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 2016  ottobre 31 Lunedì calendario

SE “QUESTO È KAFKA?”, SIAMO FORTUNATI AD AVERLO INCONTRATO

Chissà chi era quel signore di nome Franz Kafka che compare nei registri cittadini di Berlino del 1924, per poi sparirne dopo due anni e per sempre, proprio mentre lo scrittore Franz Kafka lasciava la città per ritirarsi nel sanatorio dove morirà. E chissà chi era quel signore che scrisse a Kafka disperato di avere avuto la vita rovinata dalla Metamorfosi, che aveva regalato a sua cugina, la quale l’aveva passato a sua madre e a sua sorella senza che nessuna di loro riuscisse a capirlo, e ora lo tormentavano perché spiegasse a tutte cosa significava, e nemmeno lui lo capiva. E i due bambini davanti a una vetrina della biblioteca di Praga che confabulavano sul peccato e la colpa mentre passava Kafka, che si fermò a ascoltarli.

Un mondo popolato di doppi di Kafka, comparse, personaggi in situazioni incongruenti e comiche che contribuiscono al mito della sua biografia sfuggente è quello del libro di Reiner Stach Questo è Kafka?, appena uscito per Adelphi.

Tra reperti, calligrafie, coincidenze, foto di gente che ha sfiorato l’esistenza, l’autore raccoglie con una specie di ostinata e innamorata febbre da scavo i pochi e contraddittori dati biografici che Kafka ha lasciato nel mondo. Hotel, case di campagna popolate dall’esercito subdolo dei topi, bambine a cui paga la giostra, prostitute dei bordelli di Parigi, medici tromboni, uomini-maiali e altri che si vantano delle loro imprese erotiche, bugie (non più di due-tre: era incapace di mentire), il muco espettorato e sputato dal balcone di una casa berlinese (e sotto, a insaputa di Kafka, due bambine inorridite, che lo racconteranno decenni dopo), l’orrore per la carne, la scrivania in un disordine teatrale; e, dopo tutto questo, è sempre meno chiaro, oppure chiaro nel modo inquietante in cui sono chiare le cose nei sogni, chi fosse Kafka. Forse è l’uomo alto che compare di spalle in una fotografia scattata a Brescia nel 1910 da chissà chi, durante un’esibizione di volo a cui si recò insieme a Max Brod (l’amico incaricato di bruciarne i manoscritti dopo la morte). O quello in completo chiaro, le orecchie sporgenti, il capo leggermente reclinato, che appare in una foto scattata a Merano, nello stesso periodo in cui lui era lì a tentare di curarsi dalla tubercolosi. Quando pare di afferrarlo, di toccarne la natura angelica e terribile, Kafka si allontana, come il castello del suo romanzo più ipnotico; la realtà-Kafka si sfarina, la sua immagine sfarfalla, è una cosa e anche il suo opposto (come il colore dei suoi occhi: scuri o castani secondo sette testimoni, grigi secondo Brod, grigio-azzurro scuro sul passaporto). Quello che Kafka ha fatto al mondo è paragonabile all’azione delle supernove che esplodono nelle galassie: una piegatura, un’alterazione delle normali coordinate spazio-temporali. Neanche la geografia di Kafka corrisponde a quella reale. Il Castello non si trova in nessuna città esistente, il tribunale di solai e sottotetti asfissianti del Processo non esiste in nessun luogo di questo mondo (eppure in tutti). Kafka ridisegna la realtà e contraddicendola ne ottiene una più esatta e più vera. Il mondo kafkiano, come l’aggettivo “kafkiano”, esisteva prima di Kafka; ma solo lui gli ha dato nome e voce. Così resta la sua figura in quella intercapedine tra la realtà e qualcos’altro, dove lo videro i due bambini davanti alla vetrina: la bambina dice che quando si confessa alle sue spalle arriva un angelo, mentre quando mente dietro di lei c’è il diavolo, e voltandosi di scatto dice al maschio: “Vedi? Non c’è nessuno”, al che anche il bambino si volta di scatto e, scorgendo Kafka alle sue spalle, dice: “Visto? Dietro di me c’è il diavolo”.