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 2016  novembre 04 Venerdì calendario

007 ITALIANI (E DI LEONARDO

DiCAPRIO)–

Il Diavolo faceva le pentole e pure i coperchi. E non lo prendevano mai. Un diavolo a quattro: lo braccavano in Tanzania e lui metteva la coda nel-lo Zambia. Un diavolo in corpo: gli mettevano le cimici sulla jeep e quello s’involava veloce come una mosca. Mai intercettato, mai fotografato. Sfuggito sette volte a cattura sicura. Imprendibile. Invisibile. Intoccabile. Il Totò Riina dell’avorio. «Una mattina», racconta Andrea Crosta, «stiamo girando il nostro film a Hong Kong. Ci chiamano dalla Tanzania, eccitatissimi: sappiamo dov’è, stiamo andando a prenderlo... Non c’è bisogno di spiegare chi o che cosa. Capiamo subito: è un anno che aspettiamo questo momento. Uno dei registi, Richard Ladkani, dice stop alle riprese. Imbarca la troupe e salta sul primo aereo, ventidue ore di volo. Appena in tempo per filmare tutto...». Il 29 ottobre 2015, a circondarne il nascondiglio alla periferia di Dar es Salaam e ad arrestare Boniface Matthew Mariango detto “Shetani”, il Diavolo, ci vogliono trenta uomini dell’antiterrorismo e tutta l’esperienza del superpoliziotto Elisifa Ngowi. Uno tosto che indagava su Al-Qaeda e sa sparare bene, se serve. Non stavolta: quando la squadra speciale Ntsciu sfonda l’ingresso, il Diavolo ha occhiaie da insonnia e sclere arrossate, il sudore che gocciola dai baffi inzuppando la camicia verdina. In un attimo, il Diavolo è ancora più brutto di come lo dipingono, molto più vecchio dei suoi 45 anni. Sbarra lo sguardo, la bocca stupita, e alza le braccia. Lasciandosi rinchiudere in una gabbia: l’aspettano quattro processi come minimo, un futuro da ergastolano come massimo, e la giustizia per migliaia d’elefanti ammazzati, tonnellate di zanne bracconate, milioni di dollari accumulati... Il commissario Elisifa gli legge le accuse con calma. Mariango ascolta le sue colpe in silenzio. Poi i due incrociano lo sguardo. E nel film si sente il cacciatore di criminali fare una domanda al cacciatore criminale, una domanda retorica da appendere come un trofeo: «Mariango, qual è il tuo soprannome?». «Io sono Shetani», risponde quell’altro in swahili: «Shetani, il Diavolo senza pietà».

ORO BIANCO, MERCATO NERO. Che si goda l’inferno, detto senza pietismi. E con tutto il tempo che avrà in carcere, ne approfitti per rivedersi: la scena dell’arresto è da oggi su Netflix ed è la parte forte di The Ivory Game-Caccia all’avorio, due ore d’un docu-thriller tutto droni&GoPro che Lakdani e Kief Davidson hanno girato per sedici mesi e che Leonardo DiCaprio, ormai vocato all’ambientalismo cinematografico, s’è deciso a produrre. Un film che spiega come s’è arrivati ad acchiappare questo Pablo Escobar dell’Africa nera e come funziona la guerra internazionale a un traffico che distrugge l’ambiente, arricchisce le mafie, finanzia i terroristi. The Ivory Games è già stato presentato al Toronto Film Festival, ha vinto l’Oscar dei documentari a Bristol, il 20 ottobre l’hanno proiettato alla Casa Bianca e a gennaio rischia una nomination agli Oscar veri.
Fra i suoi protagonisti c’è un vero detective italiano: «I due registi m’hanno contattato nel 2013», dice Crosta, «e proposto di seguirmi “embedded”. Io ero perplesso, temevo che m’intralciassero perché stavo partendo per un’investigazione sotto copertura tra Kenya e Cina, dovevo infiltrarmi come falso manager d’una multinazionale nel porto di Mombasa. Un posto che è una minaccia al mondo intero: ci passa un milione di container l’anno, un quarto dell’avorio mondiale assieme ad armi, droga, di tutto, basta pagare e si può spedire senza intoppi una bomba da Mombasa a Rotterdam... M’ero fatto un falso sito web, fingevo d’avere denaro da investire, avevo addosso microcamere e microfoni, uno dei registi si spacciava per mio assistente: insomma, ero preoccupato. Invece è andata bene. Da lì, abbiamo continuato a girare in Vietnam, a Hong Kong, in Uganda, nello Zambia...”.

DAI MASAI AI CINESI. L’Ivory Game è un gioco faticoso. Pericoloso. Si torna spesso alla casella iniziale, ricominciando tutto daccapo, senza nemmeno passare per la prigione. I bracconieri sono gente abile. Vogliono che i mammiferi più grandi del mondo siano anche i più rari. Che il loro prezzo cresca sempre: finché l’avorio varrà qualcosa, gli elefanti moriranno; più moriranno, più l’avorio varrà... «Al gradino più basso c’è il poveraccio che stacca le zanne», dice Crosta, «e nove volte su dieci è un vecchio masai analfabeta che rischia la galera per sette dollari al chilo». Poi sali la torre d’avorio e via via trovi gli altri: i broker, gl’intermediari, i grandi boss come Shetani che possiedono i container, corrompono le dogane, hanno accesso riservato ai grandi porti. «In cima, c’è l’Asia. E quello è un mondo diverso: una mafia pulita di colletti bianchi, import/ export e centri commerciali, affari sporchi mescolati a business legale». In dieci anni il commercio mondiale (e illegale) è raddoppiato ma la Cina, il più grande acquirente, non l’ha mai vietato davvero: dalle bacchette per il riso alle sculture milionarie, è lì che finisce indisturbato il 90 per cento dell’avorio. A Pechino, a Shanghai, nel Fujian e nel Guangdong continuano a considerare l’oro bianco una parte imprescindibile dell’eredità culturale Ming – il corno di rinoceronte è un afrodisiaco e un medicinale che cura dal brufolo all’emicrania, dall’infarto al cancro, dalla sbornia all’avvelenamento – e lo pagano anche tremila dollari al chilo. Un ricco cinese ha comprato da Christie’s un antico avorio dell’imperatore Kangxi per cinque milioni di dollari. Ed è così che i pachidermi s’estinguono: ce n’erano 27 milioni un secolo fa, sono 350 mila oggi. Ne ammazzano 30-50 mila l’anno, in Sierra Leone e in Senegal non ce n’è quasi più, in Tanzania e in Mozambico sono dimezzati, fate voi un po’ di conti per capire quando ne parleremo come dei mammuth...

INDIRIZZO SEGRETO. Chi salva una zanna, salva l’umanità: «Fin da bambino volevo difendere gli animali e la passione m’è rimasta», dice Crosta. Milanese, 47 anni, fu in Somalia che pensò ci fosse qualcosa di più urgente da fare. Lasciò un lavoro ben pagato sulle petroliere assalite dai pirati e fondò l’Elephant Action League, con Francesco Rocca e Gilda Moratti: «Noi interveniamo», dice la figlia dell’ex ministra ed ex sindaca Letizia, «dal momento in cui l’elefante è stato ucciso. Per scoprire dove finisce l’avorio. Per colpire i responsabili. Per fare la differenza sul campo e portare un po’ di coraggio nella protezione della natura».
Il coraggio, se lo sono dati. Gilda oggi organizza le azioni, vi partecipa, coordina a distanza. Andrea ha messo insieme i suoi studi di scienze naturali, un breve passato da carabiniere, la lunga esperienza con le società di sicurezza israeliane, poi ha formato una squadra d’una dozzina di persone. E alla fine s’è trasformato nello 007 dell’avorio: si nasconde, si maschera, filma, registra, apre società fantasma, usa sofisticate apparecchiature fuori commercio, solo adesso sta spendendo 160 mila dollari per un’indagine... E spesso viaggia con qualche cautela fra i suoi uffici di Los Angeles, di Seattle, di Washington. Abitando a un indirizzo segreto nelle campagne fuori Amsterdam: «Mia moglie pensa che io sia un po’ paranoico, ma lei non sa tutti i rischi del mio lavoro: meglio così!...». Per dire: un rapporto di Crosta del 2010, che spiegava come gli shebad somali si pagassero il jihad rivendendo l’avorio di contrabbando, finì in un discorso di Hillary Clinton. E fu oggetto di critiche, attacchi, minacce: «Si toccano interessi enormi, gente pericolosa. Ma il sospetto che il terrorismo islamico viva di questi traffici è sempre lì: come mai i ghepardi ammazzati in Somalia passano per lo Yemen, li commerciano sotto le bombe, in un Paese come quello dove non c’è una nave che s’azzardi ad attraccare?». Crosta non s’occupa solo d’elefanti e rinoceronti: «Abbiamo creato WildLeaks, uno spazio per chi non si fida delle polizie locali e vuole fare whistleblowing, denunciare i crimini dell’ambiente senz’andarci di mezzo. Noi indaghiamo, giriamo tutto a chi deve arrestare e far condannare. Proprio ieri, m’è arrivata la segnalazione d’un traffico d’orango e di gibboni dalla Thailandia a Dubai, via Oman. Con tanto di nome e telefono di chi riceverà il cargo clandestino! Sono cose che danno molto fastidio, ovvio, perché smascherano le complicità dei governi. Qualche tempo fa un ministro africano ha preteso da alcune ong l’impegno scritto a non collaborare con noi, pena l’espulsione dal Paese. A metà novembre, si processa all’Aja il governo vietnamita che permette lo scandalo a cielo aperto di Nhi-Khe, un villaggio fuori Hanoi che fa da borsa mondiale del corno di rinoceronte. E quando sono andato a parlare con una deputata di Hong Kong? L’ho messa davanti a quel che avevo scoperto sul traffico, le ho mostrato i video, le ho chiesto di prendersi la responsabilità. Niente. Un muro. Si capisce: Hong Kong è il più importante hub mondiale del traffico di specie animali».

LE MANI CHE TREMANO. Ebony and Ivory. O bianco o nero. La difesa dell’elefante non ha mezze tinte, e a volte è a tinte forti. Crosta non gira armato, ma gli farebbe comodo: «È un lavoro in cui spesso s’improvvisa, ci s’adatta alle situazioni...». Nel film, a un certo punto si vede quando il detective italiano va a infiltrarsi in un meeting di trafficanti di Pechino. Pieno di fili come il Johnny Depp di Donnie Brasco: «Mi presento nei panni d’un mercante italiano di corallo rosso: io coi microfoni sotto i vestiti, un’investigatrice cinese con un obbiettivo nascosto nella borsetta». Una camera ben poco candid: «Col boss, iniziamo la trattativa. Parliamo a lungo di rinoceronti e di farfalle rare, pesiamo l’avorio, beviamo il tè e scherziamo per ore. Quel che si fa di solito. Finché non succede qualcosa. E qualcuno di loro non s’accorge della strana borsetta...». È un momento di terrore: «Io lo capisco subito, quando si mette male. Infatti il boss ordina di chiudere le porte, vuole spiegazioni: che cos’è quella videocamera? È più spaventato che arrabbiato. Teme che siamo poliziotti: se lo fossimo, per lui sarebbe la fine, ma forse lo sarebbe anche per noi. Che faccio? Prendo tempo: con una scusa vado in bagno e mi tolgo tutto, nascondo nei calzini la scheda di memoria. Poi torno e salvo il salvabile: lo rassicuro che abbiamo registrato, sì, ma solo per paura di fregature, perché in Cina m’hanno già imbrogliato due volte, faccio l’italiano un po’ maneggione e un po’ pasticcione, cito amici importanti che possano incutere timore… Alla fine, mi mollano. Non so come ho fatto a cavarmela. Ricordo ancora quanto mi tremavano le mani». La caccia ai cacciatori ha inizio, c’è scritto sulla locandina del film. Ma non è che ad Andrea quella frase piaccia molto: «La caccia è già arrivata alla fine. Bisogna fare presto, il tempo rimasto è poco». Ultimi barriti dalla savana.