Marco Ferrari, Focus 11/2016, 10 novembre 2016
IL SEGRETO DEGLI IMMORTALI
Tardigradi: il nome non depone a favore della loro brillantezza. Eppure sono tra gli esseri viventi che prendono il meglio dalla vita sul pianeta. Riescono a sopravvivere in qualsiasi condizione, dal freddo gelido al caldo più estremo, da luoghi senza ossigeno a siti dove la pressione è altissima. Ma soprattutto, in certi casi, sono in grado di vivere anche se vengono investiti da radiazioni letali o si trovano in luoghi del tutto privi d’acqua. Facoltà impressionanti, che in futuro potrebbero essere utilizzate dall’uomo, per esempio per proteggere gli astronauti dalle radiazioni pericolose che si trovano nello spazio.
ANCHE AL POLO SUD. «I tardigradi sono un gruppo animale a sé stante, tecnicamente un phylum, che però ha parentele con altre specie ben più studiate, come insetti e crostacei, nell’enorme raggruppamento degli Ecdisozoi», dice Roberto Guidetti, professore nel laboratorio di Zoologia evolutiva dell’Università di Modena e Reggio Emilia. «Come tutti gli appartenenti a questo gruppo, hanno una cuticola esterna che muta, e zampette per camminare. Otto, nel loro caso». Guidetti è all’interno di un gruppo di lavoro che studia da anni le caratteristiche di questi piccoli esseri, la loro struttura ed evoluzione (tanto da dare il nome al sito del laboratorio http://www.tardigrada.modena.unimo.it). Ha anche scoperto alcune specie, una delle quali, Mopsechiniscus franciscae, tra muschi e licheni dell’Antartide. Proseguendo così la tradizione italiana, visto che fu lo scienziato pavese Lazzaro Spallanzani a chiamarli per la prima volta “tardigradi”, nel volumetto Opuscoli di Fisica animale e vegetabile, Volume 2.
A PICCOLI PASSI. Il loro nome, dal latino, significa “lenti camminatori”: usano infatti le zampette, dotate di unghie, per spostarsi cautamente nel loro ambiente naturale, la sottile pellicola di acqua che ricopre le foglioline del sottobosco (muschi e licheni). L’acqua è necessaria perché gli scambi di ossigeno tra il corpo di questo animaletto e l’ambiente esterno avvengono solo attraverso questo liquido. Altre specie vivono in acque marine, oppure in ambienti molto particolari, come le sorgenti calde, o ancorati su cirripedi o spugne. L’andatura, l’ambiente umido e l’aspetto pacioso sono valsi loro il nomignolo di “orsetti d’acqua” (water bears, in inglese). Una vita tranquilla, passata a digerire il cibo, cioè l’interno delle cellule animali o vegetali che pungono (e succhiano) con organi boccali detti stiletti, che funzionano come vere e proprie siringhe.
Inizialmente, l’interesse da parte del mondo della scienza per i tardigradi fu piuttosto tiepidino. Finché non si scoprì il loro particolare adattamento evolutivo per i tempi difficili.
Quando la pellicola di acqua in cui vivono si secca e la vegetazione di cui si nutrono perde vitalità, questi animaletti vanno incontro a una profonda trasformazione: perdono parte dell’acqua contenuta nelle cellule, ritirano le zampette e il capo e secernono particolari sostanze all’interno del loro corpo. Il metabolismo si abbassa moltissimo, e sono in grado di resistere al disseccamento sotto forma di “cisti”.
COME BOTTI. Quando il gioco si fa duro, gli orsetti usano la loro arma segreta: la resurrezione. Prima di arrivarci, però, devono letteralmente morire. L’acqua li abbandona, anche quella all’interno delle cellule, e diventano grumi di materia, che prendono il nome di “botticelle” (tun, in inglese). «La disidratazione rallenta ancora di più, l’attività pian piano diminuisce e vivono in una situazione di anidrobiosi, cioè “vita senz’acqua”», afferma Guidetti. La vita di questi animali così, apparentemente, scompare: entrano in uno stato ancora più estremo, definito criptobiosi, cioè vita nascosta.
«L’attività all’interno delle cellule non si riesce neppure a percepire», prosegue Guidetti, «tutte le prove dirette e indirette indicano che il metabolismo è completamente sospeso». Non è solo rallentato, come per gli animali in letargo, ma del tutto fermo. E quando la vita delle cellule non c’è, dicono i biologi, quando il metabolismo è sospeso, non ci può essere che la morte. Che però gli orsetti superano tranquillamente: quando sono di nuovo in presenza di qualche goccia d’acqua, letteralmente risorgono. Il comportamento dei tardigradi, dice Guidetti, «mette in discussione le definizioni di vita e morte».
La botticella super resistente, infatti, può perfino sopravvivere nello spazio oltre l’atmosfera (a mandarli lassù è stata l’Agenzia Spaziale Europea nel 2007), a temperature che vanno da -272 a 150 °C, investiti da radiazioni mille volte maggiori di quelle che può sopportare un uomo. Resistono anche in acque ipersaline o a pressioni 600 volte quelle a livello del mare. «Noi li teniamo in congelatore a -80 °C, e quando li reidratiamo tornano in vita», aggiunge Guidetti.
AUTOPROTEZIONE. Le domande che si fanno gli studiosi a questo punto sono parecchie: prima di tutto, che cosa accade nelle cellule di questi animaletti? La loro protezione principale è proprio la mancanza d’acqua: senza questo liquido, il freddo non può creare i cristalli di ghiaccio che uccidono le cellule degli altri animali, e il caldo non può farle bollire. Anche le radiazioni, per loro, sono meno dannose: il danno cellulare deriva infatti dall’azione di una forma molto reattiva di ossigeno, che si produce quando le radiazioni colpiscono l’acqua. In presenza di radiazioni, comunque, qualche danno al Dna nel nucleo c’è. «Si spezza in alcuni punti», spiega Guidetti, «ma questi organismi hanno una buona capacità di ripararlo». Soprattutto, le loro cellule contengono proteine che riducono i
danni al materiale genetico, proteggendolo dalle radiazioni durante la fase di disidratazione. Salvano cioè la cellula dal cosiddetto “stress ossidativo”, la presenza di ossigeno libero che spezzerebbe i legami delle molecole per sempre.
PROTEINA PROTETTIVA. Perché l’evoluzione ha prodotto questo meccanismo così complicato, e allo stesso tempo estremamente funzionale? Non capita tutti i giorni, anzi non capita mai, di ritrovarsi nello spazio oltre l’atmosfera. Oppure in fondo agli oceani più bui. «Potrebbe essere una specie di adattamento molto avanzato, che l’evoluzione ha perfezionato, persino troppo rispetto alle necessità», spiega Guidetti.
Dallo scoprire le straordinarie caratteristiche delle microscopiche bestiole al cercare di applicare queste conoscenze all’uomo, il passo potrebbe essere breve. Per provare a trasmettere queste capacità alle nostre cellule, un gruppo di ricercatori giapponesi, guidati da Takekazu Kunieda, ha inserito in cellule umane un frammento di Dna (tratto dalla specie Ramazzottius varieornatus) che codifica una particolare proteina, battezzata Damage Suppressor (Dsup), cioè “Soppressore di danno”.
Il risultato, pubblicato in settembre sulla rivista Nature Communications, è che le cellule umane hanno costruito uno scudo di proteine che ha protetto dai danni da radiazioni il materiale genetico. I danni, più precisamente, sono diminuiti del 40%. Non solo; le cellule che contengono i geni che producono la proteina hanno continuato a vivere e riprodursi.
NELLO SPAZIO. Dove applicare queste conoscenze? «Per esempio nella radioterapia ai tumori si potrebbero utilizzare queste proteine per proteggere le cellule sane, mentre le radiazioni uccidono quelle cancerogene», prospetta Guidetti. Si possono anche ridurre le malattie legate all’invecchiamento, oppure disidratare cellule staminali o tessuti e mantenerli vivi molto a lungo. Le proteine di protezione e di riparazione del Dna possono diventare strumenti utilissimi anche in un futuro lontano e quasi da fantascienza: per esempio nei lunghi viaggi spaziali, in cui il pericolo più grande sono proprio i danni che derivano dall’esposizione alle radiazioni ionizzanti. Dotando il corpo dei futuri astronauti di queste proteine di protezione e riparazione, le loro cellule potrebbero sopportare molto di più la doccia di raggi cosmici che li investirebbe durante il viaggio.
Secondo Bob Goldstein, un biologo dell’Università del North Carolina (Usa), inoltre, «i tardigradi resistono a molte condizioni estreme, e ciò significa che questi animali hanno anche altre “tecniche” per proteggersi». Quasi sicuramente, quindi, la scienza non ha ancora svelato tutti i segreti di questi minuscoli e immortali “orsetti d’acqua”.
Marco Ferrari