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 2016  novembre 10 Giovedì calendario

L’ETÀ DELL’ANSIA– È l’età dell’ansia quella che stiamo vivendo? Per alcuni aspetti verrebbe da rispondere di sì

L’ETÀ DELL’ANSIA– È l’età dell’ansia quella che stiamo vivendo? Per alcuni aspetti verrebbe da rispondere di sì. Le minacce alla sicurezza su scala globale, ma anche le crescenti insicurezze soggettive dovute a una società che cambia rapidamente e offre meno punti di riferimento stabili: tutto questo contribuisce a produrre uno stato di generica e costante preoccupazione. Ma, al di là delle caratterizzazioni sociologiche, l’ansia è oggetto di studi che ne indagano le basi cerebrali e le manifestazioni consapevoli, con possibili ricadute sulle strategie terapeutiche. Uno dei più autorevoli ricercatori in questo ambito è il neuroscienziato statunitense Joseph LeDoux, noto anche ai non specialisti per alcuni suoi volumi tradotti in molte lingue. La sua ultima, ponderosa opera, Ansia. Come il cervello ci aiuta a capirla, è proprio una summa delle conoscenze sull’ansia, i suoi meccanismi e la sua cura, non facile ma nemmeno impossibile. Un punto su cui insiste nel suo libro, e da cui può essere utile partire per fare un po’ di chiarezza, è la distinzione tra ansia e paura... «Ansia e paura sono entrambe risposte emotive, legate a esperienze che facciamo quando incontriamo qualcosa di pericoloso. Se è una minaccia presente, immediata, come quando ci imbattiamo in un serpente durante un’escursione, si tratta della paura, un’emozione facilmente identificabile. Ma quando riprendiamo a camminare dopo avere evitato il serpente, potremmo trovarci in un stato ansioso, perché penseremo all’eventualità di incontrare un altro serpente nascosto sotto le rocce, sebbene la minaccia, in questo caso, non sia presente. Paura e ansia si manifestano spesso insieme, perché se si incontra un serpente si vede una minaccia e si prova paura, ma subito ci si chiederà se, essendo nel bosco, è possibile rintracciare un dottore e se egli avrà un antidoto, cioè si diventerà ansiosi per qualcosa che ancora non si è realizzato». Dopo questa definizione «comportamentale» si può passare ai processi che generano paura e ansia... «La prospettiva tradizionale è che i meccanismi capaci di produrre emozioni quali paura e ansia siano cablati nel nostro cervello per la sopravvivenza degli individui nel loro ambiente, ovvero siano risposte adattative prodotte, non intenzionalmente, dall’evoluzione. E questo perché i sistemi che danno vita a queste emozioni sono presenti anche nei roditori, nei primati e negli esseri umani. Ma questa prospettiva non si adatta a quello che oggi sappiamo del nostro sistema nervoso. Ciò è dovuto in gran parte al modo in cui la ricerca si è sviluppata. Per esempio si usa il termine “paura” per descrivere sia ciò che porta d’istinto il ratto a una tipica immobilità (definita “congelamento”, freezing) sia il sentimento consapevole che le persone sperimentano quando ritengono che potrebbero subire un danno fisico o un trauma psicologico. Come se esistesse un unico circuito che provoca le risposte comportamentali e la fenomenologia correlata». Lei stesso si assume in parte la responsabilità di questa concezione... «È vero: vi sono anche miei lavori all’origine di questa prospettiva. Con il mio recente libro sull’ansia cerco infatti di correggerla. Pensiamo all’amigdala, che nella visione tradizionale è identificata come l’area cerebrale della paura. Se studiamo individui sani in laboratorio e mostriamo loro stimoli subliminali (come l’immagine di un serpente proiettata per una frazione di secondo), gli stimoli vanno direttamente all’amigdala e, per effetto di una cascata di processi elettrochimici di segnalazione, il cuore batte più rapidamente e i muscoli si contraggono in atteggiamento difensivo, anche se la persona non si rende conto dell’immagine cui è stata esposta. Questa risposta è comune in tutto il regno animale, ma non si tratta della paura (o dell’ansia, come vedremo) cui vogliamo trovare un rimedio. La paura che consideriamo negli esseri umani è quella che sorge quando si è consapevoli della minaccia. Nella mia nuova prospettiva, la paura e l’ansia costituiscono un’interpretazione cognitiva di ciò che può succedere, delle conseguenze del fatto di essere in pericolo. A livello cerebrale ciò avviene nella neocorteccia, e non nell’amigdala, grazie anche al ruolo semantico del linguaggio. I circuiti che controllano le risposte di difesa e quelli che danno origine ai sentimenti correlati sono distinti, benché interagiscano nelle situazioni rilevanti. Se stimoli di cui non abbiamo consapevolezza innescano condotte di fuga o di lotta, allora significa che la paura e l’ansia, di cui siamo profondamente coscienti, non sono sovrapponibili a ciò che vediamo negli esperimenti condotti sugli animali e non coincidono con la sola attivazione dell’amigdala. Servono risposte cognitive superiori, che hanno una base comune nell’individuazione di una minaccia prossima o lontana». Sembra che l’ansia sia qualcosa con cui dobbiamo convivere. La differenza è data allora da un’ansia eccessiva che ci fa stare male inutilmente? «L’ansia è una normale parte della vita. Un prezzo che dobbiamo pagare al fatto di avere una coscienza cosiddetta autonoetica, ovvero di noi stessi e della nostra storia. Si tratta di una conseguenza del prendere decisioni. Quando compiamo delle scelte abbiamo davanti a noi un’alternativa, e basta questo a creare ansia. Più importanti sono le conseguenze della nostra decisione, maggiore sarà l’ansia che potrà sorgere (si ricordi che l’ansia riguarda un pericolo potenziale, un rischio). Scientificamente, l’ansia è il costo dell’avere un cervello che può immaginare il futuro, un cervello capace di ipotizzare che cosa può accadere e accaderci, che cosa ancora non esiste ma potrebbe venire alla luce. Potremmo dire, con una battuta, ma con rispetto di chi soffre, che senza un po’ di ansia il mondo sarebbe noioso, e così la nostra esistenza. Senza una quota di ansia per l’esame, lo studente non si impegnerebbe per prepararlo; senza preoccupazione per quello che si fa, non si potrebbe avere successo in nulla. Ma qualche volta l’ansia diventa incontrollabile, oppure più grande delle reali minacce che dobbiamo fronteggiare. A quel punto la preoccupazione per quello che dobbiamo fare diventa eccessiva. Lo studente per l’esame, il padre per tutto ciò che fa il figlio piccolo, il musicista per il concerto...». Il punto è ovviamente questo. Qual è il giusto livello di ansia? «Se sei ansioso per tuo figlio e gli impedisci di compiere qualsiasi esperienza, ti trasformi in un «genitore elicottero» e non gli permetti una crescita equilibrata; se sei così ansioso per il tuo lavoro da non riuscire a concentrarti su quello che dovresti fare non realizzerai quello che ti eri prefissato; ecco esempi di livelli di ansia disfunzionali, che peggiorano la nostra vita (e quella degli altri) e che peggiorano le nostre prestazioni invece di migliorarle. In questi casi parliamo di sensazioni soggettive, mentre il giudizio esterno sul nostro livello d’ansia è dato dal comportamento osservabile: se sul lavoro non rendi per la tua evidente tensione, allora sarai giudicato ansioso in modo eccessivo. A questi livelli, l’ansia può divenire l’esperienza prevalente». Perché qualcuno è più ansioso di altri? «Si ipotizza che siano tre i fattori di vulnerabilità che conducono a un’alterata elaborazione della minaccia. Chi ne soffre non riesce a distinguere tra le cose pericolose e le cose sicure, e sovrastima la rilevanza delle minacce percepite. Il primo fattore è dato dalle componenti genetiche e cerebrali innate. La predisposizione all’ansia disadattiva sembra collocarsi tra il 30 e il 40 per cento dei casi, un valore non molto alto rispetto ad altre patologie. In questo ambito rientra anche lo specifico funzionamento del cervello individuale, che riflette stimoli ambientali in relazione alle predisposizioni genetiche, in un complesso intreccio di relazioni. Il secondo fattore è dato dalle tendenze psicologiche generali del soggetto, tra cui spicca la valutazione delle situazioni come difficili o impossibili da controllare sotto il profilo cognitivo o comportamentale (senza dimenticare che si tratta comunque di processi di natura biologica modulati dal cervello). Infine vi sono le esperienze di apprendimento: se si vivono nell’infanzia situazioni “incontrollabili”, si potrà essere poi più facilmente vittime di quelle sensazioni». Sia dal punto di vista della comprensione scientifica sia sotto il profilo clinico lei insiste molto sul carattere consapevole dell’ansia in quanto emozione. Perché? «Ciò è legato a quanto dicevo in precedenza circa la differenza tra processi automatici e sentimenti consci, quali sono a mio avviso le emozioni come ansia o paura. Quei processi più semplici contribuiscono all’esperienza emotiva, ma hanno solo uno scopo connesso alla sopravvivenza degli individui. È diverso il modo in cui nascono le emozioni. Su questo vi è un dibattito importante e acceso, ma penso comunque che le cose vadano così. A un certo punto uno stimolo esterno, già conosciuto o meno, arriva ai circuiti che sovraintendono alle risposte automatiche e viene catalogato come minaccioso. Può essere il serpente che abbiamo già incontrato o l’idea che potremmo essere licenziati. Si ha allora l’attivazione fisiologica (aumento del respiro e del battito cardiaco, per esempio) e la preparazione ad agire. Questi mutamenti inconsci possono via via prendere il centro dell’attività del cervello, che ne diviene poi consapevole e, mettendo insieme tutti gli indizi, ripesca nella memoria quegli stati simili vissuti in passato che ha etichettato come paura o ansia, sulla base anche di ciò che suggeriscono le persone che ci sono vicine. Se ne abbiamo le capacità cognitive, nella coscienza si crea così un sentimento di cui abbiamo consapevolezza e di cui interpretiamo il contenuto in termini di conseguenze per il nostro benessere. Ecco perché è importante considerare anche lo studio scientifico della coscienza». Veniamo alla cura. Chi soffre del disturbo d’ansia generalizzato o di altri disturbi simili lotta contro una sofferenza che è anche un handicap nella vita sociale... «Certamente, accade questo. È noto che negli Stati Uniti il 20 per cento della popolazione soffre di disturbi di paura e ansia, compresi il disturbo da attacchi di panico e di fobia sociale. E il costo economico viene calcolato in 40 miliardi di dollari l’anno. Oggi i farmaci più diffusi ed efficaci sono le benzodiazepine (Valium, Librium, Xanax), che coinvolgono il neurotrasmettitore inibitorio GABA (acido gamma-amminobutirrico). Si tratta di molecole che agiscono rapidamente dopo la prima dose, anche se al prezzo di effetti collaterali indesiderati. Attenuano i sintomi e spesso le persone si sentono un po’ meglio, ma non sono una vera cura. E il motivo l’ho accennato in precedenza. I farmaci sono mirati a ridurre le risposte comportamentali, studiate principalmente nei modelli animali, quindi agiscono sui circuiti automatici che non coincidono con quelli alla base dell’emozione consapevole. Alcune molecole riducono i fenomeni di evitamento (per esempio le persone con ansia sociale sono più disponibili a partecipare a eventi pubblici), ma non intaccano lo stato ansioso soggettivo. L’essenza dell’ansia è il sentimento spiacevole – apprensione, angoscia, preoccupazione – che si prova quando si percepisce una mancanza di controllo nelle situazioni di incertezza e di rischio. Se non si va ad agire sulle basi di questo sentimento, il trattamento sarà sempre deficitario». Nel suo libro sembra rivalutare gli approcci psicoterapeutici, che definisce «un’opzione valida, di fatto la migliore». È così? «Non sono né un terapeuta né un medico, tuttavia so quello che succede nel cervello quando gli individui sono minacciati. Da questo punto di vista posso dire qualcosa anche sulla psicoterapia. In passato distinguevo tra terapia della parola e terapie basate sull’esposizione, perché la prima prevede il recupero consapevole di ricordi, e pertanto si basa sulla memoria di lavoro nella corteccia prefrontale laterale, mentre la seconda dipende dalle aree prefrontali mesiali che contribuiscono all’estinzione, aree in contatto diretto con l’amigdala. Questo ultimo elemento sembrava dare conto della maggiore efficacia delle terapie di esposizione-estinzione. Oggi ritengo che in entrambe le forme di psicoterapia contino lo scambio verbale e i processi cognitivi, connessi alle aree della memoria. Ciò che a livello cerebrale conosciamo meglio, però, resta l’estinzione». Possiamo spiegarla meglio? «Si dice che, se si viene disarcionati da cavallo, la cosa migliore da fare è rimontare subito in sella per non farsi vincere dalla paura. L’esposizione è l’essere messi di fronte allo stimolo che suscita paura o ansia (i ragni, l’ascensore, l’aereo), sperimentare le reazioni collegate allo stimolo e imparare attraverso l’estinzione che lo stimolo non è un’anticipazione di un esito catastrofico. Ci sono molti protocolli psicoterapeutici comportamentali che usano l’esposizione allo stimolo (figurato o reale) e in generale funzionano bene, dando un sollievo a circa il 70 per cento dei pazienti trattati. Il punto è che l’estinzione agisce sui meccanismi delle risposte automatiche (e del ricordo implicito) attraverso il processo di condizionamento che porta a superare le reazioni di evitamento: quando si è capito che sull’ascensore non accade nulla, scompare il riflesso ad allontanarsi e prendere le scale. Quindi, come detto in precedenza, il sentimento di ansia e paura può in parte persistere. Qui entrano in gioco le terapie cognitive (o cognitivo-comportamentali), che integrano l’esposizione con il tentativo di modificare anche le credenze esplicite disadattive». L’ansia generalizzata va oltre le singole fonti di preoccupazione... «Per le persone che non sono preoccupate per ragni e aerei, ma preoccupate e basta, si può pensare di usare i pensieri ansiosi come casi di esposizione. Le strategie per affrontare l’ansia, in questi casi, comprendono l’addestramento al rilassamento, la desensibilizzazione autocontrollata e la ristrutturazione cognitiva. Ci sono prove che il controllo della respirazione sia un ottimo strumento per alleviare l’ansia generalizzata, e ciò ha una spiegazione fisiologica. Anche l’evitamento proattivo può essere una strategia. Di solito, scappare dalle situazioni stressanti rafforza l’ansia, ma pensiamo a chi soffre situazioni di socializzazione come una festa. Si entra, si comincia a parlare e sorgono i primi sintomi dell’ansia. Allora si può uscire un momento facendo finta di telefonare, la tensione scende, si rientra e si scopre che non è così terribile. E la volta successiva può andare meglio. Dobbiamo ricordarci che il cervello è adattabile, può imparare a non essere in ansia. In definitiva, una cura efficace per l’ansia è quello che in tanti stiamo studiando. I progressi nella comprensione dei suoi meccanismi ci fanno sperare che unendo psicoterapia e nuovi farmaci si facciano presto importanti passi in avanti. Tanto che le prossime generazioni potranno forse non pensare alla propria epoca come a un’epoca segnata dall’ansia».