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 2016  novembre 04 Venerdì calendario

FULVIO ABBATE: «LA RAI È PROPRIO IRREDIMIBILE» – Definire Fulvio Abbate non è semplice o forse lo è: artista, scrittore, giornalista, culturalmente situazionista, «ingestibile» come dissero a L’Unità quando gli tolsero la collaborazione, che durava da molti anni

FULVIO ABBATE: «LA RAI È PROPRIO IRREDIMIBILE» – Definire Fulvio Abbate non è semplice o forse lo è: artista, scrittore, giornalista, culturalmente situazionista, «ingestibile» come dissero a L’Unità quando gli tolsero la collaborazione, che durava da molti anni. Abbate, palermitano, classe 1956, nobiltà nel sangue (marchese), è certamente un uomo libero, che vive in una città ormai detestata: «Roma è un grumo di aggregati, di piccole borghesie senza costrutto, dove il massimo che ti è concesso e di essere condomino», dice al telefono. Alla sua città adottiva, Abbate ha dedicato un libro, Roma vista controvento, uscito per Bompiani nel 2015, che è una sorta di scavo antropologico dell’Urbe. Intellettuale fuori dal mainstream, forse perché si scaglia sovente contro «la P2 culturale di sinistra», Abbate conduce dal 1998 un esperimento unico: Teledurruti, «un’opera d’arte, un laboratorio permanente», ossia un’emittente che espone l’Abbate pensiero in tutti suoi acuti e le sue spigolosità e che, dal 2007, è diventata un canale YouTube. Domanda. Abbate, con lei che fa la tv più autenticamente culturale che ci sia, voglio cominciare chiedendo che cosa pensa dalla Rai. Risposta. Ma no, come Leonardo Sciascia diceva della Sicilia, anche la Rai è irredimibile. D. Come anche si diceva un tempo anche dei Paesi del socialismo reale. R. Esattamente. Guardi per capire la Rai, bisogna andare ospiti in trasmissioni come Uno Mattina. D. Quindi molto presto, alla alba. R. Quella trasmissione è paradigmatica dell’Italia. Lei si mette ad aspettare, nei corridoi, che venga il suo turno, e si vede passare, nell’ordine, il nano più alto d’Italia, Pierferdinando Casini, la donna cannone, Luciano Canfora e Luciano Luthring, capisce? Uno Mattina è simmetrica un po’ al mondo che Federico Fellini descriveva con Ginger e Fred, anche se pensava, lo sappiamo, al Maurizio Costanzo Show. Ecco in quella trasmissione capisci un po’ un’Italia ministeriale, se vogliamo. D. Insomma, i tempi del «Nazionale», come si chiamava una volta Rai Uno, non son mai passati? R. Quella è una sorta di cinemondo nazionale, dove, dal punto di vista dei contenuti, verifichi l’insipienza di autori pavloviani... D. Ossia che si ripetono, per riflesso condizionato. R. Massì, magari si trovano lì per ragioni di clientela. Trovi, magari, la figlia dell’alto magistrato, che non capisce nulla, che forse c’ha qualche problema di talento spicciolo, ma che è lì, intoccabile. D. Carlo Freccero, grande uomo di tv, messo in cda dal M5s perché ne fosse la coscienza critica, non pare aver dato grandi contributi finora. R. Freccero potrebbe, nella sua posizione, sostenere che l’intero palinsesto Rai fosse affidato a Cattelan... D. Alessandro, il presentatore? R. No, dico proprio Maurizio Cattelan, l’artista. D. Oddio, il ditone del vaffa, i bambini appesi, il Papa accasciato... R. Cattelan fa solo cose glamour, non c’è la cultura del sabotaggio in lui, solo dominio del glamour. D. Senta, ma la Rai renziana, quella del direttore generale Antonio Campo Dall’Orto, non ha ancora dispiegato i suoi effetti? R. La questione è semplice: il Paese reale vuole la merda. D. Tanto per non girare intorno al problema. R. È così. Ogni tanto arriva qualcuno che dice: «Noi gli diamo la merda ma guarnita di praline». D. Una pralina di cose alte, per addolcire il sapore. Facciamo un esempio? R. Sì, la pralina può essere la trasmissione di Walter Veltroni. D. 10 cose con Flavio Insinna, il nuovo sabato italiano. R. In questo caso è esemplare, con un chiaro intento didattico, detto tra virgolette. D. E senza le praline, cacca pura? R. Il Paese vuole Maria De Filippi, un sabato di prima serata che assomigli al calendario missionario, ha presente? La negretta in lacrime, il focomelico che dipinge coi piedi o con la bocca. D. Ci potrebbero essere alternative? R. Ci potrebbe essere Bebe Vio, una persona disabile, che però ha una sua propria dimensione erotica. Invece siamo fermi, al format del vecchio con la pipetta, del clown con la lacrima. D. Ma la Rai renziana, secondo lei, come potremmo immaginarcela? R. Il format perfetto era quello della Leopolda, il palco della stazione lorenese. E infatti la trasmissione di Veltroni è un po’ questo. Ma più il simbolo della tv renziana è Pif. D. Il suo concittadino Pierfrancesco Diliberto, adesso nei cinema con In guerra per amore... R. Ecco Pif è l’antimafia parrocchiale, il nuovo Marcellino pane e vino, se lo ricorda? D. Ho pochi anni meno di lei. Il piccolo Pablito Calvo. Torniamo alla Rai renziana. R. Mi pare che una rondine, ossia la trasmissione di Veltroni, non faccia primavera. E anche a RaiTre, non mi pare finora segnata dalla direzione di Daria Bignardi. Ma d’altra pare i futuri palinsesti se li creeranno gli stessi telespettatori, coi propri telefonini, su. D. Di che parliamo, lei dice? R. Sì, perché, in collegamento diretto via Facebook, i ragazzi e le ragazze si riprenderanno mentre si masturbano, poi avremo gli scoreggiatori che incendiano i proprio peti, quelli vanno già fortissimo. Una vampa e tutti a ridere! Poi un po’ di morgue, perché ai ragazzi piace già Grey’s Anatomy Quello sarà. D. E se domani arrivassero i grillini a Saxa Rubra, come potrebbe cambiare la radiotv di Stato? R. Immaginare una Rai a cinque stelle, è qualcosa di spettrale. Basta considerare che il loro Starace, Rocco Casalino... D. Stella del primissimo reality show, oggi portavoce alla Camera del movimento. R. Dica piuttosto uno degli oggetti di scherno della Gialappa’s band. D. Vero anche questo. Indimenticabile serie, quella, con l’altro protagonista, soprannominato Ottusangolo. Mi scusi, Casalino sarebbe Starace, nel senso di Achille, capo del Partito fascista, o di Francesco Storace, che guidava la commissione parlamentare Rai? R. No, non dicevo Storace «epurator», come si chiamava allora. Intendevo Starace, proprio il protagonista dei sabati fascisti. Ora, è pur vero che John Cage andò a Lascia o raddoppia, ma non mi pare che Casalino, fino a oggi, abbia toccato alcuna vetta. D. Come dovremmo immaginarci questa Rai pentastellata, dunque? R. Non riesco ad andare aldilà del solito folclore, ossia di scie chimiche, rettiliani e poligamia. D’altra parte a Roma, che è un banco di prova del M5s, per la cultura hanno preso una figura di matrice veltroniana. D. Luca Bergamo, assessore alla Crescita culturale. R. Ai tempi di Veltroni, faceva un famoso festival, sostenuto dal Campidoglio, Enzimi. Ma anche per l’urbanistica, mi pare che abbiamo dovuto prendere uno da sinistra. D. Paolo Berdini, professore de La Sapienza. R. Sì, insomma, girano a vuoto, non hanno quadri proprio. La figura principale è la sindaca Virginia Raggi, che non ne azzecca una. O meglio, una ne ha azzeccata. D. Ossia? R. Il discorso all’inaugurazione della Nuvola di Massimiliano Fuksas, quando ne ha ricordato il costo eccessivo. Poi, però, è quella della congiura dei frigoriferi. D. Scettico? R. Insomma, non ce la vedo l’Ama (municipalizzata rifiuti di Roma, ndr) a sabotare la giunta come i camionisti del Cile nel 1973 colpirono Salvador Allende. Come ho scritto, quei frigoriferi sono diventati come il monolite che Stanley Kubrick mette in 2001, Odissea nello spazio. D. Siamo arrivati a Roma, si può ritornare alla Rai. Quanto c’entra quell’azienda con l’Urbe? R. Guardando la Rai, capisci la Capitale. La tv di Stato avrebbe parlato solo romanesco se Mario Riva, che le aveva dato popolarità col Musichiere, non fosse caduto nella buca. D. Il tragico infortunio, all’Arena di Verona, che gli costò la vita nell’agosto del 1960. R. Lui vivente, la Rai avrebbe parlato come da Cencio alla parolaccia a Trastevere. A quel punto prevalse la Rai milanese, quella di Mike Bongiorno. Per quanto fosse nata a Torino. D. Stiamo a Roma, Abbate. R. C’è una grande contiguità fra la Rai e la Roma dei ministeri, la Roma dei notai, dei primari. Per capire certi personaggi della radiotelevisione, alcuni volti ricorrenti, anche se non di primissimo piano, bisogna conoscere le dinamiche dei salotti di via Tre orologi o di via Tre madonne. Oppure la scala gerarchica della sanità. D. In che senso? R. Nel senso che questa è la città dei primari, dei medici, delle ferriste, degli infermieri e dei portanti. La Roma dei primari non può non avere un ruolo in Rai. Quella ritratta da certi Cafonal di Roberto D’Agostino, e che un tempo aveva trovato sponda nella Dc. D. E le città politicamente successive? R. Particolare è stata quella post-fascista dei Gianni Alemanno, che non ebbero il coraggio di toccare nulla in Campidoglio, mentre in campagna elettorale promettevano il lanciafiamme. D. Invece? R. Invece bastò loro essere invitati nel salotto delle sorelle Fendi. Oppure di ricevere in dote, dai socialisti, quelle ragazze, signore e signorine, che s’accompagnavano a quelli del garofano. Armi e bagagli passarono in Alleanza nazionale. D. Riposizionamenti amorosi. R. Bastava andare al Bar della Pace, a Piazza Navona, e vedere sfavillare assessori e qualche sottosegretario aennino che, più del potere, assaporavano l’aver accesso alle gioie del sesso. D. Un mondo un po’ in difficoltà quello della destra romana. R. In condizioni drammatiche, ha fallito. Come la sinistra del resto. Negli ultimi tempi, prima di morire, anche Teodoro Bontempo, che ne conosceva a menadito gli elettori, la base, confessava d’essere in difficoltà. Quell’elettorato oggi ha trovato nel M5s un presidio ottimale: negozianti, tassisti, ignoranti vari, hanno visto nel M5s una forza palingenetica. D. Succederà ai grillini, quello che è accaduto alla destra? R. La carne è debole. Non ricorda la calata dei protomartiri della Lega? D. A disagio nel dover vivere nella «Roma ladrona». R. Infatti, all’inizio, Umberto Bossi diceva che avrebbero alloggiato tutti assieme, in albergo, per non farsi tentare da questa città corrotta e corruttrice. Poi è finita com’è finita. D. In questa chiacchierata-cortocircuito, a pendolo fra tv, città e politica, abbiamo sfiorato il veltronismo, contro cui lei si è spesso scagliato. R. Il veltronismo è un fatto culturale, che ha abbassato la flora fantastica di ogni intelletto a Roma. D. Veltroni fu suo direttore a L’Unità. R. Che anni. Non possono vedere una pubblicità di Telepass perché ripenso che il direttore lo forniva ai collaboratori suoi amici. Se vedo Canal Plus, mi sovviene che Veltroni mise i suoi «giovani scrittori» un po’ dappertutto e anche lì. D. Il suo antiveltronismo l’ha pagato, Abbate? R. Non figuro dalle liste di inviti qualsiasi evento culturale. D. Ma voleva fare il consulente anche lei? R. Per carità, quando, Giovanna Melandri fu designata alla guida del Maxxi, e qualcuno fece un appello perché trovava discutibile quella candidatura, non comparvero in calce firme «platinum plus», anzi, la più nota fu la mia. Una città di merda. Se lei pensa... D. Se lei pensa? R. Che fu la città di Pier Paolo Pasolini, colui che lanciò invettive contro la televisione di Stato ed Enzo Siciliano, uno degli uomini a lui più vicini, andò a presiederla... D. Ci sono intellettuali che pensano d’avere un ruolo diverso, prenda Lidia Ravera, assessore alla cultura in Regione. R. Già, e perché mai c’è andata a fare l’assessore? D. Dice che è un’abdicazione? R. Il ruolo degli intellettuali è quello di andare a forgiare chiodi a quattro punte, come facevano i partigiani nelle officine del Tiburtino, per bloccare la ritirata tedesca.