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 2016  novembre 05 Sabato calendario

IL BULLO DISTRUTTORE


[DeMarcus Cousins]

«Benvenuto nell’inferno del basket». È il febbraio 2015 e George Karl, coach veterano con oltre 1.000 partite Nba che nella vita ha sconfitto anche il cancro, si sente accogliere con queste parole da Rudy Gay, il secondo miglior giocatore della sua nuova squadra, i Sacramento Kings. Il migliore è anche il motivo per cui il team della capitale della California è l’inferno, la ragione per la quale, meno di 15 mesi dopo, Karl verrà licenziato senza troppi rimpianti («Serve una voce nuova in squadra», dirà il general manager Vlade Divac). Il motivo per cui Sacramento è un inferno si chiama DeMarcus Cousins. Potenzialmente è il miglior centro in Nba: 211 centimetri per 122 chilogrammi, letale sia vicino al ferro che dalla media distanza, capace di portare a spasso per il campo la sua imponente figura come fosse una guardia, fisico possente e talento in prospettiva. «Sono nettamente il miglior lungo della Nba», proclamava qualche tempo fa in un’intervista. «Il ’ secondo, penso sia Anthony Davis (uno che ha iniziato la stagione con una partita da 50 punti, ndr), non mi arriva nemmeno vicino. A livello di talento so di essere il più forte di tutti, ma per essere riconosciuto tale devo vincere, devo trascinare una squadra al successo».
Nel 2015-16 ha chiuso con 26,9 punti e 11,5 rimbalzi, guadagnandosi la chiamata al secondo All Star Game della carriera e l’inserimento nel secondo quintetto All-Nba. Solo che i suoi Kings hanno vinto 33 partite e sono finiti lontano, molto lontano dall’obiettivo che si erano prefissati: tornare a giocare i playoff che Sacramento vede in tv dal 2006.
Una delle principali ragioni è che, a 26 anni, Cousins non ha ancora messo la testa a posto e la sua immaturità tiene in ostaggio l’intera franchigia. È troppo forte per sbarazzarsene senza ottenere nulla di importante in cambio, cosa che una squadra che non fa i playoff da dieci anni e che ha appena aperto un’avveniristica arena in centro città, dopo aver vinto solo pochi anni fa la battaglia per non trasferirsi a Seattle, non può permettersi. Ma è troppo capriccioso e ingestibile, tanto da diventare addirittura dannoso per la sua stessa squadra. La lista di persone che rispetta nel mondo del basket è cortissima e di solito non include i coach: escludendo Dave Joerger, il coach dei Kings 2016-17 con cui lavora solo da qualche mese («Io piaccio a lui e lui piace a me», si è limitato a dire alla vigilia della prima partita stagionale), gli ultimi cinque allenatori che ha avuto non sono riusciti a tagliare il traguardo delle due stagioni piene con lui. Paul Westphal, Keith Smart, Michael Malone, Tyrone Corbin e George Karl hanno tutti fallito, per un motivo o per l’altro, la loro chance di tirargli fuori tutto il suo talento, di convincerlo a giocare in difesa (dove pure, potenzialmente, potrebbe essere una forza della natura), a prendere per mano una squadra che ha disperatamente bisogno di una guida per uscire dall’anonimato Nba.
L’ultima stagione, e in particolare il tormentato rapporto con Karl, è emblematica dei limiti mentali di Cousins, cresciuto in Alabama con in testa il football prima di essere costretto dalla madre ad abbracciare il basket («Aveva paura che mi facessi male col football, quindi mi ha imposto il basket. All’inizio lo odiavo, ma più ci giocavo più mi piaceva. Ora mangio, respiro e cago basket», raccontava senza limitare il suo linguaggio colorito), sport che l’ha portato prima al college a Kentucky e poi tra i professionisti. Dopo aver cercato di bloccare la scelta dei Kings di puntare su Karl, Cousins ha dichiarato guerra al coach, offeso per non essere stato proclamato incedibile in estate. Per farlo, il centro ha deciso di minare l’autorità del tecnico, 65enne e ancora debilitato dall’ultima battaglia col tumore, trovando nel proprietario Vivek Ranadivé una colpevole spalla. Poco impegno durante gli allenamenti, l’imposizione del fido Ben McLemore come guardia titolare nonostante i limiti evidenti, soprattutto in difesa, scontri continui dentro e fuori dal campo. «Tra Cousins e Karl c’era troppa tensione», ha raccontato dopo la stagione Rajon Rondo, play dei Kings nel 2015-16 ora a Chicago. «Non ho mai visto nulla del genere in 10 anni di carriera. C’erano troppe distrazioni, dentro e fuori dal campo, e non penso che l’organizzazione fosse unita come dovrebbe. Perché una squadra abbia successo devi volere il meglio per la persona che sta accanto a te, e questo nei Sacramento Kings non succedeva».
Una situazione talmente difficile che mezza squadra si è presentata compatta dal g.m. Vlade Divac chiedendo la cessione di Cousins. Persino il Sacramento Bee, il quotidiano più importante della capitale californiana, ha ripetutamente consigliato ai Kings di separarsi dal loro uomo simbolo. Sacramento non l’ha fatto, ha confermato Cousins e anche i “ribelli” che ne avevano chiesto la cessione, creando anche quest’anno una situazione potenzialmente esplosiva. La cessione per ora l’ha chiesta Rudy Gay: la prossima estate eserciterà l’opzione per uscire dal suo contratto e a Sacramento non ha alcuna intenzione di tornare. Perché, nonostante i proclami, questa è ancora la squadra di Cousins, di quel centro troppo immaturo per essere veramente fenomeno.