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 2016  novembre 09 Mercoledì calendario

MAMMA NUMERO 1. JUDY MURRAY: «MISSIONE COMPIUTA, ORA ANDY PUO’ VOLARE DA SOLO» – Missione compiuta

MAMMA NUMERO 1. JUDY MURRAY: «MISSIONE COMPIUTA, ORA ANDY PUO’ VOLARE DA SOLO» – Missione compiuta. Lo dice lei stessa, affidando a Twitter l’emozione di essere la mamma del numero 1 al mondo del tennis. «Missione compiuta» scrive mamma Judy, postando una foto che la ritrae bere champagne con Andy sul jet privato dopo il successo di Bercy. Judy Murray è la donna che ha consacrato la propria vita al tennis, che ha consegnato i propri figli all’eterna rincorsa di quella pallina gialla, prefigurando per loro un grande avvenire. Quella sfera di cristallo in cui ha letto un futuro di successi non mentiva e adesso mamma Judy può rilassarsi. Sempre che il verbo faccia parte del suo vocabolario. Judy Murray, che effetto fa essere arrivati al traguardo? «Una grande gioia, e una grande soddisfazione. Questo è il premio per tutto l’impegno, la fatica, la pazienza e il lavoro fatto da Andy fin da quando era bambino». Andy è stato il secondo, a dire il vero. Perché Jamie è stato il primo della famiglia a diventare leader della classifica, ma in doppio. «Sì, è vero. Loro sono cresciuti insieme, sono sempre stati molto competitivi. Si sfidavano a qualunque cosa, dalle carte, al tennis, al golf al calcio, pure al wrestling». E chi vinceva? «Un po’ uno e un po’ l’altro. Visto il maltempo scozzese, il loro campo da tennis era abitualmente il salotto. Prima usavano racchettine e palloncini, il divano in mezzo a fare da rete. Poi sono diventate racchette più grandi con palle di spugna e, alla fine, malauguratamente per il mio salotto, racchette vere con palline vere. Per il wrestling, invece, si spostavano in camera da letto. Il materasso era il ring e il divertimento era scaraventarsi a turno sul pavimento». Nessun infortunio? «No, a meno di non considerare come tali i danni alla stanza da letto. Sono stati sempre molto attivi, hanno potuto provare ogni genere di sport. L’unico che non hanno praticato è stato lo sci». Andy aveva molto talento anche a calcio, quand’è che ha scelto di diventare un tennista? «Aveva circa 14 anni, era stato chiamato dai Glasgow Rangers per sei settimane di stage, ma contemporaneamente la squadra britannica under 14 di tennis lo aveva convocato per una serie di tornei in Italia. Dovette scegliere per forza, e fu tennis». E’ stato difficile far convivere il ruolo di mamma e quello di coach? «Quando erano bambini, non particolarmente. Poi quando hanno iniziato a crescere, per loro iniziava ad essere imbarazzante essere allenati dalla mamma e per me era piuttosto stressante. Quindi ho chiamato qualcuno che potesse darmi una mano. Un ragazzo di 21 anni, molto simpatico e amatissimo dai miei giovani tennisti. Alla fine questo ragazzo ha fatto strada e ora, Leon Smith, è capitano di Davis». Sono stati anni di sacrificio per lei? «Fino a quando Andy e Jamie facevano le stesse cose, tutto era abbastanza semplice, poi quando Andy è andato in accademia a Barcellona è stata dura trovare i soldi necessari. Una volta terminati gli studi, anche Jamie ha scelto di fare il tennista professionista e per il suo tipo di gioco era necessario allenarsi sul veloce. Alla fine ha scelto di trasferirsi Parigi, e anche in questo caso ho lavorare moltissimo per potermelo permettere. Se hai due figli devi dare a entrambi le stesse opportunità». Riportare la Coppa Davis in Gran Bretagna è stata una vittoria della famiglia Murray. «Con i miei due ragazzi in campo, e Smith come capitano possiamo dire di sì. Da scozzese è stato bellissimo vederli giocare a Glasgow, portare un grande spettacolo in un paese dove il tennis praticamente era inesistente» Che rapporto c’è tra Andy e Jamie? «Ottimo. Soprattutto ora, per Andy, Jamie è una figura molto importante. Quando sei un giocatore di livello mondiale, tutti tendono a farti grandi sorrisi e dirti cose carine. E’ importante avere qualcuno che può dirti, senza farsi problemi, che stai sbagliando». Lei ha avuto un ruolo fondamentale anche nella scelta dei coach di Andy. Come mai avete deciso di chiamare Lendl? «Perché mio figlio aveva bisogno di fare un passo avanti. Aveva bisogno di qualcuno che lo aiutasse a gestire una finale Slam. Non solo a vincere, ma anche a perdere e imparare dalla sconfitta. All’inizio ero intimorita da Lendl, avendolo visto solo in campo, credevo non avesse mai sorriso in tutta la sua vita. E invece mi sono dovuta ricredere perché è molto simpatico e ha un senso dell’umorismo molto simile a quello di Andy». Come mai poi siete passati alla Mauresmo? «Ivan non aveva più voglia di stare troppo in giro e abbiamo dovuto cambiare. Dopo aver lavorato tanto con Lendl sulla potenza e l’aggressività, abbiamo pensato che a Andy servisse un gioco più vario. Gli slice e i drop shot di Amelie sono nella storia del tennis, e tra lei e mio figlio si è instaurato un ottimo rapporto». La scelta di un coach donna aveva fatto discutere, hanno detto che dopo la mamma Murray aveva bisogno di essere «comandato» da un’altra donna. «Sciocchezze. Andy ha un ottimo rapporto con le donne, non certo di sudditanza. Con la scelta della Mauresmo, abbiamo fatto capire che il sesso non c’entra, che bisogna andare oltre a queste inutili barriere. Sono gli esseri umani che riescono a compiere grandi imprese, e penso che anche abbattere questo pregiudizio sia stata una grande impresa». Judy, su Twitter ha scritto «missione compiuta», ma siamo certi che sta già pensando alla prossima, di missione. «Sono serena e soddisfatta. Ora posso lavorare sui miei progetti di sviluppo del tennis in Scozia e sulla formazione di coach donne, che sono ancora troppo poche. Adesso Andy può volare da solo».