Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  ottobre 27 Giovedì calendario

DIETRO LA LAVAGNA RENZI NON È SOLO


A dividere Roma e Bruxelles c’è una espressione latina: una tantum. Sì, certo, conta anche il decimale di punto che separa l’obiettivo italiano e quello della Commissione europea: un disavanzo pubblico pari al 2,3 per cento del Prodotto interno lordo (Pil) secondo il ministro Pier Carlo Padoan o del 2,2 per il commissario Pierre Moscovici. Sembra un’inezia, però vale un miliardo e 600 milioni di euro (basterebbe qualche sforbiciatina alla spesa...) che compromettono alcune promesse importanti sciorinate da Matteo Renzi guardando al referendum del 4 dicembre sulla riforma costituzionale. Ma la mosca al naso è saltata quando gli eurocrati hanno visto che metà della manovra per il 2017 è in deficit e l’altra metà è coperta soprattutto con misure straordinarie che non cambiano lo squilibrio di fondo tra entrate e uscite.
Su quasi 27 miliardi da reperire, ben 12 sono in disavanzo, cioè saranno assicurati stampando altri titoli di Stato, quindi peggiorando il debito. Quasi dieci miliardi dipendono da invenzioni estemporanee: tre dalla rottamazione delle cartelle esattoriali (e lo stesso ministro Padoan ha ammesso che si tratta di stime approssimative), 2,5 dal recupero della evasione Iva (buona fortuna!), due dalla nuova voluntary disclosure estesa al contante (anche questi aleatori perché dipendono dalla convenienza di chi tiene il contante nelle cassette di sicurezza) e 1,8 miliardi da rinnovo delle concessioni di telefonia per il passaggio al 5G. Ancor più allarmante è che 15 miliardi, quindi più della metà del ricavato, servono non a sostenere crescita e investimenti (il mantra ripetuto ossessivamente da Renzi), ma a scongiurare l’aumento dell’Iva e non per sempre, perché le clausole di salvaguardia vengono spostate in avanti di un anno. Vale la pena di ricordare anche un mini-taglio di 50 milioni alla cultura («Stiamo mettendo più risorse di sempre sulla cultura, e questo investimento è l’elemento chiave di svolta per il Paese» aveva detto Renzi appena quattro mesi fa).
Fatto sta che, secondo la Commissione europea, la legge di bilancio di quest’anno si regge su piedi di argilla, altro che «attenzione maniacale ai decimali» come sostiene il ministro delle infrastrutture Graziano Delrio.

L’Italia non è la sola, anzi. A Bruxelles stanno ancora esaminando nei dettagli, decimale per decimale, tutte le leggi di Bilancio e hanno preparato sei lettere per chiedere chiarimenti: oltre all’Italia sono indirizzate alla Francia, alla Spagna, al Portogallo, al Belgio e all’Olanda. Esattamente al lato opposto si colloca la Germania che ha raggiunto ormai da anni il pareggio tra entrate e uscite dello Stato, eppure invece di ricevere un encomio, anche la politica economica di Berlino suscita dubbi, perplessità e critiche.

La Francia è sotto procedura d’infrazione dal 2009, ma François Hollande nell’ultimo anno del suo mandato si è impegnato a far finire l’ingiustificabile exception économique. Il governo dovrebbe portare il disavanzo al 2,7 del Pil, mezzo punto in meno rispetto al 2016, tuttavia non ci crede nemmeno il centro studi del Crédit Agricole che non può davvero essere accusato di disfattismo. Il debito pubblico francese, anche se al 96 per cento del Pil, è al sicuro: l’agenzia Fitch ha confermato le due A con outlook positivo (l’Italia ha avuto BBB+ con outlook negativo).
Ma la crescita è fiacca, la disoccupazione troppo elevata, la spesa pubblica con il 54,6 per cento del Pil ha raggiunto una delle quote più alte della zona euro e preoccupa la tenace resistenza alle riforme. La nuova legge sul mercato del lavoro ha provocato rivolte in tutto il Paese. Mentre su Parigi pesa l’incognita elettorale. Se la destra postgollista vincerà le elezioni, come sembra probabile, ha intenzione di non rispettare il Patto di stabilità. Lo ha detto Nicolas Sarkozy (per lui non è una novità), ma persino l’eurofilo Alain Juppé intende sfondare il tetto, almeno nel primo anno. Altro che le scappatelle italiane.

In Portogallo, sotto tiro è il premier socialista Antonio Costa. Il Paese è uscito nel 2014 dal regime della trojka, durato tre anni, però secondo il Fondo monetario internazionale il cammino delle riforme si sta fermando. Le banche sono oberate dai crediti deteriorati (33 miliardi di euro su un Pil di 180 miliardi), mentre i costi per ricapitalizzare la Caixa controllata dallo Stato e salvare il Banco do Espirito Santo (4,4 miliardi di euro) hanno ingessato il bilancio pubblico. Il debito sul Pil, superiore al 127 per cento, è sostanzialmente fuori mercato e viene acquistato soprattutto dalla Bce. Se il suo rating fosse classificato peggio che «spazzatura», Mario Draghi non potrebbe fare più nulla. Il Portogallo, insomma, può dare fuoco alle polveri innescando una nuova crisi dei debiti sovrani. Anche per questo la Ue insiste nel chiedere una riduzione del disavanzo strutturale, come ciambella di salvataggio, a rischio di abbassare la crescita (prevista all’1,5) e peggiorare la disoccupazione che supera l’11.

La politica ha giocato un brutto scherzo anche in Spagna. Trenta mesi senza governo hanno paralizzato ogni scelta. La resa dei socialisti apre la strada a un nuovo gabinetto Rajoy che nasce, però, estremamente debole. La priorità non è la crescita perché l’economia viaggia al ritmo del 2,4 (previsioni per il prossimo anno condivise anche dalla Commissione), ma la disoccupazione rimasta ancora al 18 per cento. Ciò preme sulla spesa assistenziale e il disavanzo è destinato a restare, secondo Bruxelles, sopra il fatidico 3 per cento anche il prossimo anno. Il deficit strutturale (cioè al netto della congiuntura), formula magica usata dalla Ue per giudicare i bilanci pubblici, rimane tra il 2,5 e il 2,7 per cento. Dunque, per tornare nei ranghi il prossimo governo dovrà tirare la cinghia, ma con il Psoe che dà l’appoggio esterno, è davvero improbabile che pratichi l’austerità.

Il Belgio ha saputo meglio di altri cogliere la ripresa e aggiustare le finanze pubbliche. Anche se il debito pubblico resta al 106 per cento del Pil, la spesa è sotto controllo e i consumi privati sono aumentati. Perché allora la Commissione europea ce l’ha con Charles Michel? Il premier liberale guida un governo di centro-destra fortemente influenzato dai conservatori fiamminghi e si era impegnato a raggiungere il pareggio del bilancio nel 2018, ma l’ultima legge di bilancio non consente, secondo i guardiani della Ue, di mantenere la parola data. Pensioni e sanità, soprattutto, non sono sotto controllo nonostante le riforme promesse, confermando così la nomea del Belgio: l’«Italie sans soleil».

E i virtuosi olandesi che non hanno mai smesso di predicare e praticare l’austerità? Il problema dei Paesi Bassi non sta nei conti pubblici, ma nella debolezza di una economia prostrata da un rigore fiscale irragionevole che ha schiacciato i consumi. Intanto si è riformata una bolla immobiliare che non sarà certo come quella storica dei tulipani nel 1637, ma ha portato il 30 per cento delle famiglie «sott’acqua», cioè il loro debito è superiore al valore dell’immobile. I mercati finanziari hanno lanciato l’allarme, però il governo guidato dal liberale Mark Rutte è stato preso alla sprovvista. L’ironia della politica vuole che il ministro delle Finanze, Jeroen Dijesselbloem (laburista) sia oggi il cerbero dell’economia europea.

«Zwei Cappuccino im Monat», due cappuccini al mese: così i giornali popolari hanno battezzato la politica fiscale della Germania, strombazzata dal governo come la prima che taglia le tasse (6 miliardi di euro in due anni) dopo la grande crisi. Angela Merkel ha spinto il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble ad allentare le redini. Ne va del futuro del partito, la Cdu (Unione cristiano democratica) e delle sorti della Kanzlerin se (come molti prevedono) si ripresenterà alle elezioni nel settembre 2017. Ma la montagna ha partorito un topolino e i tedeschi, persino loro, sono ricorsi all’ironia. In realtà, si tratta di una questione molto seria: se Berlino non riduce le imposta e non aumenta le spese per consumi e investimenti, non ci sarà spazio di crescita per le economie dei Paesi che più esportano sul mercato tedesco a cominciare da Italia, Francia e Spagna. Tutto si tiene e persino il filotedesco Jean-Claude Juncker comincia a preoccuparsi davvero.