Paola Manciagli, Oggi 26/10/2016, 26 ottobre 2016
ECCO LA VERITÀ SU MIO PADRE, CALUNNIATO ANCHE DOPO MORTO– [Jacopo Fo] Gubbio (Perugia), ottobre Così Jacopo Fo ricorda suo papà Dario: «Era tosto
ECCO LA VERITÀ SU MIO PADRE, CALUNNIATO ANCHE DOPO MORTO– [Jacopo Fo] Gubbio (Perugia), ottobre Così Jacopo Fo ricorda suo papà Dario: «Era tosto. Quando avevo 18 anni, mi disse: “Fammi 30 maschere, mi servono tra 45 giorni”. “Ma io non sono capace di farle”. “Impara”. Ci riuscii, perché in fondo mi aveva dato fiducia. Ma il suo metodo era questo, non mi ha mai insegnato come fare le cose». Dario Fo, il grande teatrante e premio Nobel, è scomparso da soli otto giorni. Dopo settimane al suo capezzale al Sacco, dopo il funerale laico sul sagrato del Duomo sotto una pioggia torrenziale, Jacopo è corso via da Milano con la moglie Eleonora, per rifugiarsi nei boschi umbri dove sorge il suo centro culturale Alcatraz. Con Oggi torna sui suoi ricordi, e risponde con cuore e dignità per la prima volta a tutti quelli che hanno attaccato la memoria di suo padre. A cominciare dal passato nella Repubblica di Salò. Hanno detto che Dario Fo in gioventù era un fascista convinto: «Tutte calunnie. Mio padre all’inizio ci provò, a ribellarsi a queste accuse...». Il processo stabilì che lo si potesse definire «repubblichino» e «rastrellatore». «È una cosa priva di senso. I suoi erano tutti partigiani, se avesse fatto il rastrellatole lo avrebbero ammazzato. Mio nonno era un tenente del Cnl, faceva scappare gli ebrei in Svizzera assieme a mio zio, che è pure finito in un campo di concentramento. Mia nonna ricuciva i “gappisti”, quelli che facevano le operazioni di commando in città. Uno dei miei primi ricordi è Leo Watcher (il partigiano di origine polacca che poi fondò il teatro Ciak, ndr) che mi prende in braccio e mi dice che nonna gli ha salvato la vita... Io sono cresciuto respirando quell’aria lì, leggevo libri sui lager e sul Vietnam, a 11 anni vendevo l’Unità sulla spiaggia, mi facevo i chilometri». Suo papà le raccontò mai cosa accadde in guerra? «No. In casa si scherzava, ci si abbracciava anche, ma quel tipo di condivisione lì, mai. Ne parlò ne Il paese dei mezaràt. Fu costretto ad arruolarsi come repubblichino. Se avesse disertato avrebbe attratto l’attenzione sull’attività sovversiva della famiglia. Mia nonna gli disse: “Te, Dario, sei bravo a dipingere, usa questo per tirarti fuori”. Lui iniziò a fare ritratti ai compagni di camerata, arrivò a farne uno al colonnello, che lo prese in simpatia e lo mise a dipingere chiese. Quando la situazione peggiorò, trovò l’escamotage di prendere tutte le specializzazioni, paracadutista, guastatore... Continuava a fare corsi per non combattere. Poi la situazione precipitò, doveva andare in Germania, era sull’ultimo camion della colonna, ma si spaccò il semiasse. Si procurò dei documenti falsi e si diede alla macchia. Potete dirmi che sparava delle balle, ma io ricordo le testimonianze dei miei parenti». Lei ha tenuto un discorso molto commovente ai funerali. Ma qualcuno ha scritto che in piazza c’erano «solo quattro gratti»... «Perché molti erano sotto i portici, visto che pioveva. E tanti lo hanno seguito in tv. Ho cercato di far capire che il lavoro di mio padre era indirizzato, proprio come curiosità culturale, a quando la gente riesce a fare qualcosa di impossibile. Se smettiamo di pensare nel modo che ci hanno suggerito, che una fortezza impenetrabile sia veramente invincibile, allora possiamo davvero trovare un’idea assurda e geniale che rovesci la situazione». Hanno scritto che suo papà «giocò a fare il ribelle stando dalla parte nella quale tirava il vento», che lasciò Canzonissima 62 o scelse l’impegno politico per farsi pubblicità e avere vantaggi... «E quale sarebbe il vantaggio che ha avuto? L’edizione di mio padre e mia madre fu la più seguita della storia di Canzonissima, stavano guadagnando una valanga di soldi con i Caroselli, e ne avrebbero presi solo di più se si fossero adattati alla censura. Invece sono stati messi al bando, se debuttavano con uno spettacolo nessuno ne parlava. E poi tutti dimenticano che nei loro sketch attaccarono la mafia, e quella minacciò di sgozzarmi in una lettera scritta con sangue umano, ricevemmo pure una piccola bara bianca. Avevo sette anni, andai a scuola scortato da due poliziotti per mesi. Vivevamo in una situazione di paura costante, le macchine danneggiate fuori dal teatro, le bombe molotov in casa...». Sua mamma, Franca Rame, fu aggredita da alcuni fascisti. «Quello fu il culmine della persecuzione, nel ’73. Fu una cosa di una violenza spaventosa, mostruosa. Non fu solo violentata, fu torturata con le lamette, le sigarette accese... Tornò a casa che era ridotta in uno stato allucinante. Io c’ero». Nemmeno di questo parlaste? «Non era nel costume culturale dell’epoca parlare di certe cose. Mia madre è stata devastata. Per anni, siccome mentre la massacravano tenevano la radio a tutto volume per non fare sentire le sue urla, se accendevi la radio lei... lei... Subire quell’orrore è una cosa che ti lascia dei segni». E suo papà come reagì? «Fu di una rigidità, di una durezza mostruosa, non diede a vedere nulla del dolore che provava. Un atteggiamento da militare: anche se ti sparano addosso, tu continua a combattere. Neanche a me è stata data la possibilità di fare diversamente... Ma non è possibile mantenere la sanità mentale davanti a un colpo di questo genere, puoi mantenere giusto la forma esterna. Io ovviamente sclerai. Credo sia difficile capire cosa significhi accudire una persona che poi la notte urla dal terrore... Volevo prendere un’ascia e ammazzarli tutti. Poi mi sono detto che sarebbe stato un regalo troppo grosso. Chi fa una cosa del genere ha bruciato ogni sensibilità alla vita, non ha niente, gli spaghetti non sanno di niente, il tramonto non sa di niente, far l’amore non sa di niente. Io auguro loro di vivere fino a 110 anni». E poi com’è andata? «Mia madre riuscì a sopravvivere raccontando tutto in scena. Io passai la Maturità con un minimo di sufficienza solo perché non potevano tenermi, ero una minaccia all’ordine costituito. Sa, quando ti rapiscono tua madre e poi magari il preside ti richiama per qualcosa, tu te ne freghi. Con una quarantina di persone restammo in autogestione per un anno intero, facevamo corsi sulla famiglia, mostre di pittura, otto ore di attività al giorno. Ma in classe non ci sono mai andato». Alla fine la rabbia l’ha espressa in modo creativo... «Ma non ho superato quello che è successo. Se hai subito violenza hai sempre paura. Sai quant’è facile, quant’è stupido riuscire a distruggere la vita di una persona, e resti sempre con un livello di guardia che non è normale». Suo padre diceva: «Fai quel che vuoi e campi 100 anni». Lei sta riuscendo a seguire le sue passioni? «Relativamente. A un certo punto mi fu chiaro che l’ondata di sogni rivoluzionari era morta, che avevamo perso... Però avevamo cambiato la cultura, c’era un nuovo rispetto per i bambini, per la donna, e io decisi di lavorare su questo. Fondai Alcatraz pensando ai monasteri medievali, posti dove si elaborava la cultura. Ho fatto lotte enormi per introdurre il “parto dolce”, per rompere tabù sessuali, occupammo il ministero della Sanità perché la comico-terapia fosse ammessa nei protocolli ospedalieri, fino ad allora era vietato andare a far ridere i bambini con il cancro. Ora mi sono messo in testa di fondare una Città Verde per stimolare le persone a tornare ad abitare le campagne, per offrire possibilità diverse rispetto alle megalopoli, sperimentare un’altra economia, e magari recuperare un po’ della solidarietà spontanea che nasce in campagna». Lei ha compreso la spinta che ha animato suo papà: lui ha compreso lei? «Io credo di sì. Senza i suoi soldi Alcatraz non sarebbe nata, e nel tempo lui e mamma si sono resi conto che questo luogo coronava, anche fuori dal teatro, il lavoro e le battaglie di una vita». Paola Manciagli