, ogni anno uno, se non due o tre. Di uno o tre mesi ciascuno... Gli dicevo: dove andiamo? E lui di rimando: dove vuoi andare? Allora indicavo un Paese: erano scelte arbitrarie, quasi puntavo il dito a caso sul mappamondo. Prevalentemente l’Africa. Ma siamo andati anche quattro volte in Mongolia, cinque in Yemen... A sud del Sahara siamo riusciti a fare la mappa completa. Solo in Sud Africa non ci hanno mai fatto entrare perché – parliamo di tempo dell’apartheid – Moravia era considerato scrittore di sinistra e quindi “comunista”». Paesi oggi inavvicinabili, tra terrorismo e conflitti. Ma anche allora comunque rischiosi. «Esponevo Moravia all’incertezza, portatrice di ansia, che gli faceva bene come scrittore. Abbiamo attraversato il Sahara per tre mesi, le Land Rover e noi, spesso con il pericolo di perderci...». Di cosa aveva paura, in particolare? «Chiedeva sempre: “Dove compriamo il pane, oggi?”. Aveva sofferto la fame da piccolo, gli era rimasta questa costante preoccupazione, anche se poi, in realtà, mangiava in modo frugale. Ma spesso ci siamo anche nutriti di scatolette». È capitato anche di mangiare cose strane? «In Gabon ci hanno fatto assaggiare la proboscide di elefante, ma non c’era nient’altro con cui sfamarci. Sembra gomma da masticare. Un’altra volta, in Congo, fu peggio».
 Racconti. «Fuori dalla stagione delle piogge si naviga lentamente. Il fiume è molto basso, anche 80 centimetri. Potevi stare per giorni sulla prua del battello e veder passare foresta, foresta, foresta... Di solito chi naviga parte con provviste per 5-10 giorni. Quando si approda, dai villaggi arrivano a frotte a venderti da mangiare. Di tutto: compreso le scimmie, che tenevano spesso inchiodate a due assi». Terribile. «Già. In uno di questi nostri viaggi, il capitano aveva a bordo la sua scimmia, con cui abbiamo anche giocato. A un certo punto però – noi non ce ne siamo accorti – i viveri erano finiti. Vado in cucina e vedo una manina che esce dalla pentola. “L’avete già mangiata ieri, era un po’ dolce”, ci dice il capitano. In realtà, però, si è trattato di episodi rarefatti, negli anni. Il punto vero dei nostri viaggi era semplicemente partire. Andare». Com’era l’organizzazione? Non certo come oggi, che si va su internet e si prefigura più o meno tutto. 
«Le capitali erano il punto di partenza, poi ci si muoveva in auto o barche. Eravamo attrezzati con le tende, per ogni caso di necessità, ma mi fidavo anche dell’improvvisazione. L’importante era semplicemente andare. Spesso, Alberto lo ricordava, questo lo aiutava a sbloccare una stesura del romanzo che stava scrivendo e magari non lo convinceva. Partivamo per settimane o mesi e lo lasciava lì; quando tornava, non aveva l’abitudine di correggere le bozze: ricominciava a scrivere da zero». Prendeva molti appunti? «Pochi, anche se io ho diversi suoi quaderni. Diceva: quando torno a Roma, quello che ricordo ha valore, se non lo ricordo non ne ha. Io invece viaggiavo come un albero di Natale fatto di macchine fotografiche». «Sono andato in Mongolia perché avevo dei rubli in una banca a Mosca», sono i versi autoironici di Moravia riportati – scritti a macchina – nel libro. Come andò esattamente? «Ulan Bator era un mio sogno da anni. Un giorno eravamo a Mosca al congresso degli scrittori. In Unione Sovietica, dove siamo stati insieme diverse volte, Alberto era considerato dal potere uno scrittore comunista – con una visione un po’ “larga” – ma era anche amatissimo dai lettori. Tant’è vero che è stato uno dei pochissimi scrittori a cui furono riconosciute le royalties. Infatti mi disse: mi sono avanzati dei soldi, che ci faccio? Per prima cosa, suggerii, fai un regalo a Dacia. E infatti le comprò un cavallo, che prese in Ungheria».
 E con il resto? 
«Andammo, con l’aiuto dell’interprete, ad aprire un conto in una banca di Mosca. Era il ’75. La banca era una stanza: dietro le sbarre di ferro c’era una babushka con il fazzoletto in testa. L’interprete le spiega: questo signore vuole aprire un conto. “Ci vogliono i contanti”, dice l’impiegata. “Ce li ha”, risponde l’interprete. Al che Moravia – anche la donna lo conosceva di fama – apre la valigetta con i soldi che gli avevano dato per i diritti: piena di rubli. Non dimenticherò mai la faccia della babushka che disse, solenne: “Adesso so che cosa è un capitalista”». Vi siete mai scontrati, in questo “Andando”? «Solo una volta. Mi fece una scenata, nello Yemen, perché non l’ho portato a fare un’escursione».
 Che cosa era successo? 
«Eravamo in un’isola particolarissima, Socotra, dove per 6 mesi all’anno, con i monsoni, le barche non riescono nemmeno ad approdare e per i rifornimenti lanciano i barili. Ci vivono 70 mila persone, il 30% nelle grotte. Arrivarci era già stata un’impresa. Lo Yemen era ancora diviso in Nord capitalista e Sud comunista, e Socotra era la base dei sottomarini nucleari sovietici». Inavvicinabile. «Io avevo coltivato buoni rapporti diplomatici, così siamo riusciti ad arrivare con un aereo militare: la pista era piena di rocce. A Socotra ci sono 650 tipi di piante, di cui tre crescono solo lì. Una, detta Sangue di Drago, è pericolosa perché spruzza un veleno. Appena scesi, Moravia, che aveva un bisogno fisico, non va a toccare proprio una di quelle piante? Urlo dell’autista, anche perché tutti avevano il timore che potesse succedergli qualcosa. La sera mi spiegarono che il percorso verso l’interno prevedeva l’attraversamento di torrenti in guadi in cui l’acqua arrivava spesso all’altezza dei finestrini: “Noi possiamo andare, ma lui non lo deve portare”. Concordammo di partire alle 4 del mattino e lo lasciai dormire». E quando s’è svegliato? «Chiese a Rada, che era con noi, dove fossi. “È dovuto andar via prima, per evitare le piogge”, gli spiegò. Scenataccia! “Non gli parlo più finché non torniamo a Roma!”. Alla sera, dopo una giornata in effetti “estrema”, mi accolse in silenzio battendo il suo bastone per terra – era uno degli ultimi viaggi, credo l’89. Toc, toc, toc. Dopo 30 secondi si sporgeva già verso di me: “Che cosa hai visto? Che hai fatto? Dai, dimmi, dimmi...”. Questo era Moravia. Una concentrazione di curiosità e interesse per qualunque cosa. Con la grande forza degli scrittori: la capacità di incantamento, mentre stai ore a guardare paesaggi e umanità». Edoardo Vigna