Veronica Tomassini, Il Fatto Quotidiano 4/11/2016, 4 novembre 2016
SAN LEONE, NEL REGNO DEL “CAPO”
Ecosì la città ascolta il capo. Abbassa le saracinesche in corso Indipendenza. Perché lo ha chiesto il capo. San Leone è un quartiere difficile, dentro sparisce l’ambizione da mitteleuropa che a brani Catania ha preteso di esibire.
Non bastano i caffè concerto, l’Università, un sindaco come Bianco, quello che qualcuno ha pensato illuminato, nei primi anni 90 almeno, per restituirla diversa da un piccolo paese del palermitano, da una piazza di Paternò dove si ferma la processione e si rispetta il codice muto degli inchini, come a Nola, come a Corleone, l’irrevocabile appuntamento con un senso di religiosità arcaico che ereticamente propone il suo linguaggio oscuro e che però bisogna solo intendere. Catania fa lo stesso. La figlia di un commerciante confida al cronista: “Purtroppo non possiamo rischiare”. Rischiare, ha detto, non resistere, non obiettare.
Il verbo sfugge come una verità covata in seno. Nel senso: cosa dobbiamo fare? Gli eroi? Facile parlare. Dunque il padre ha dovuto chiudere, giovedì, tutto il giorno, come gli è stato ordinato. In corso Indipendenza c’è il Palacatania, inaugurato per le Universiadi del 1997, il palazzetto dello sport e dei mega concerti. Dei musical. Delle partite di basket di serie A. Un simbolo certamente: San Leone, il quartiere, non è solo edilizia popolare. Malavita. No, il boccaporto verso un accettabile ordine sociale passerebbe da lì. Chiuso anch’esso, una specie di vessillo del quartiere, l’emancipazione, il mondo, possiamo vederla così. A San Leone dopo la guerra deportarono i trentamila occupanti di San Berillo. Oggi i residenti sono ventimila.
Questo mondo ha le sue regole. Perché è un mondo. Chi vuole la sovversione è un pazzo o un neofita senza memoria. La solita ottenebrante fatwa siciliana. È un loop eterno. Poi ci sono gli anziani, sono i custodi del lutto della storia siciliana, azzardiamo. Una storia fatta di martiri o altrimenti di uomini ai quali è stato strappato il nerbo risolutamente, la cui tristezza sovrasta un dogma irreparabile: nessuno conosce la pesantezza e il tedio di essere siciliani se non i siciliani.
Gli anziani scuotono il capo con una lenta veemenza. Uno dice: “I negozi chiudono per rispetto”. Non c’è stata forzatura, dicono gli anziani. Un altro aggiunge: “È stata un’iniziativa spontanea”. Altro dogma irreparabile: nessuno conosce l’uso delle parole grevi meglio che i siciliani, come sottrarne a poco poco, fino a renderle monche, fino al mugugno.