Fabio Mini , Il Fatto Quotidiano 2/11/2016, 2 novembre 2016
L’ERRORE FATALE DEL CALIFFO: TRADIRE GLI “AMICI” SUNNITI
Mosul è praticamente presa, ma non sono finiti i combattimenti e ci saranno rastrellamenti casa per casa ancora per diversi giorni. Tuttavia il problema di Mosul non è mai stato un problema militare. Le forze che nel 2014 misero in fuga l’esercito iracheno a difesa della città erano poco più di mille combattenti ed agirono in meno di una settimana.
Lo strabiliante successo di quell’operazione, e la non insolita fuga delle truppe irachene, non furono dovuti al mero conteggio delle forze o alla supremazia delle tattiche di combattimento, ma all’impopolarità delle truppe irachene di stanza nella città. Erano forze prevalentemente sciite e furono accusate di aver perpetrato crimini e abusi contro i civili nella maggioranza sunniti. Così il successo iracheno in quest’ultima battaglia di Mosul, giunto dopo mesi di indugi, conflitti fra forze alleate, cattiva gestione delle forze e pessima gestione del morale, non si spiega con il semplice bilancio delle forze. Oltre 120.000 uomini armati di tutto punto e sostenuti da forze aeree imponenti e apparati d’intelligence efficaci non potevano soccombere di fronte a tre-cinque mila uomini asserragliati in una città abitata da un paio di milioni di abitanti ostili usati come scudi umani. Ma i numeri valgono più o meno del loro valore nominale a seconda dell’ambiente. A Mosul sta succedendo ciò che era successo a Falluja. Un jihadista dell’Isis arrivato a Mosul dopo la sconfitta di Falluja aveva scritto ad un “saggio” islamico : “Alcuni di noi hanno raggiunto Mosul altri no. Ma gli stessi errori che abbiamo commesso a Falluja li stiamo commettendo qui, giorno dopo giorno.
Sono i maltrattamenti nei confronti della popolazione, l’abbandono delle strategie più appropriate e il dilagare dell’ingiustizia. Se vogliamo che la situazione cambi dobbiamo ripensare le nostre azioni e i nostri errori e questa revisione deve partire dai più alti livelli”. L’Isis sapeva che sarebbe finita così e non ha fatto niente per evitarlo. C’è da rifletterci. Mosul è una città a maggioranza sunnita che ha sempre visto gli sciiti come degli assetati di vendetta.
Con il governo iracheno a guida sciita del dopo guerra, i sunniti di Mosul hanno identificato il governo e le istituzioni federali del nuovo stato iracheno con gli sciiti. E ne avevano paura anche perché sapevano benissimo cosa avevano fatto loro durante e dopo il regime di Saddam Hussein. Fino a pochi mesi fa i sunniti di Mosul vedevano nel governo di Baghdad una minaccia più grave di quella posta dall’Isis. Ma col passare del tempo e la pesante occupazione dell’Isis, la situazione di Mosul è talmente peggiorata che molti hanno cominciato a pensare ciò che era impensabile solo due anni fa: meglio il pericoloso regime sciita di Baghdad piuttosto che l’Isis. Eppure, non c’è stata alcuna rivolta popolare contro l’Isis, e nessuna resistenza al loro regime.
I sunniti, sciiti, turkmeni e curdi di Mosul hanno preferito tacere, subire e fare da scudi umani piuttosto che reagire come qualunque popolo oppresso avrebbe fatto. Forse non hanno avuto l’opportunità. Forse non hanno potuto superare le divisioni etniche e religiose.
Di sicuro non hanno avuto una guida intelligente che indicasse cosa fare. Di certo non sono stati inattivi per codardia perché sapevano benissimo che in un caso o nell’altro avrebbero subito pesanti ritorsioni e vendette. Le prime dall’Isis stesso che, sconfitto, si sarebbe sentito tradito, poi da tutti gli altri che entrando in città li avrebbero martoriati per una ragione o per l’altra. Sapevano che non sarebbero stati “liberati” da nessuno e che non avevano via di scampo. Potevano solo sperare che qualcuno, da Allah agli americani, provvedesse a contenere le vendette incrociate o che proprio dalla commistione dei tre gruppi scaturisse la sicurezza di tutti.
La presa di Mosul è stata favorita dalla disgregazione interna dello stesso Isis, da quella revisione auspicata dai combattenti e niente affatto recepita dai leader. Purtroppo, Mosul non rappresenta soltanto il dramma di una popolazione divisa costretta a rassegnarsi a ogni regime e sopruso; è anche e soprattutto il dramma di una città, un paese, uno stato e una confederazione in balia di forze esterne. La battaglia di questi giorni è destinata a ridisegnare gli stessi confini internazionali dell’ Iraq e dell’ intera area. Cosi chiede la Turchia, e così pensano tutte le nazioni che hanno combattuto in Iraq e Siria . La preda non è mai stata l’Isis. Domani i jihadisti superstiti si trasferiranno in Siria, portandosi al seguito tutti quelli che con la scusa di combatterli vogliono spartirsi anche quel paese. Poi sarà trasformata in altra sigla dal padrone di turno o da un nuovo schema di potere. Mosul è importante. Il dopo-Mosul ancor di più.