Elisabetta Ambrosi, il Fatto Quotidiano 8/11/2016, 8 novembre 2016
NOTE STONATE ALL’ARISTON: NON SONO SOLO CANZONETTE
Dici Sanremo e ti viene in mente il sorriso preconfezionato di Carlo Conti, e con lui una rassegna di innocue canzonette che si ripete con qualche stanca variazione di anno in anno. Ma dietro Sanremo, in realtà, c’è una storia centenaria fatta anche di massoneria, servizi segreti, spionaggio, corruzione: è la tesi dello storico Riccardo Mandelli e del giornalista Romano Lupi, argomentata nel poderoso e provocatorio – ma sempre fatti alla mano – Libro nero del Festival di Sanremo (in uscita il 17 novembre per Odoya editore). Tutto comincia nel 1905 con “una giunta socialista massonica”, che costruisce il casinò sulla falsariga di quello di Montecarlo.
Ricchi arrivati con i treni di lusso, ospitati in alberghi a cinque stelle, curati con le terme e intrattenuti con il teatro, il cabaret, il gioco e le scommesse. Per questo Sanremo diventa, con la Prima guerra mondiale, un luogo privilegiato di spionaggio: perché i potenti, resi vulnerabili da lusso, gioco e prostituzione, sono più disponibili a dare informazioni. Dopo il conflitto, Mussolini avrebbe voluto legalizzare i casinò in tutta Italia ma il delitto Matteotti, che nasce anche dalle inchieste del deputato socialista sugli incroci affaristici tra banche, politica e bische, gli consiglia molta prudenza. Negli anni Trenta il fascismo consacra Sanremo sia come centro di intercettazione telefonica stabile (qui vengono tra l’altro ospitati gli assassini dei fratelli Rosselli) sia come vetrina di intrattenimento e cultura, tra musica, corse automobilistiche e teatro (proprio a Sanremo Pirandello e Marta Abba creano il primo teatro stabile italiano). Un modello replicato dalla stessa società che gestisce Sanremo a Campione, nella Svizzera italiana, “posto ideale – spiega Mandelli – per fare contrabbando di valuta, spionaggio, traffico di stupefacenti”. Durante la guerra i due casinò hanno destini differenti – Sanremo viene chiuso mentre Campione diventa un centro di addestramento per agenti anticomunisti – poi i loro destini si riavvicinano, visto che a creare il primo Festival nel ‘51 fu Pier Bussetti, “un uomo degli americani”, che prima della guerra gestiva un’agenzia di viaggi low cost. Bussetti muore misteriosamente (come il suo successore, Achille Cajafa), pare per suicidio, anche se i due autori accostano la sua scomparsa al ruolo che Sanremo continuava ad avere come centro di servizi segreti, “posto dove ora si fanno e si disfano trame che hanno a che fare con il riciclaggio e il traffico di stupefacenti per finanziare la lotta al comunismo da parte della Cia”.
Sono gli anni in cui c’è, tra l’altro, uno stretto contatto tra il casinò e l’Oas, l’organizzazione armata segreta di neofascisti che combattevano con ferocia contro l’indipendenza algerina e che proprio a Sanremo vengono messi al sicuro. Perché ancora per molti anni la cittadina ligure resta un centro di “propaganda, di potere, di raccolta di informazioni, finanziamenti”, questa volta del grande capitalismo, proprio mentre il Festival cominciava a diffondere comportamenti all’insegna della liberazione del desiderio e dei vincoli morali “funzionali all’affermazione del nascente consumismo”. Con il Festival subentra poi il potere delle grandi case discografiche: ad esempio, negli anni 60, la Rca, di proprietà anche dello Ior vaticano, che “riciclava i proventi del narcotraffico attraverso Sindona, nelle mani del quale tra l’altro – rivela Mandelli – finisce proprio l’azienda di Bussetti”. Ma tutte le case discografiche sono emanazione di grandi gruppi finanziari, che la politica non riesce mai a controllare.
E poi c’è il Festival che conosciamo meglio, con i suoi segreti ma anche scandali e scandaletti come “la morte di Tenco, che – secondo Lupi – in base ad alcune testimonianze fu dovuta alla necessità di soldi a causa di debiti maturati con la malavita marsigliese” (sembra che l’organizzatore storico del Festival, Gianni Ravera, disse “se me l’avesse detto l’avrei fatto passare”).
Il Festival della contestazione del ‘69, con Franca Rame e Dario Fo che organizzano un Controfestival; quello del 1984 con Pupo che rivela di aver comprato il quarto posto con 75 milioni di lire per l’acquisto di schedine del Totip; quello del 1990 con il podio annunciato in anticipo da Striscia la notizia; quello del 1996 con il secondo posto di Elio e le Storie tese e il sospetto di una modifica delle votazioni con la complicità di Baudo. E poi lo scandalo del 2004, con la direzione artistica di Tony Renis e il Controfestival di Nando dalla Chiesa, l’arrivo di Lele Mora (futuro direttore artistico della città se non fosse caduto in disgrazia per via delle inchieste giudiziarie), dei suoi uomini negli ingranaggi del Festival del 2010, infine il caos della giuria tecnica proprio la scorsa edizione. “Eppure – conclude Lupi – il Festival, che rischiava di sparire negli anni Settanta, ha avuto la capacità di rigenerarsi, nonostante i nuovi reality musicali, magari grazie anche a comportamenti consociativi, come quando la Rai, nel 2009, invitò la rivale Maria De Filippi sul palco per tirare la volata al suo protetto Marco Carta, poi vincitore di quell’edizione”. Ma qual è stato, scandali a parte, il ruolo di Sanremo? “Dalla funzione consolatoria e identitaria che aveva avuto dopo la guerra – scrivono i due autori nell’epilogo – Sanremo è passato alla promozione di uno stile di vita consumistico e libertario, antitradizionale, infine a fattore di moderazione negli anni della contestazione, deviando la protesta giovanile verso terreni inoffensivi”. Il prezzo della sua parabola, però, è alto. Se infatti i tempi dello spionaggio sono lontani (il Festival lascia il casinò per l’Ariston nel 1977), Sanremo ha reso “gli abitanti di questo paese una moltitudine di individui sradicati, denazionalizzati, acritici, spoliticizzati, con un io ipertrofico e vuoto, libertari nel desiderio, darwinisti verso un’economia che li considera come prede naturali, cosmopoliti nelle allucinazioni e provinciali nella realtà, moralisti senza princìpi, bigotti del politicamente corretto”.