Deborah Ameri, D, la Repubblica 5/11/2016, 5 novembre 2016
UN GIORNO A NEW YORK CON TINA CHARLES: 2 ORI OLIMPICI, CANESTRI DA RECORD E UNA PARTITA TUTTA DA VINCERE PER I DIRITTI DEI NERI
Accenna un balletto con un gioco di fianchi, batte il cinque con le compagne e si piazza in mezzo al campo tra i boati del pubblico. Un metro e 91 pieni di grazia e muscoli e il Madison Square Garden esplode per lei. Tina Charles è due volte campionessa olimpica ed è «il miglior giocatore di basket al mondo», ripete l’allenatore delle New York Liberty, Bill Laimbeer. «Maschio o femmina non fa differenza», dice, «il migliore è lei».
In realtà la differenza la fa, eccome. Se fosse un uomo potrebbe guadagnare decine di milioni di dollari, come un LeBron James. Ma siccome gioca nella Wnba – la Lega femminile di basket Usa, che ha appena compiuto 20 anni – il suo salario stagionale si aggira intorno ai 100mila euro. L’abissale divario, però, le scivola addosso: tanto buona parte dello stipendio lo dona in beneficenza. La sera in cui incontriamo Tina a New York è impegnata in una gara di campionato con la sua squadra, le Liberty appunto. Giocano contro le Washington Mystics, lei sarà la star sul parquet. Prima del match Tina si allena a parte, la concentrazione è tutto. Durante la partita è la “mano” più generosa: passa, difende, contrattacca. Indossa una maschera trasparente, per proteggere il naso già ferito. Sulle unghie curatissime ha uno smalto ceruleo e i capelli sono raccolti in una sofisticata maxi treccia. Sul campo si distingue dalle altre per il talento. Ma c’è molto di più.
Il fatto è che da quest’estate non è più solo una giocatrice di basket. È diventata un modello, un’attivista per i diritti dei neri, «contro le armi da fuoco e le ingiustizie». È lei uno dei volti di un dibattito, quello sulle tensioni razziali tra le forze dell’ordine Usa e le comunità afro-americane, che ha dilaniato gli States prima di queste elezioni presidenziali. Finora Tina – 28 anni il prossimo 5 dicembre – era stata un’atleta che non amava i riflettori, una sorta di attivista riluttante che evitava il più possibile di occupare il centro della scena. Poi a luglio l’uccisione di Philando Castile in Minnesota e di Alton Sterling in Louisiana, da parte di agenti di polizia bianchi, ha cambiato tutto. «Ho capito di poter usare la mia posizione per attirare l’attenzione sulle discriminazioni verso gli afro-americani e su tutte le persone che vengono emarginate. È strano trovarmi in questa posizione», ammette chiudendo per un attimo gli occhi, mentre racconta. «Ma mia madre mi ha cresciuta insegnandomi a usare quando posso la mia voce. E in tempi come questi bisogna farlo. Mi sento responsabile per ogni mia azione e so che difendere quello in cui credo è la cosa giusta da fare. E noi ragazze della Wnba, anche attraverso il messaggio dello sport, ce la stiamo mettendo tutta per accendere i riflettori su temi come questo».
È stata proprio lei qualche tempo fa, insieme a un paio di compagne, a indossare per la prima volta magliette non regolamentari con la scritta #BlackLivesMatter, a sostegno del movimento per i diritti dei neri. Poi tutte le altre l’hanno seguita, tanto che la Lega a un certo punto le ha addirittura multate. Ma la solidarietà mediatica verso Tina & Co. ha convinto la presidente Wnba, Lisa Borders, a cancellare le sanzioni dopo appena un paio di giorni. «Quando ero giovane vedevo il basket solo come uno sport, adesso so che possiamo usare questo palcoscenico per dare voce a chi non ce l’ha. Siamo modelli, la gente ci vede così. Possiamo decidere quale causa abbracciare, essere coerenti con i nostri valori fuori dal terreno di gioco. Sono felice che tutte noi siamo state capaci di unirci e far sentire la nostra voce. Spesso capita che le donne vengano ridotte al silenzio, non questa volta». Inevitabile, il discorso arriva alle elezioni di martedì prossimo. «Io rimpiango già Barack Obama. Ha fatto molto, ha riconosciuto che c’è un problema razziale e ha messo in moto un cambiamento. Adesso dobbiamo assicurarci che l’8 novembre alla Casa Bianca vada la persona giusta. Donald Trump?», alza gli occhi al cielo. «Vi dico solo che sto con lei al 100%». Dice proprio così, schierandosi senza neppure nominare Hillary Clinton. Tina è seduta davanti a noi nello spogliatoio, dopo la partita. In questa stanza circolare, zeppa di indumenti, sacche sportive e campionesse, il viavai è costante. Tina ha una sua calma apparente, anche se dice di essere a disagio quando deve rispondere a domande che non riguardino punti e playoff. Per arrivare fin qui, nel tempio del basket, ci sono voluti fatica e costanza, sudore e sofferenza. Aveva 5 anni quando ha iniziato a inanellare un canestro dietro l’altro per le strade del Queens: «Giocavo sempre con i maschi e non ero certo la più brava», ricorda.
Sua madre Angela Murray, giamaicana, a 4 anni le aveva regalato una palla e un canestro di plastica. «La osservavo e mi stupivo. Faceva sempre centro, dieci tiri su dieci», ha raccontato fiero il padre Rawlston Charles, originario di Tobago, proprietario di uno storico negozio di dischi a Brooklyn, tappezzato delle foto della figlia e del figlio, Rawlston Jr., anche lui un passato da cestista. Al liceo Tina fu la miglior giocatrice della sua squadra, ma la competizione si fece intensa all’università del Connecticut dove entrò nella formazione allenata da Geno Auriemma, guarda caso oggi coach della Nazionale. «I primi due anni sono stati duri», ricorda. «Ero quella che partiva dalla panchina, che rimaneva di più in palestra per allenarsi. Molti pensano che abbia un talento naturale, invece ho dovuto faticare molto per arrivare dove sono. E quando qualcuno mi diceva che non ci sarei riuscita, be’ sapevo che invece prima o poi ce l’avrei fatta. Con pazienza e determinazione il tuo momento arriva». Per lei è stato il 2012, quando convocata per i Giochi di Londra ha vinto il suo primo oro olimpico (bissato poi il successo a Rio) e il titolo di miglior giocatrice della Lega (quest’anno ha vinto invece il titolo di migliore realizzatrice). Comunque dopo tre anni nelle Connecticut Sun, torna nella sua New York con le Liberty: «Un sogno che si avvera». E, per arrotondare, quando finisce la stagione regolare punta all’estero (ha giocato in Turchia, Polonia, Cina).
Solo tre anni fa, però, ha scoperto la sua missione. Dopo la morte dell’amatissima zia Hopey Vaz, apre la fondazione Hopey’s Heart, per donare a scuole e organizzazioni sportive defibrillatori automatici, apparecchi salvavita in caso di un arresto cardiaco. Praticamente tutto il suo salario, anche quest’anno, andrà alla sua organizzazione benefica. A sentire le motivazioni sorge il dubbio che Tina abbia sbagliato carriera: «Sto cerando il mio scopo nella vita. La cosa più importante è mettermi al servizio degli altri e attraverso la mia fondazione ci sto provando. Vorrei comprare e distribuire più defibrillatori possibile», dice. «I miei genitori e una mia personale fede in Dio mi hanno insegnato a mettere gli altri prima di me stessa. In qualsiasi modo possa essere usata, nella posizione che ricopro, per fare del bene. Vedi, questo è solo un gioco. Presto tutto sarà finito e io non voglio essere ricordata per le statistiche o il numero di canestri da record che ho realizzato, ma perché ho contribuito in qualche modo a migliorare la vita degli altri. Voglio poter fare la differenza».
Finalmente si rilassa, come se avesse chiarito (anche a se stessa) cosa vuol dire essere Tina Charles. E abbandona i suoi quasi due metri sullo schienale di una poltrona, mentre lo spogliatoio si svuota. Lei che non è mai stata una faccia da marketing, che invece di girare spot pubblicitari (che continuamente le chiedono) dopo gli allenamenti va a lavorare negli uffici della sua charity, che neanche la Lega basket aveva ancor mai usato come volto per le sue campagne, si ritrova sul New York Times come icona di una nuova generazione di atlete. «È grandioso essere notata per quello che sei. Persone che non sapevano nulla della Wnba adesso mi dicono che sono diventati nostri fan». Forse non poserà mai nuda come la compagna di squadra Swin Cash («Ma solo perché non me l’hanno chiesto», sorride imbarazzata. «Prima però dovrei sistemare una cosa o due del mio fisico), né sfilerà in passerella come altre colleghe. «La mia vita è semplice e appagante. Mi sveglio al mattino, vado agli allenamenti e poi alla mia fondazione. Nel tempo libero vedo gli amici, visito musei, vado al cinema a Bryant Park, al ristorante. Sono appassionata di cibo e a New York ci sono posti eccezionali. Mi piace esplorare la città, ogni volta me ne innamoro sempre di più. Adoro le culture e le diversità che si trovano qui». Dal futuro sembra non volere sorprese: «Mi auguro di avere una famiglia e rimanere nel mondo del basket, anche una volta che mi sarò ritirata». Il Madison Square Garden si sta svuotando, Tina prende la sua sacca per tornare a casa. Niente auto, niente taxi: come sempre in metropolitana, da vera newyorkese. Se vi capita di passare dalle parti della Penn Station, guardatevi intorno: la Regina del Basket potrebbe essere a bordo con voi.