Sandro Orlando, D, la Repubblica 29/10/2016, 29 ottobre 2016
FÆR ØER
L’elicottero impiega venti minuti da Tórshavn per arrivare sulla piccola isola di Stóra Dímun. Dall’alto, le sue scogliere altissime ricoperte da colonie di uccelli appaiono come delle montagne verde smeraldo, sospese tra un mare color acciaio e un cielo bianchissimo. Due chilometri e mezzo quadrati di prati e brughiere, popolati da centinaia di migliaia di pulcinelle di mare, 450 pecore, una manciata di mucche e vitelli e qualche cane. Più quattro bambini e altrettanti adulti. L’elicottero che tre volte la settimana, nebbia permettendo, fa il giro delle Fær Øer, porta sempre qualche ospite. Raggiungere Stóra Dímun, diversamente, non sarebbe possibile, perché le sue falesie a strapiombo non consentono alle navi di attraccare. O quasi. Perché quest’isola vulcanica in mezzo all’Atlantico è stata una delle prime a essere raggiunte dai monaci eremiti irlandesi, che all’alba del Medioevo scoprirono questo sperduto arcipelago, precedendo i primi coloni vichinghi scappati dalla Norvegia. Quando molti secoli dopo Janus e Sorin Olesen approdarono qui, sembra ci fosse anche una chiesa, di cui però non è rimasta traccia. I due fratelli arrivarono a Stóra Dímun nel 1807 e otto generazioni dopo i loro discendenti sono ancora su questi dirupi a contemplare l’infinito.
Eva úr Dímun (cioè Eva di Dímun), 38 anni, figlia di Óla Jákup úr Dímun e moglie di Jógvan Jón Petersen, è l’ultima erede di questa stirpe, e 13 anni fa ha deciso di tornare per continuare una tradizione di famiglia, e accettare il suo destino. Una capacità che, come insegnano le antiche saghe nordiche, fa anche la grandezza degli eroi. «Sono stata via per più di un decennio», racconta, al termine di una lunga giornata di lavori negli orti e fienili. «Ho fatto una scuola di agraria in Norvegia, poi l’università a Tórshavn, dove ho conosciuto mio marito. Lui ha capito che il mio desiderio era tornare, e così siamo venuti un mese per prova, d’estate». Il mese è diventato un anno, l’inverno è stato superato, e i due si sono quindi decisi a restare. Nel frattempo è nata Dogg, in feroese “rugiada del mattino”, la primogenita, seguita un anno dopo da Sprouti, «germoglio», il suo fratellino.
I due ragazzi hanno oggi 11 e 12 anni, e fanno lezione con il maestro che ogni domenica arriva sull’isola, per ripartire il venerdì successivo. La scuola, con i trasporti e l’assistenza, è uno dei servizi che il governo delle Fær Øer garantisce a tutte le comunità, anche le più isolate, per evitare che la gente le abbandoni.
Questo arcipelago conta 18 isole, molte delle quali sono collegate da tunnel sottomarini, ponti e traghetti. Ma le isolette più piccole e lontane hanno solo l’elicottero, che a giorni alterni porta ciò di cui i residenti hanno bisogno, dalla spesa al maestro. Il quale a Stóra Dímun ha una sua casetta, in una delle tre costruzioni dal tetto verde, dietro un muro di pietra, che si trovano sul lato meridionale dell’isola, il più riparato dai venti. Nell’altra abita il fratello di Eva, con la moglie e due bimbi piccoli.
A 14 anni anche Døgg e Sprouti si trasferiranno a Tórshavn, la capitale, per continuare gli studi. Ma un giorno, se lo vorranno, potranno ereditare questo piccolo mondo magico, dove la vita si tramanda da secoli con gli stessi ritmi, le stesse curiosità e gioie. «La mia infanzia è stata come la loro e quella di mio padre e mio nonno, libera e a contatto con la natura», aggiunge Eva, «e mi auguro che almeno uno dei due torni per continuare questa esperienza di vita. Ma decideranno in libertà, quando sarà il momento, e se troveranno un partner disposto a seguirli».
Non vi pesa la solitudine?, chiedo. «La vita qui ha un’altra intensità», risponde lei. «Ogni mattina alle 6 e mezza ci riuniamo per fare colazione, con gli ospiti e amici che ci vengono a trovare. E poi per tutta la giornata lavoriamo insieme. Sì, siamo soli, ma anche molto uniti». Conclude: «La natura insegna ad avere rapporti autentici, anche con se stessi, e a questa spontaneità e libertà non saprei rinunciare». Quando non si arrampicano sulle scarpate dove gli uccelli fanno i nidi, o si calano nelle insenature dove il mare non è agitato, i suoi ragazzi prendono anche lezioni di violino con un insegnante a centinaia di chilometri di distanza. Grazie a Skype, che li fa stare in contatto con i coetanei.
Del resto, a parte la durezza del clima, sull’isola non si vive male. Coltivazioni e bestiame garantiscono la quasi autosufficienza alimentare e con la vendita della carne e delle pelli di pecora si guadagna bene. D’altronde l’arcipelago delle Fær Øer vanta uno dei redditi pro capite più alti d’Europa grazie alla pesca e alla pastorizia, il pilastro dell’economia. Succede così che con le sue greggi Jóannes Patursson guadagni quanto un direttore generale. Facciamo insieme due conti nella sua fattoria a Kirkjubour, la più antica dell’arcipelago, una baita in legno risalente all’XI secolo che la famiglia, arrivata qui nel 1550, abita da 17 generazioni. «Le Fær Øer non fanno parte dell’Ue, pur essendo sotto giurisdizione danese», esordisce Jóannes. «Quindi non siamo soggetti ai vincoli e alle normative comunitarie». Di conseguenza non ci sono né controlli veterinari né quote o altri adempimenti da rispettare, con i relativi costi. «Le pecore sono come i feroesi, restano dove sono nate, e quindi non abbiamo bisogno di recinzioni, anche perché non ci sono né animali predatori, né ladri». Quando arriva la stagione della macellazione, l’allevatore chiama una dozzina di vicini ad aiutarlo, in questo villaggio costiero sull’isola di Streymoy, che conta appena 80 anime. E a ognuno dà poi come ricompensa tre pecore. Semplice.
In tutto l’arcipelago vivono più di 49 mila persone e un numero quasi doppio di ovini: non a caso Føroyar vuol dire “isole delle pecore”. Eppure non bastano, tant’è che se ne importano intere navi dalla Nuova Zelanda. Perché la carne di pecora è la base dell’alimentazione dei feroesi, che la lasciano fermentare ed essiccare al vento per mesi, prima di gustarla come fosse un prosciutto. Clima e natura non permettono a queste latitudini altri metodi di conservazione, visto che non crescono alberi, dunque non è possibile affumicare le carni, né ci sono temperature sufficienti a estrarre il sale marino. «Sì, la vita da noi è facile», conclude Jóannes, che è padre di quattro ragazzi, «nessuno chiude la casa o l’auto, i bambini sono liberi di stare all’aperto, senza preoccupazioni. Perché dovrei desiderare altro?».
È per riprendersi questa qualità del vivere che Annika á Lofti, attrice che per dieci anni ha girovagato tra la Scandinavia, Los Angeles e Londra, a 33 anni ha deciso di tornarsene nel paese della sua famiglia, Sandavágur, un borgo con un migliaio di abitanti, sull’isola di Vágar, dov’è anche l’aeroporto. «Qui sono parte di una collettività e di una storia», racconta, «mi sento protetta e serena, ogni volto che incontro è un volto conosciuto, e posso essere me stessa, senza dover apparire». Ma non è noioso la sera? «La gente qui non va per locali, ma si trova a casa di amici, spontaneamente». D’accordo, ma in tutte le Fær Øer ci sono solo due cinema, e a Tórshavn, insisto. «Con Internet questi limiti non significano più nulla. E in auto in venti minuti sei nella capitale. Ma se invece vuoi compagnia, sai che basta andare dai vicini, senza bussare». Anche perché qui i vicini restano tali per tutta la vita: chi mette su casa, non se ne va più.
«I feroesi sono grandi viaggiatori, molti lavorano sulle navi, ma a un certo punto della vita tornano indietro, al punto di partenza, come i salmoni. Quasi temessero di estinguersi», scherza Jón Tyril, ex musicista che a Syðrugøta, un minuscolo insediamento con la caratteristica chiesa affacciata sul mare, si è reinventato come organizzatore di una sorta di Woodstock locale, il G!Festival. «Tornano tutti, e una volta qui, non si spostano più», aggiunge Jón. «Anche per questo nessuno qui commette reati: dovrebbe sopportare tutta la vita gli sguardi di disapprovazione dei vicini».