Giuliano Aluffi, il venerdì 4/11/2016, 4 novembre 2016
ATTENTI A COME PARLANO: L’ECONOMIA LI ASCOLTA
Altro che numeri, statistiche e grafici: la finanza è una questione di lingua. A creare e a disfare le sue recondite alchimie, che si traducono in effetti benigni o drammatici sul mondo reale, sono parole dotate sia della potenza fulminante che dell’effimera consistenza della magia. È la tesi convergente di due nuovi saggi: Gli oracoli della moneta: l’arte della parola nel linguaggio dei banchieri centrali (Il Mulino, pp. 248, euro 16) di Alberto Orioli, vicedirettore del Sole24Ore, e Scommettere sulle parole: il cedimento del linguaggio nell’epoca della finanza derivata (Raffaello Cortina, pp. 200, euro 21) dell’antropologo Arjun Appadurai, docente di cultura dei media alla New York University. I due autori trattano aspetti affascinanti e complementari del rapporto tra la parola e la moneta. Innanzitutto la forza smaterializzante di formule verbali capaci di allontanare la realtà: «La crisi del 2008 è stata soprattutto un fallimento del linguaggio: gli strumenti finanziari derivati non potevano non crollare, superata una certa dimensione, visto che sono soprattutto castelli di parole» spiega Appadurai. «I derivati sono una scommessa tra due persone riguardo al valore futuro di una variabile. Quando si è permesso di combinarli tra loro, aggregarli, comprarli e venderli in blocco, si è dato il via a una folle moltiplicazione di livelli: io ti faccio una promessa, poi qualcun altro potrà comprare questa mia promessa e combinarla con quelle di altri. Si creano così grattacieli traballanti perché sempre più alti ma appoggiati sulle stesse, limitate e non moltiplicabili, fondamenta di sempre: l’economia reale, la produzione. Quando ti reggi su una catena di promesse, basta che si spezzi l’anello più vulnerabile – ad esempio gli avventurosi mutui subprime del 2008 per far saltare tutto».
Per Appadurai i derivati sono una forma di prestidigitazione: «Il valore aggregato del mercato dei derivati è stimato essere 5-6 volte più grande del prodotto interno lordo globale. Ora, è vero che un mago può far apparire 5 conigli in una scatola in cui ne aveva messo uno solo. Ma quei conigli in più sono, comunque, veri – erano solo nascosti da qualche parte – mentre i multipli di ricchezza dei derivati non hanno più un corrispettivo fisico». In entrambi i casi è la parola il catalizzatore della magia. «Pensi all’etimologia di abracadabra: viene dall’aramaico avrah ka dabra, e significa “creo mentre parlo”. È la teoria degli “atti linguistici” del filosofo John Austin. Certe parole non servono solo a descrivere la realtà, come tutte le altre, ma la plasmano mentre la descrivono», come il “sì” che rende valido il matrimonio» spiega Orioli. «Le parole che oggi cambiano di più il mondo sono quelle dei governatori delle banche centrali». Un esempio? «Ciò che Mario Draghi disse il 26 luglio 2012, a margine di un discorso alla Global Investment Conference a Londra, per sbaragliare le insinuazioni sulla debolezza dell’euro e sottolineare l’irreversibilità della moneta comune europea: “La Bce, entro i limiti del suo mandato, farà tutto quanto serve per preservare l’euro” e poi, dopo una pausa ad effetto e guardando negli occhi l’uditorio, “basterà, credetemi”. Al governatore della Bce basta pronunciare quella frase per cambiare completamente la storia monetaria dell’Europa, per smontare del tutto le aspettative degli speculatori, riposizionare la forza di interi Paesi e far cadere in pochi minuti lo spread di cento punti».
La maestria linguistica delle massime istituzioni monetarie – Draghi si è anche distinto in dotte discussioni in punta di fioretto sul Faust di Goethe in una polemica a distanza con Jens Weidmann, presidente della Bundesbank – è una risposta alle instabilità della globalizzazione ed è una novità del ventunesimo secolo: «Le frasi dei banchieri centrali del Novecento erano sibilline, oracolari e mistiche. L’idea comune era che il non dire procurasse più risultati del dire. Ad esempio Sir Ernest Harvey, vicegovernatore della Banca d’Inghilterra, nel 1928 ammise: “È una cosa pericolosa pensare di indicare le ragioni delle nostre scelte”. E Guido Carli nei suoi Pensieri di un ex governatore del 1988 scrisse espressamente di un “linguaggio esoterico della Banca d’Italia”» continua Orioli.
«Oggi invece è subentrato l’obbligo della trasparenza, dell’accountability, del rendere conto di ciò che si fa alle altre istituzioni e soprattutto all’opinione pubblica attraverso le conferenze coi giornalisti di tutto il mondo». È un cambiamento epocale. «Necessario perché oggi la politica monetaria interagisce con mercati dove il “tempo reale” è tutto» sottolinea Orioli. «Parlare solo due volte l’anno attraverso quella che era la messa cantata delle “considerazioni finali” di una volta non funziona più. Perché c’è il bisogno continuo di interagire con i mercati in base alle nuove regole della forward guidance: le banche centrali devono aiutare i loro interlocutori a comprendere in anticipo quelli che saranno i passi successivi, così che tutti possano conformare i loro comportamenti, gradualmente e con le velocità più opportune a seconda della situazione. Ciò richiede una continua “irrorazione linguistica”, ossia l’immissione puntuale di informazioni e notizie per chiarire i passaggi da fare». Ecco perché la finanza è il regno delle parole, quelle scritte dei prodotti derivati, portali magici che allontanano dalla realtà, o quelle pronunciate dai governatori, che, non meno misteriosamente, ridanno ordine alla Babele imbizzarrita dei mercati. E i numeri obbediscono.