Simone Battaggia, La Gazzetta dello Sport 8/11/2016, 8 novembre 2016
L’IRLANDA, L’HAKA E L’8 DI LOLEY. IL RITO PIU’ TEMUTO SI PUO’ BATTERE
Soldier Field di Chicago, sabato pomeriggio, pochi minuti prima di Irlanda-Nuova Zelanda. Mentre gli All Blacks mettono in scena la «Kapa o pango», la versione più tosta della haka, quindici irlandesi in piedi, fieri e commossi, compongono un enorme «otto». Era il numero di Anthony Foley, morto tre settimane fa a 42 anni. Per alcuni di loro era un compagno, per altri un maestro. Quindici uomini fermi, in silenzio, con gli occhi fissi verso la squadra più temuta al mondo, che l’uomo di Munster aveva sfidato tante volte senza mai riuscire a batterla. Nessun gesto, nessun canto, nessun messaggio esplicito agli avversari. Solo un momento per loro stessi, mai così uniti, tutti nel ricordo di Foley. Shoulder to shoulder, come recita Ireland’s Call.
ENERGIA CONVERTITA Per una volta la sfida della haka è stata vinta dagli altri, dagli avversari. Da quelli che di solito se la vedono sbattuta in faccia e devono limitarne i contraccolpi, mentre decine di migliaia di persone la riprendono col telefonino. Gli irlandesi sono riusciti ad arginarne l’energia intimidatoria, convertendola a proprio vantaggio. Le partite si vincono in campo, ma il 40-29 finale — prima vittoria verde dal 1905 — ha le proprie radici lì, in quel minuto. «Ho solo pensato a che uomo fosse Foley — ha raccontato a fine partita il flanker CJ Stander —. E al 60’, quando mi sono sentito stanco, ho pensato: “Perché sto giocando questa partita? Chi mi ha portato qui? Lui. Lui mi ha dato tutto”».
DA RITO A INTIMIDAZIONE Altro che danza tradizionale. La haka ha da sempre un significato di sfida. Nel 1905, quando gli «Originals» iniziarono a portarla in giro, era comunque accompagnata da parole di sfida, anche se allora sembrava più che altro un balletto fatto col sorriso sulle labbra. Gli avversari la guardavano da vicino, a braccia conserte, come uno zio guarda il nipotino alla recita di Natale. Negli anni Ottanta però Buck Shelford, capitano maori degli All Blacks, intuì il potenziale intimidatorio di quel rito. Sapeva che le haka originali, quelle delle tribù, venivano interpretate con tutt’altra intensità. Così portò tutti i compagni a scuola, bianchi compresi, perché la danza diventasse un rito sincronizzato e aggressivo anche nel rugby.
VERDI RIBELLI Da allora la haka è diventata una sfida, che si può vincere o perdere. E le reazioni degli avversari sono per certi versi più interessanti della rappresentazione stessa. Curiosamente, i primi a inventarsi una reazione attiva furono proprio gli irlandesi. Avvenne il 18 novembre 1989 a Dublino, nel vecchio Lansdowne Road: mentre Shelford guidava la haka, il capitano verde Willie Anderson si mise al centro dei compagni in linea, prese a braccetto i due che aveva a fianco e iniziò ad avanzare, a trascinare quella catena umana a passo di marcia, fino a trovarsi viso a viso con Shelford stesso. Alla fine agitò le mani verso il pubblico, come a chiedere un riconoscimento per quel suo atto di coraggio.
IL “WESTERN” COI GALLESI David Campese non ha mai apprezzato la ritualità dei Neri. Durante la haka che precedette la semifinale mondiale del 1991, poi vinta dall’Australia, rimase a calciare sotto i propri pali. E se l’Italia non può andare fiera di avere voltato le spalle al rito nel 2007 a Marsiglia, Galles e Francia si applicano da anni per trovare una risposta efficace a quella sfida. Nel 2005 a Cardiff, per il centenario del test dei Dragoni contro gli Originals, gli ospiti accettarono che si replicasse la sequenza del 1905: inno neozelandese, haka e Land of my fathers. Lo spostamento di fatto annullò l’effetto emotivo della danza. I britannici ci riprovarono l’anno successivo, ma gli All Blacks dissero no e visto che non si trovò un accordo, danzarono nei corridoi del Millennium. Tre anni dopo arrivò la vendetta. I gallesi assistettero alla Kapa o pango in piedi, allineati. Quando però la haka finì, rimasero fermi a guardare negli occhi gli avversari. Per due minuti non si mosse una foglia, come in un film western. Il pubblico impazzì. Due anni prima, nello stesso stadio, i francesi avevano vestito tshirt blu, bianche e rosse formando un gigantesco tricolore che idealmente accompagnò una vittoria clamorosa. E nel 2011, a Auckland, sorpresero ancora: di fronte alla haka della finale iridata, formarono una freccia, o meglio una «V» di victoire. Il capitano Dusautoir, dal vertice, avanzò con la squadra ben oltre la metà campo, con audacia. I francesi poi persero 8-7 e per l’infrazione furono pure multati di 2500 sterline, poi pagate grazie alla colletta promossa da un volto della tv neozelandese. La Coppa era persa, ma quella freccia aveva fatto tremare gli All Blacks. L’otto di Foley sabato li ha visti cadere.