Massimo Iondini, Avvenire 8/11/2016, 8 novembre 2016
L’OLIO DI PALMA PERDE I PEZZI
L’insostenibile leggerezza della sostenibilità. È il senso dell’allarme lanciato da Rspo, l’organizzazione internazionale Roundtable on Sustainable Palm Oil, nata una dozzina di anni fa per cercare di dare un volto nuovo ai grandi produttori di olio di palma di fronte a una sempre più indignata opinione pubblica, garantendo con un proprio regolamento interno una maggiore sostenibilità della filiera soprattutto su temi incandescenti come deforestazione, land grabbing (rapina delle terre) ed emissione di gas serra. Uno sforzo che, sbotta Carl Bek-Nielsen (Ad di United Plantations, tra i leader nella produzione di olio di palma malese e co-presidente di Rspo), non viene però riconosciuto e compensato dal mercato.
«La domanda di olio di palma certificato Rspo è ferma e se ne riesce a vendere solamente il 50%» accusa Bek-Nielsen alla conferenza annuale di Rspo in svolgimento in Thailandia. Gli acquisti di olio di palma certificato sostenibile sono infatti concentrati quasi solo nell’Unione europea e pertanto, sottolinea, c’è ancora molto spazio per aumentarne la domanda. «Il vero problema – spiega il manager – è che chi compra è attento a far sì che la domanda non superi l’offerta in quanto questo avrebbe un impatto sui prezzi di acquisto». Quindi la stoccata alle crescenti campagne negative contro l’olio di palma. «Si tratta di un dibattito emotivo che porta a decisioni disinformate senza aiutare nessuno – lamenta Bek-Nielsen –. Questa non è una storia bianca o nera o tra buoni e cattivi, è una storia complessa che richiede la conoscenza del problema nella sua interezza e non scegliere la via più facile, utilizzando etichette ’senza olio di palma’ per ragioni commerciali. Bisogna sapere che queste coltivazioni occupano meno dello 0,4% della superficie agricola totale mondiale ». Ma soltanto il 20% dei produttori coltiva palme da olio che rispondano ai criteri di sostenibilità previsti da Rspo, organismo che conta attualmente 3.080 membri tra cui anche alcune associazioni ambientaliste. E proprio una di queste, la olandese Aidenvironment, sta per scendere sul piede di guerra minacciando di uscire da Rspo, accusata di «essere poco credibile ». A scatenare il caso è stata la riammissione nell’associazione per l’olio di palma sostenibile, l’agosto scorso, del colosso industriale malese Ioi Group (tra i fondatori della stessa Rspo), sospeso a marzo per violazione delle regole. «L’accusa principale – ci spiega da Bangkok l’italiano Stefano Savi, direttore globale della comunicazione di Rspo – era di avere dato fuoco a delle foreste per ricavarne piantagioni di palma da olio, ma comunque in concessioni non certificate da Rspo. A quel punto abbiamo chiesto a Ioi Group un preciso futuro piano di azione che rispondesse ai nostri principi di sostenibilità. L’ha presentato ed è stato riammesso. Ma il prossimo agosto, a un anno esatto, sarà effettuata una verifica sul campo da parte di un ente terzo, che deve restare anonimo». E sulla minaccia di perdere un pezzo comunque dall’importante peso specifico, Savi minimizza: «L’eventuale abbandono di una Ong ci dispiacerebbe, ma farebbe parte di una naturale dinamica. Basti pensare che negli ultimi cinque anni ben 28 Ong ambientaliste e sociali si sono unite alla nostra causa e ora sono membri di Rspo ». Una crepa molto meno grave della presa di posizione assunta a suo tempo da «multinazionali del settore alimentare come Unilever, Kellog, Mars, Nestlé e Cargul che – riporta il ben informato sito online Il fatto alimentare –, in seguito alla sospensione di Ioi, avevano deciso di interrompere i rapporti di fornitura di olio di palma con la società».
Tra arrivi e partenze, a uscire già da tempo da Rspo, di cui aveva fatto parte per anni, è stata l’italiana Barilla il cui processo di allontanamento dal palma nella preparazione di crackers, fette biscottate, grissini, ecc. ha avuto una forte accelerazione negli ultimi mesi, soprattutto dopo il clamoroso parere di Efsa. Lo scorso maggio l’Autorità europea per la sicurezza alimentare, che ha sede a Parma proprio come Barilla, aveva pubblicato dati che rivelavano la maggiore produzione di contaminanti tossici durante la raffinazione industriale dell’olio di palma rispetto ad altri olii vegetali. «Già da quattro anni però – ci spiega Barilla – avevamo cominciato a sostituire l’olio di palma con altri olii nell’ambito del miglioramento del profilo nutrizionale ovvero la riduzione dei grassi saturi di cui il palma è piuttosto ricco. Anche per questo Barilla non era entrata a far parte dell’Unione italiana per l’olio di palma sostenibile creata un anno fa, tra gli altri, da Ferrero, Nestlé e Unilever Italia. Per noi era già iniziato un altro cammino, che il parere di Efsa ha soltanto accelerato».