Malcom Pagani, Vanity Fair 9/11/2016, 9 novembre 2016
IL MIO C FACTOR– [Alessandro Cattelan] Prima di X Factor, il fattore di Alessandro Cattelan si chiamava solitudine: «Di tempo per stare per conto mio, da ragazzo, ne ho avuto tantissimo
IL MIO C FACTOR– [Alessandro Cattelan] Prima di X Factor, il fattore di Alessandro Cattelan si chiamava solitudine: «Di tempo per stare per conto mio, da ragazzo, ne ho avuto tantissimo. Passavo tutte le domeniche invernali chiuso in camera, con Tutto il calcio minuto per minuto in sottofondo, giocando a pallone da solo e parlando con gente che non c’era. Se sul campo i miei eroi perdevano, ce la mettevo tutta. Ero convinto che più ci davo dentro e più l’Inter ne avrebbe tratto vantaggio. Non avevo un amico immaginario, ne avevo dieci». Ora che i numeri si sono moltiplicati, i sodali sono diventati milioni e Sky già festeggia la sua conduzione di X Factor (prodotto da Freemantle, i live sono cominciati da poco su Sky Uno), il ragazzo di Tortona, nato in quel maggio 1980 in cui Spillo Altobelli festeggiò il dodicesimo scudetto nerazzurro, si augura di pungere ancora: «Prima di condurlo, X Factor non l’avevo mai visto. Mi feci consegnare i dvd e mi misi a studiarlo per capire cosa era stato fatto in precedenza e cosa potevo fare di diverso». E che cosa capì? «Che è un bel programma e uno show che sa intrattenere. Una gara in cui si viene valutati da una giuria e che non va presa come una sentenza definitiva sulla carriera di nessuno. Né in positivo, né in negativo: ciò che artisticamente determina vita o morte del concorrente accade sempre dopo». Perché? «Perché a X Factor, dove la gara è vera e aspra, la cornice è tutto sommato protetta. I concorrenti tentano di emergere e farsi apprezzare cantando capolavori scritti da altri artisti. Fuori è più difficile e lo so perché fuori, dall’altra parte, sono stato anch’io». Quindici anni fa avrebbe potuto concorrere anche lei? «Anche se l’ambito è diverso, osservare i concorrenti è come guardare l’altro lato di una mia fotografia di allora. Parlo loro a petto in fuori, con solennità e postura che magari non mi appartengono, ma verso alcuni provo un’empatia totale». Non con tutti? «Con quelli che condividono il mio spirito. Che non è mettersi in posa per potere dire “sono stato in Tv”, ma dimostrare di meritare di starci. Non sono mai andato in video con l’ambizione di occupare uno spazio, ma con la voglia di dar vita alla Tv che sognavo di fare». È stato facile? «Non è facile neanche oggi. Facendo un programma ti confronti con tante persone e tanti modi di pensare. La Tv costa soldi e quei soldi non sono mai tuoi». Per stare in Tv dicono serva tanto ego. «Non lo nego. E poi c’è Cattelan, per esempio, è pura rappresentazione di me stesso. Qualcosa di persino molto più egocentrico di chi vuole andare in Tv solo per far vedere la propria faccia, ma almeno, credo, un egocentrismo più apprezzabile. EPCC non ha altro obiettivo che non sia quello di avvicinarsi alla mia visione della leggerezza». Ci diceva dell’asprezza della competizione a X Factor. «Agli spettatori, le parabole che vanno a finire male piacciono. Quanto più chi ha avuto fortuna cade e nel cadere si schianta fragorosamente, tanto più la gente è contenta. È una legge dello spettacolo. Chi ti ha amato e ti ha portato in cima è lo stesso che non vede l’ora di tirarti giù. In fondo è ovvio: noi non esistiamo e al di là dello schermo non siamo persone tangibili. Siamo personaggi. È una consapevolezza che mi accompagna da sempre». Lei è nato a Tortona, dove riposa Fausto Coppi. «Volevo andare in fuga anch’io, e da adolescente consideravo Milano non diversa da New York. Ci andavo con Andrea – che ancora oggi è il mio migliore amico – e lo trovavo uno spaventoso mondo di frontiera, con la grande stazione e i ceffi alla Pablo Escobar a ogni angolo. I balordi c’erano anche a Tortona, ma sembravano di una balordaggine più gestibile». Un padre carabiniere, come quello di Paolo Virzì. «Papà aveva scelto di arruolarsi un po’ per caso, senza sapere bene cosa fare nella vita e poi una certa attitudine militaresca gli era entrata dentro. Usciva e tornava a casa in divisa, smontava la pistola mettendola in cima all’armadio e a ondate regolari faceva la notte. Le telefonate per i turni – un copione sceneggiato, ma ai miei occhi incomprensibile – me le ricordo ancora: “Ciao, sono Cattelan, mi passi di là?”. Attesa. Assenso: “Va bene”. Poi silenzio, interrotto dal rumore della cornetta abbassata». Che clima c’era in famiglia? «Quando papà si arrabbiava c’era poco da ridere. Ma non c’era bisogno di urla né di sberle, bastava lo sguardo. Lo osservavo e leggevo il fumetto che aveva nella testa. Da lui di schiaffi ne avrò presi in tutto tre. Mia madre invece me le dava quasi ogni giorno, o meglio provava a darmele quasi per dovere, in una dinamica da Wile E. Coyote e Beep Beep, più che da Telefono Azzurro. Il primo viaggio all’estero della mia vita, a Londra, l’ho fatto con lei. Una cosa un po’ da sfigato, ma un po’ sfigato e un po’ tamarretto di provincia, ero». Sua madre era parrucchiera. «Aveva in casa i caschi e tutto il resto dell’armamentario. Una volta mi son fatto fare la permanente, con tutti i ricciolini al posto giusto. Mamma tagliava i capelli a mia nonna, alle sue amiche e a tutti i condomini, proprio come il ciabattino al piano di sopra metteva a posto le scarpe alle famiglie e l’insegnante di francese dava ripetizioni a chi le chiedeva. Si viveva di scambi e di baratti. Era una società ideale, all’epoca la sottovalutavo». Ha definito la sua famiglia «proletaria». «Non siamo mai andati a mangiare al ristorante e fino a quando non ho vissuto per conto mio mi è capitato di metterci piede solo per battesimi e comunioni. In vacanza andavamo in macchina nell’ex Jugoslavia in cui per mille lire prendevi un fritto misto lungo un metro, con le partenze immancabilmente intelligenti nel cuore della notte. In verità non mi è mancato niente e non mi sono mai sentito Oliver Twist. In classe c’era soltanto un ragazzo nettamente più ricco di tutti, gli altri avevano le felpe rattoppate, proprio come me». Ricordi di scuola? «Alla fine mi era passata un po’ la voglia e per la maturità non aprii libro, ma forse il disimpegno era una maniera di rifiutare la pressione dell’esame. Non mi è mai piaciuto avere addosso il giudizio di una singola persona, paradossalmente mi pesa di meno quello della massa». È un modo per dire che era un pessimo studente? «Non ero un cane, non sono mai stato rimandato e ho chiuso con la media del 7. Affrontavo le interrogazioni con beata incoscienza e non marinavo. L’unica volta che l’ho fatto dicendo ad Andrea: “Possibile che finisca il liceo e non abbiamo fatto sega un solo giorno?”, siamo rimasti su una panchina, fermi come scemi, per cinque ore. I genitori ci beccarono subito. Ci fu un’imboscata e ci trovammo sotto processo. Le madri erano preoccupate che avessimo saltato la scuola per drogarci. Le rassicurammo. Volevano mantenere l’incazzatura, ma non ce la fecero e iniziarono a ridere». Mai fumata neanche una canna? «Molte birre, ma nessuna droga. La prima, anzi il primo e unico tiro di canna della mia vita l’ho fatto l’anno scorso. Me l’hanno passata, ho aspirato, non mi ha fatto nulla, ho subito perso interesse per la questione e il resto l’ha fatto la mia mania per il controllo. Preferisco sapere cosa sto facendo ed essere sempre in grado di reagire, gestire le situazioni, sapere cosa e come rispondere». Anche in Tv? «Se entro nell’arena di X Factor ho adrenalina, mai ansia. Non sento il peso dell’emozione e dialogo con l’interlocutore perché lo ascolto senza pensare alla telepromozione o a ciò che devo dire dopo». Che cosa c’è di più incontrollabile della Tv? «Io non ho controllato niente. Mi fecero un book ai tempi della scuola e dopo un anno – convocato – partecipai a uno spot per il Festivalbar. Passarono altri 12 mesi e squillò il telefono. A Eddy, un autore di Viva (canale televisivo, ndr) che aveva lavorato a quella pubblicità, in vista del lancio dell’emittente, avevano chiesto di cercare volti utili al progetto. Si ricordò di me e compose il numero. Risposi e andai a fare un provino. Ero l’unico a parlare inglese. Meno di 20 giorni ed ero già in diretta». È stata fortuna? «Se non avessi risposto non si sarebbero strappati i capelli e sicuramente non sarebbe arrivato tutto il resto. Il culo ci vuole e ce ne vuole tanto. Ma la fortuna non è meno importante di saper volare al di sopra della difficoltà. Andrea, l’amico di cui le parlavo, serviva panini ai bar. Ha incontrato un operatore finanziario, gli ha fatto una battuta arguta sulla suddivisione del resto e si è visto offrire un lavoro che oggi fa bene». C’è una morale? «Bisogna buttarsi e avere coraggio. Per la mia prima diretta, ospiti i Gazosa, avrei dovuto intervistare Manu Chao. Mi preparai per giorni e poi Manu Chao mi diede buca. Partimmo con il botto, no?». Come è arrivato fin qui? «Senza mai avere, almeno fino alla chiusura con Mtv, la piena cognizione che il mio fosse un lavoro. All’epoca non c’era YouTube, ma se fossi nato nel ’95 e non nell’80, forse sarei diventato uno youtuber anch’io. Nei video casalinghi tra amici, con le interviste post-partita dopo aver giocato a calcio sul computer, quel germe c’era». Lei a calcio non ha giocato solo per finta. «A 16 anni mi presentai nella sede del Derthona, una squadra vera, dicendo che ero stanco di dare pallonate ai giardinetti e che volevo iscrivermi. Il presidente mi guardò commiserandomi: “Qui non ci si iscrive, qui scegliamo noi chi chiamare”. Gli feci tenerezza e mi permise di fare una prova. Rimasi come difensore. In difesa le davo e le prendevo. In area succedevano cose tremende». Come provocava l’attaccante? «Con l’ironia: “Guarda in che stadio meraviglioso ti ho portato, non ti preoccupare della palla, goditi il panorama”. Quello impazziva e magari erano mazzate. Al fischio finale poi ci si abbracciava». Un mondo quasi in bianco e nero. «A volte penso alla percezione che mia figlia ha di se stessa e capisco che rispetto alla mia è centuplicata. Non credo di aver mai saputo che faccia avessi fino a quando mi sono venuti i brufoli al liceo. Mi guardavo i piedi e le gambe e andavo avanti con quelle». Sciocchezze giovanili? «Qualche cazzata l’ho fatta. Una sera rubai un segnale stradale. Ho vissuto per anni con un senso unico sulla parete. Quando è arrivata mia moglie, ha preteso di frullarlo: “In cambio ti regalo un armadio, ne hai bisogno”». Avete due figlie. «Con la più piccola (Olivia, 8 mesi, ndr) facciamo giochi un po’ scemi che mi danno gioia, con la più grande (Nina, 4 anni, ndr) siamo già alla filosofia. L’altro giorno mi ha detto: “Papà, mi annoio”. “Brava, abituati ad annoiarti, inventati dei giochi e sfrutta il tempo libero”. Tendiamo a darle autonomia, a non metterci in mezzo se discute con i coetanei, a lasciarle anche lo spazio della solitudine». Oggi la cercano tutti. Nel suo lavoro si è mai sentito solo? «Se i risultati si misurano con le offerte, dopo anni in cui non mi si è filato nessuno, dovrei essere contento. Prima di arrivare a fare le cose che mi piacciono, ho partecipato a programmi di cui a Tortona un po’ mi vergognavo e a trasmissioni con lo zero per cento di share, roba che non vedevano neanche i parenti. Oggi non mi fa felice il complimento, ma solo incontrare qualcuno che capisce e sa leggere il lavoro che provo a fare». Accade spesso? «Raramente, ma forse è anche giusto che la Tv venga presa nella maniera più superficiale del mondo. Faccio questo mestiere da vent’anni e ancora mi chiamano giovane rivelazione». Potrebbe farne a meno, così, da un giorno all’altro? «Se mi dessero gli stessi soldi per stare a casa, pur mancandomi E poi c’è Cattelan, saprei vivere benissimo. Il gioco si è fatto più duro e il prezioso vantaggio di conoscere i programmi della Tv americana che al principio fu importante presto o tardi si estinguerà. Anche se si annuncia la dipartita della Tv, sono certo che il mezzo saprà sopravvivermi (ride)». E Cattelan che cosa farà? «Non ho mai lavorato per calcolo, ma per passione, gusto e divertimento. Un’altra passione su cui concentrarmi, fosse imparare finalmente a suonare il piano o rivedere in loop le partite dell’Inter dell’89, la troverei».