Marta Zaraska, Mente&Cervello 11/2016, 10 novembre 2016
IL DILEMMA DELL’ONNIVORO
Considerate il maiale: forse vi sta già venendo l’acquolina in bocca al pensiero di pancetta croccante, costolette succulente, prosciutto saporito e salsicce piccanti. Secondo la FAO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, la carne di maiale è quella usata come alimento dagli esseri umani in più luoghi al mondo, e costituisce fino al 36 per cento di tutto il consumo carnivoro. Gli statunitensi ne consumano circa 22,5 chilogrammi l’anno a persona; niente rispetto alla Cina, dove ne mangiano almeno il doppio.
Ma in alcune comunità la carne di maiale è intoccabile: il suo consumo è vietato sia ai musulmani sia agli ebrei. E c’è chi considera i suini, in particolare i maialini pancia a tazza, come adorabili animali da compagnia. Particolarmente socievoli e molto più puliti di quanto non indichi la loro reputazione, i maiali sono molto intelligenti: quelli più ingegnosi giocano a rincorrersi, azionano i termostati dei porcili e possono perfino imparare alcuni semplici giochi con il computer. Uno studio pubblicato nel 2014 su «Animal Cognition» ha dimostrato che i suini riescono a capire le indicazioni gestuali degli esseri umani in modo simile ai cani.
Se state cominciando a sentirvi a disagio per quel panino al prosciutto, non siete i soli: questa inquietudine nasce da un fenomeno che gli studiosi hanno denominato «paradosso della carne», che si ha quando a qualcuno piace mangiare carne ma non riesce a pensare agli animali che muoiono per fornirla. «Sotto sotto, tutti sembrano un po’ a disagio al pensiero di mangiare carne», spiega Brock Bastian, psicologo dell’Università di Melbourne, in Australia. Se amate tutte le creature, grandi e piccole, l’idea di nuocere loro è di sicuro un po’ spiacevole. «Uno dei precetti morali più radicati e osservati è quello di non nuocere», dice Bastian. «Se un animale morisse per cause naturali dubito che le persone si sentirebbero in colpa a mangiarlo».
Uno spiacevole stato psicologico
Più una persona ama la carne e ama gli animali, più pronunciato diviene il problema. È evidente che si possa essere allo stesso tempo carnivori e amanti degli animali; questo è il concetto alla base dei movimenti che propugnano allevamenti di animali in spazi aperti senza l’uso di gabbie. Secondo una ricerca, l’81 per cento degli abitanti dell’Ohio afferma che il benessere degli animali da allevamento è altrettanto importante di quello degli animali da compagnia. Gli statunitensi spendono una fortuna per i loro amici pelosi, circa 50 miliardi di dollari nel 2015; ciò non toglie che mangino circa 9 miliardi di animali all’anno.
Il paradosso della carne è uno strumento per capire la dissonanza cognitiva, uno stato psicologico spiacevole che sorge quando abbiamo a cuore più principi contrastanti o quando vi è una discordanza tra ciò in cui crediamo e il modo in cui ci comportiamo. Lo psicologo Leon Festinger, della Stanford University, descrisse per primo questo fenomeno nel 1957, ma il paradosso della carne è un’area di studio più recente, ed è venuto alla ribalta quando gli psicologi hanno iniziato a studiare come inquadriamo il nostro desiderio per la carne animale. È stato scoperto che usiamo diversi trucchi cognitivi per distinguere tra gli animali che mangiamo e gli altri, per rendere più accettabili idee che altrimenti ci ripugnerebbero.
Cultura e mimetismo
Chiedete alle persone perché mangiano carne e riceverete alcune risposte ricorrenti. Tra le più comuni vi sono quelle che lo psicologo Matthew Ruby, dell’Università della Pennsylvania, chiama «le 4N», elencate in un articolo da lui pubblicato sulla rivista «Appetite» insieme a un gruppo internazionale di collaboratori: giustifichiamo l’uso alimentare della carne animale con la convinzione che essere carnivori sia naturale (ci siamo evoluti per mangiare carne), normale (lo fanno tutti), necessario (le proteine sono indispensabili) e gradevole, (in inglese nice).
C’è una parte di verità in ognuna di queste quattro osservazioni ma il fatto che esistano società vegetariane mostra che le 4N hanno i loro limiti. Un altro aspetto che contribuisce a confondere le idee è il fatto che molte persone che credono nelle 4N sono soggette, secondo Ruby, a pregiudizi di conferma, ovvero hanno la tendenza a preferire informazioni che confermano quello in cui già credono: un esempio è dato dai fumatori accaniti che, come è stato dimostrato, sono scettici riguardo agli studi che dimostrano una relazione tra le sigarette e il cancro ai polmoni.
Per quel che concerne l’alimentazione carnivora, gli economisti Ying Cao, attualmente all’Università di Guelph, in Ontario, e David Just, della Cornell University, hanno scoperto che, in un gruppo di persone a cui venivano fornite informazioni sui rischi da intossicazione da carne di manzo, coloro che avevano appena mangiato carne erano meno inclini a credere alle informazioni rispetto a coloro che avevano mangiato salmone. «Questo pregiudizio di conferma svolge un molo significativo nel rendere accettabile un’alimentazione a base di carne», spiega Just.
A un livello più profondo l’aspetto culturale è fondamentale per capire perché permettiamo ad alcuni animali di vivere a casa nostra mentre altri finiscono in padella. In alcune società mangiare cani è considerato un’eresia, mentre nutrirsi di carne di mucca è perfettamente accettabile; in altre è tabù mangiare mucche, maiali e persino polli, che in Tibet sono considerati impuri perché si nutrono di vermi. Antropologi come Frederick Simoons e Marvin Harris sostengono da tempo che quali animali vengono considerati «carne» dipende dalla rilevanza economica che avevano nel passato (per esempio un cavallo che poteva essere usato per arare i campi non sarebbe stato mangiato) e dalla loro utilità in termini di identità tribale (come in Africa, dove diversi clan e sotto-clan seguono regimi alimentari diversi per distinguersi l’uno dall’altro).
Quando una comunità classifica un animale come «cibo» cambia il modo in cui lo considera. Nel 2011 Bastian, insieme agli psicologi Steve Laughnan, allora all’Università del Kent, nel Regno Unito, e Boyka Bratanova, allora all’Università del Surrey, chiese a 80 volontari di leggere un breve paragrafo sui canguri arboricoli di Bennett, una specie autoctona australiana. Ad alcuni dei partecipanti fu dato un testo secondo cui gli abitanti locali si nutrivano abitualmente di questi animali mentre altri ricevettero solo informazioni generali sui canguri senza alcuna menzione del loro uso come alimento. Quando i partecipanti valutarono quanto i canguri avrebbero sofferto se qualcuno avesse fatto loro del male, emersero nette differenze: coloro che non avevano letto che i canguri erano considerati un alimento valutarono una capacità di soffrire di nove su una scala di dieci mentre coloro che avevano letto che gli animali venivano mangiati spesso la giudicarono più bassa, circa sette.
La relazione tra un essere senziente e un’eventuale fonte di cibo è messa ulteriormente in ombra tramite quello che gli psicologi definiscono «mimetismo linguistico». Hank Rothgerber, psicologo alla Bellarmine University di Louisville, spiega che in molti casi non diamo alla carne il nome dell’animale corrispondente: per esempio in inglese il maiale come animale si chiama pig e la carne di maiale pork, la mucca come animale si chiama cow e la carne di mucca beef. E i moderni anglofoni non sono certo gli unici ad avvalersi di questo mimetismo linguistico: nel XVIII secolo i giapponesi arrivarono addirittura a rinominare la carne di cavallo «ciliegia», quella di cervo «acero» e quella di cinghiale «peonia».
Dissociazione e spersonalizzazione
Il modo migliore per sconfiggere la dissonanza cognitiva è risolvere la disparità tra quello che si pensa e come ci si comporta. Se adorate gli animali e non potete sopportare di mandarli al macello, il vegetarianismo è sicuramente una soluzione. Eppure, considerando la bassa percentuale di vegetariani (tra il 3 e il 5 per cento della popolazione negli Stati Uniti), questa opzione non viene scelta da molte persone.
Potrà non sorprendere il fatto che chi smette di essere carnivoro potrebbe avere una sensibilità più acuita per le sofferenze degli animali; nel 2010 il neurologo Massimo Filippi, dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, e i suoi colleghi hanno esaminato l’attività cerebrale di 60 volontari mediante risonanza magnetica funzionale mentre venivano mostrate loro immagini raffiguranti panorami naturali oppure fotografie di esseri umani e animali sofferenti. «I nostri risultati mostrano uno schema diverso di attivazione tra onnivori e vegetariani all’osservare le scene con gli animali, con un livello di coinvolgimento più elevato delle aree relative all’empatia, come la corteccia cingolata anteriore, nel gruppo dei vegetariani», riferisce Filippi.
Piuttosto che abbandonare completamente le cene a base di bistecche, molte persone optano per quello che gli scienziati chiamano «cambio comportamentale percepito». In genere questa è una soluzione parziale al paradosso, che permette alle persone di rappacificarsi con se stesse. Chi ama gli animali ma è turbato dalle condizioni in cui operano gli allevamenti industriali può acquistare la carne da macellai che garantiscano la vendita di animali allevati e macellati umanamente. Il cambio comportamentale percepito può anche comprendere persone che tentano di convincere se stessi e gli altri di avere smesso di mangiare carne, anche se non è vero. Secondo uno studio pubblicato nel 2015, basato su dati dello U.S. Department of Agriculture e del National Health and Nutrition Examination Survey, uno sbalorditivo 27 per cento di «vegetariani» ammette di mangiare carne rossa.
Un’altra soluzione per il paradosso della carne è quella di ignorare il problema: «Questa è la strategia primaria: non pensare per nulla all’origine della carne», afferma Rothgerber. Nel 2014, assieme a Frances Mican, allora studentessa assistente, ha dimostrato come le persone che durante l’infanzia erano particolarmente legate ai loro animali domestici propendevano di più a evitare di riflettere sulla provenienza della carne.
Un’ulteriore opzione cognitiva per ridurre questa dissonanza è la dissociazione. Separando in qualche modo gli animali che mangiamo dal loro essere senzienti, possiamo praticamente pensarli come mera carne. Questa tendenza può aiutare a spiegare il mimetismo linguistico e i vari modi in cui cerchiamo di creare una distanza mentale tra un animale in grado di pensare e una possibile fonte di cibo e spiega anche perché molti di noi tendano a pensare che gli animali che mangiamo siano meno intelligenti dei nostri cani e gatti domestici.
Nel 2012 Ruby e lo psicologo Steven Heine, della University of British Columbia, hanno consegnato a 608 onnivori due versioni di un sondaggio. In una i volontari valutavano in 17 animali, come polli, mucche e cani, alcuni attributi relativi al cibo, per esempio con che probabilità sarebbero stati disposti a mangiarli; poi dovevano stimare l’intelligenza e le emozioni di questi animali. Nella seconda versione del sondaggio i compiti erano invertiti: i partecipanti dovevano valutare le capacità intellettive ed emozionali degli animali prima di contemplare se fossero o meno commestibili. Il risultato non fu sorprendente: pensare prima alla capacità mentale di un animale rendeva più ripugnante l’idea di mangiarne la carne.
Cambio di percezione
Lo schema è stato confermato in uno studio condotto nel 2012 da Bastian, allora all’Università del Queensland, in Australia, insieme ai suoi colleghi. A 128 carnivori fu mostrata l’immagine di una mucca o di una pecora e a ciascuno fu chiesto di valutare le capacità mentali dell’animale, come la possibilità di provare piacere, paura o rabbia. Successivamente i partecipanti furono coinvolti in un altro studio ufficialmente non collegato al primo sul comportamento dei consumatori, in cui dovevano comporre un testo sulle origini delle carni di manzo e di agnello. Quando i volontari stavano per iniziare a scrivere i ricercatori posero loro di fronte un piatto colmo di cibo da mangiare in un secondo momento: alcuni ebbero alcune mele, altri arrosto di manzo e altri ancora agnello cucinato con rosmarino e aglio. Dopo aver terminato di scrivere il proprio tema, e prima di assaggiare il cibo, a ogni partecipante fu chiesto di nuovo di valutare le capacità mentali di una mucca o di una pecora.
Analizzando i risultati, Bastian e i suoi colleghi notarono che le persone avevano mutato il proprio giudizio sulla mente dell’animale da loro considerato nel caso fossero poi in procinto di mangiare carne. «Questo esperimento evidenzia perfettamente il processo di dissonanza: se pensate di mangiare carne, allora cambiare la vostra percezione di una mucca e considerarla meno rilevante da un punto di vista morale risolve la vostra dissonanza», dice Bastian, che ha scoperto anche che più le persone negavano la possibilità che mucche o pecore fossero intelligenti meno provavano sentimenti spiacevoli alla prospettiva di mangiarle.
Parallelamente altri ricercatori hanno scoperto che incoraggiare le persone a considerare le caratteristiche che rendono un animale più simile all’uomo, per esempio se un cane possa essere o meno un buon ascoltatore, le rende meno inclini a considerarlo come cibo.
E ancora un altro studio di Bastian del 2011 ha scoperto che le persone a cui era stato chiesto di scrivere un saggio su «Che cosa rende gli animali simili all’uomo?» erano meno d’accordo all’idea di allevare bovini o polli per poter usufruire della loro carne di quanto lo fossero le persone che avevano scritto un tema su «Che cosa rende gli esseri umani simili agli animali?». Chiaramente abbiamo una considerazione più elevata delle altre creature se le paragoniamo a noi stessi, ma il contrario non è vero.
Perfino il mero numero di animali macellati per usarne la carne può spersonalizzarli, creando un’ulteriore distanza tra noi e loro. Studi scientifici suggeriscono che per esempio più il numero di vittime in un incidente o in un disastro naturale è elevato, meno ci sentiamo emotivamente collegati alla loro sofferenza. In uno studio ormai considerato un classico le persone donarono a una vittima identificabile in modo chiaro («Baby Jessica») più del doppio di quanto donarono a vittime identificate da un’informazione statistica (10.000 bambini).
Nel 2013 alcuni ricercatori della Carnegie Mellon University, dell’Università del Michigan, della Ohio State University e dell’Università della California a Santa Barbara hanno condotto uno studio simile: dopo aver suddiviso 97 volontari in vari gruppi, hanno mostrato loro immagini di pesci e chiesto a ciascuno di valutare quanto questi animali potessero avere opinioni o desideri. Ma c’era un sotterfugio: alcuni dovevano valutare un pesce circondato da altri simili dello stesso colore, mentre altri dovevano valutare un pesce che nuotava tra altri di un colore differente. L’animale diverso fu considerato più intelligente di quelli che sembravano simili. «Queste scoperte suggeriscono che l’elevato numero di animali che vivono negli allevamenti industriali possa indurci ad attribuire loro ridotte capacità mentali, e ciò dovrebbe rendere più accettabile la possibilità di cibarcene», spiega il principale autore dello studio, lo psicologo Carey Morewedge, ora all’Università di Boston.
Uomini e donne usano tecniche diverse per ridurre la dissonanza causata dal paradosso della carne. Per esempio uno studio del 2014 ha mostrato che gli uomini sono più portati delle donne a dubitare che gli animali possano provare emozioni complesse come amore o lutto e sono anche più inclini a usare quelle che gli studiosi chiamano «giustificazioni pro-carne», come le 4N. Le donne invece, secondo Rothgerber, optano per la dissociazione: fanno semplicemente finta di nulla.
Rothgerber ritiene che il motivo di queste differenze si riduca alle nostre convinzioni culturali che la carne sia in qualche modo un cibo virile. «Mangiando carne gli uomini ottengono una conferma della propria identità. Sono addirittura incoraggiati a pensarlo», afferma. In effetti una ricerca condotta nel 2012 all’Università della Pennsylvania ha dimostrato che molti studenti consideravano bistecche, hamburger e chili con carne come cibi «virili»; i cibi «femminili» comprendevano cioccolata e pesche.
Ai pasti con il cervello
La condizione spiacevole di dissonanza cognitiva può anche spiegare perché avere contemporaneamente onnivori e vegetariani a cena può generare situazioni imbarazzanti, dato che la presenza di persone con diversi regimi alimentari sembra mettere in risalto il paradosso della carne. Ci si può persino trovare a disagio tra i due tipi di vegetariani: quelli etici, ovvero coloro che, per dirla con Isaac Bashevis Singer, non lo sono per la propria salute ma per quella dei polli, e i vegetariani salutisti, ovvero coloro che lo sono per motivi di salute. Nel 2014 Rothgerber ha scoperto che i vegetariani etici consideravano meno favorevolmente i salutisti dopo essere stati invogliati a pensare ai carnivori. La dissonanza cognitiva pone anche le persone sulla difensiva: una ricerca del 2010 ha mostrato che coloro che hanno dubbi a proposito del proprio regime alimentare lo difendono con maggiore sollecitudine rispetto a coloro che sono persuasi delle proprie scelte.
Nonostante il disagio, affrontare il paradosso può essere un esercizio utile se vogliamo fare scelte avvedute sul cibo. «Se fossimo più coscienti dei salti mortali mentali che facciamo per mangiare carne, se ammettessimo a noi stessi che ci mette a disagio, potremmo decidere in modo più ponderato se vogliamo o meno mangiare carne», dice Bastian. Lo psicologo è carnivoro, ed è uno dei tanti scienziati che si occupano di questi temi spinti dal timore che la crescente domanda di carne non sia ecologicamente sostenibile, creando allo stesso tempo preoccupazioni etiche e di salute. Dopotutto la carne che mangiamo genera un effetto serra maggiore di quello prodotto dalle automobili, e la domanda di carne è soddisfatta in gran parte dagli allevamenti industriali, che sono tra i peggiori produttori di gas inquinanti. Allo stesso tempo molti studi hanno mostrato una relazione tra il consumo di carne rossa e le malattie cardiache e secondo uno studio del 2015 pubblicato su «Lancet» le carni lavorate, come salsicce e pancetta, sono collegate a un rischio più elevato di cancro.
Nell’ambito della psicologia il paradosso della carne appartiene a una fiorente area di ricerca sulla nostra predisposizione ad assegnare alle creature che ci circondano proprietà intellettive. Per esempio nel 2012 John Cacioppo, psicologo dell’Università di Chicago, e i suoi colleghi hanno scoperto che le persone solitarie sono più portate ad antropomorfizzare i propri animali domestici rispetto a coloro che hanno una vita sociale più accentuata. Molti possono perfino attribuire proprietà umane a oggetti inanimati, per esempio un paio di scarpe amate o una vecchia automobile affidabile.
In ogni modo, il paradosso della carne aggiunge un’ulteriore dimensione a quest’area di ricerca: sebbene molte scoperte abbiano mostrato che attribuiamo facilmente un intelletto agli esseri o agli oggetti che ci circondano, le manipolazioni riguardanti la carne che mangiamo mostrano che possiamo anche togliere loro questa caratteristica, perfino quando sappiamo che la creatura coinvolta è in grado di apprendere e di provare sensazioni. In altre parole, conferiamo facoltà intellettive agli altri secondo le nostre convenienze personali. Se non altro, questo aspetto della natura umana può alimentare a lungo le nostre riflessioni.