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 2016  ottobre 31 Lunedì calendario

LA BALLATA DEI LEHMAN CON I SOLDI DEGLI ALTRI

Centonovantasette miliardi andati in fumo in Borsa. Otto volte la manovra economica appena varata dal governo Renzi. Più gli aumenti di capitale e i salvataggi. Per le banche, e quindi per i nostri portafogli, il conto di questi primi nove anni di Grande Recessione è devastante. In quel maledetto 2008 abbiamo perso, per sempre, un’innocenza che forse non abbiamo mai avuto. L’immagine plastica del crack sono i dipendenti licenziati dalla Lehman, che escono dal grattacielo della grande banca d’affari appena fallita con gli scatoloni in braccio. Il sogno americano diventato un incubo, e rinchiuso dentro un cubo di
cartone. Poche cose, per un viaggio verso un incognito nulla che, da allora e a vario titolo, ci accomuna tutti. Non solo sul piano economico e politico, ma anche su quello esistenziale e morale.
Quando la finanza si è mangiata l’industria? Perché siamo affogati nel gorgo dei debiti? Quanto pesa l’avidità dei banchieri, e quanto la cecità di noi clienti? Come sono potute esplodere tante disuguaglianze? Dov’e lo “Stato regolatore”, di fronte alla Mano Invisibile del mercato? Nulla è più come prima, lo sappiamo e lo viviamo ogni giorno sulla nostra pelle. La letteratura della Crisi è sterminata. Ma chi l’ha indagata di più, e meglio, è Stefano Massini. La sua Lehman Trilogy di due anni fa (una sintesi strana ma perfetta tra sceneggiatura, saggio e racconto) è stata un evento, non solo drammaturgico, che non per caso ha acceso l’ultima fiamma di talento del compianto Luca Ronconi. Ora Massini torna sul luogo del delitto. Qualcosa sui Lehman ricalca le orme della Trilogia, ma la amplia e la arricchisce con nuovi capitoli e nuove digressioni, trasformando definitivamente il testo teatrale in un romanzo epico.
I Lehman raccontati da Massini, come i Karamazov di Dostoevskij nella seconda metà dell’Ottocento o i Buddenbrook di Mann ai primi del Novecento, sono i protagonisti di un’epopea familiare che ruota intorno a tre fratelli ebrei, ai figli e ai nipoti, ma la trascende in una dimensione simbolica infinitamente più grande. La parabola dei Lehman è l’epitome del capitalismo occidentale, della finanza globale del Terzo Millennio, che cresce a dismisura, sforna denaro, lo mangia, lo vomita, lo rimangia, e finisce per divorare se stessa. È la filosofia del nostro tempo, e del nostro universo economico irrimediabilmente banco-centrico. Il primo dei tre fratelli, Henry, sbarca a New York l’11 settembre 1844 (gli altri due lo seguiranno poi). Arriva da un villaggio della Germania, dopo una lunga traversata in mare a bordo del Burgundy. Da lì, materialmente, i Lehman entrano «dentro il carillon chiamato America». E da lì, idealmente, comincia il grande Libro del Capitale moderno, come il grande Libro della civiltà contemporanea comincia con lo sbarco del Mayflower dei Padri pellegrini. Un segno del destino, perché quello che noi borghesi dell’emisfero boreale ci siamo abituati a chiamare “progresso”, in un modo o nell’altro, ha sempre inizio da una nave.
La ballata dei Lehman, che è anche la nostra ballata, attraversa 160 anni di storia. La piccola storia degli uomini, che incrocia la grande storia del mondo (dalla Guerra di Secessione ai due conflitti mondiali, dall’assassinio di Kennedy al Vietnam). Come nella Trilogia, la narrazione abbraccia tre generazioni, alle quali corrispondono tre fasi della vita della Lehman e dunque tre stadi evolutivi del capitalismo. La prima fase, Tre fratelli, è quella classica, pionieristica, dove lo spirito d’intrapresa di una famiglia askenazita porta i suoi protagonisti a fare ciò che sanno fare meglio: tuffarsi nel vasto mare degli affari. È lo stadio in cui il denaro è ancora importante per il suo valore d’uso, e serve a scambiare merci: cotone, petrolio, caffè.
La seconda fase, Padri e figli, coincide con la modernizzazione industriale: il sistema bancario diventa strumento per finanziare le infrastrutture, a partire dalle ferrovie. Emanuel fiuta la svolta che consentirà alla Lehman di avere «il mondo in palmo di mano: fare, quindi esserci, quindi osare, osare, osare...». Wall Street diventa il luogo dove piazzare obbligazioni, non solo ad altre banche, ma anche alla gente comune. È l’epifania della finanza di carta: il denaro comincia ad allontanarsi dal prodotto, e ad assumere la forma eterea di un fissato bollato. È l’esordio dell’economia del debito, che Philip spiega a suo padre un secolo prima del collasso dei mutui subprime: «Potremmo azzardare che il sistema dell’alta finanza ha solo da sperare che la gente non paghi i debiti: un prestito che fila liscio è certo un buon affare, ma un debito ceduto a un terzo è un’occasione eccezionale... ».
Si arriva così alla terza fase, L’Immortale, nella quale il denaro compie l’ultima metamorfosi: diventa pura astrazione, merce esso stesso, utile solo a creare altro denaro. Attraverso questo processo di contemporanea sacralizzazione e “spersonalizzazione”, il denaro si suicida, generando la Grande Crisi del ’29. E qui Massini ha la sua intuizione più originale: il gigantesco falò delle vanità di “quegli” anni, così sorprendentemente uguale al fuoco di “questi” anni, nasce certo dalla fame di ricchezza degli speculatori che abitano casa Lehman. Dalla fame dei Sigmund («chi gli sta accanto ha iniziato a sperimentare sulla sua stessa pelle i frutti di un palestra disumana, improntata al cinismo più bieco...»). Dalla fame degli Arthur («ormai non concepiva niente se non come parte di un sistema di costi-ricavi dice tutto, perfino l’aria, altro non era che una voce contabile iscritta nel libro mastro della Suprema Cassa...»).
Ma la fenomenologia di Gordon Gekko e Jordan Belfort non basta a spiegare i collassi finanziari di ieri e di oggi. Nel mare dove hanno nuotato i Lehman ci sono stati e ci sono tanti pesci piccoli che si sono illusi di diventare squali, senza averne il fisico. Quelli che hanno creduto a un miracolo impossibile, chiedendo a Philip «Mister Lehman, ho 10mila dollari nel mio vecchio borsello, ma vorrei che diventassero almeno 20mila, mi hanno detto che voi moltiplicate i soldi, e allora in che cosa posso investire?». Quelli che perderanno tutto. Nel 1929 come nel 2008 o nel 2015. Con i “titoli-salsiccia” della Lehman, o con le azioni di Banca Etruria. Il Grande Crack, in ogni tempo, nasce da questo patto scellerato tra “i lupi di Wall Street”, sempre più spregiudicati e ricchi, e gli agnelli sacrificali del ceto medio, che provano a rompere il suo asfittico perimetro di classe cullando «il sogno di sempre: avere subito e pagare dopo». I Lehman, come tutti i banchieri della terra, non fanno altro che vendere quel sogno alla moltitudine anonima in cerca di status. Lo fanno — come spiega il direttore addetto al “lunch del lunedì” tra Bobbie Lehman e i partner — inventando il marketing, e raccontando al popolo che «chi compra ci guadagna e chi vende sta perdendo... solo chi compra vince la guerra e siccome siamo tutti in guerra chi compra sopravvive ». Dunque Bertolt Brecht non aveva poi così ragione, quando crocifiggeva solo i banchieri in Santa Giovanna dei macelli.
Nella ballata dei Lehman orchestrata da Massini un giro di pista tocca anche a noi, poveri cristi. Vittime del credito bancario, ma alla fine anche carnefici di noi stessi e della nostra ansia da “prestazione sociale”. La carne è debole, in alto come in basso. E su questa debolezza prosperano, consapevolmente, i vecchi e i nuovi Lehman.
Questa loro storia riflette un mutamento di paradigma religioso. I Lehman che a metà Ottocento affiggono la targa al 119 di Liberty Street sono un nucleo familiare compatto, nutrito dai versetti della Torah. I Lehman che nel 1980, alla vigilia del decennio dorato degli yuppies, cedono la maggioranza ad American Express, sono un pulviscolo familiare disilluso, transitato a un’altra religione. Dal Talmud allo Sherman Act. Dall’ebraismo al capitalismo. Il passo è più breve di quanto si possa immaginare. I riti ebraici finiscono sopraffatti dai miti laici. Ormai un Lehman può morire, e la banca può limitarsi a ricordarlo con «tre minuti di silenzio », perché «chiudere per lutto equivale a un danno di due milioni ». Fin qui arriva la secolarizzazione indotta dalla fede nel dio nuovo. Non più Jahve: Mammona.
La trasformazione non è priva di tormenti. Il botta e risposta tra Philip e il cugino Herbert è magnifico: «Cos’è il mondo, se non mercato? Gli esseri umani non possono vivere senza denaro... Non esiste un solo aspetto dove non regni il vendere-comprare. Dunque non capisco, cos’è che non ti piace?» «Ti ostini a non voler capire il punto... tu non usi il tuo portafoglio personale, usi soldi non tuoi, ma della gente... Non ci nascondiamo: ci danno i loro soldi perché tenerli in casa non è sicuro e noi difatti non glieli chiudiamo in cassaforte... dimmi cos’è se non una commedia: quei soldi che loro non vogliono rischiare non li usi, tu, per puntarli a poker?» «Non mi sono mai seduto a un tavolo verde...» «Puntare sulle azioni non è la stessa cosa? Cosa fate a Wall Street, se non giocare?».
Ma indietro non si torna. L’epilogo è scontato. È proprio quel “gioco” che porta i Lehman alla bancarotta, il pianeta nel baratro e noi, lontani parenti d’Oltreoceano, a pagare appunto quel “conticino” da quasi 200 miliardi. E non è ancora finita. Volendo allargare l’orizzonte spazio-temporale, ci sarebbe da chiedersi dov’erano gli arbitri, mentre il sistema bancario truccava le partite dell’ultimo ventennio, da Cirio a Parmalat, da Popolare di Lodi ad Antonveneta, da Montepaschi a Carige. Ci sarebbe da chiedersi come riscrivere le regole, e come farle rispettare da tutti i giocatori in campo. Ma a questo, giustamente, Massini non arriva. Sarebbe materia per la politica, se ancora avesse dignità di parola. Sarebbe materia per la sinistra, se solo avesse un suo “racconto della crisi”.