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 2016  ottobre 22 Sabato calendario

PUNTO V


Dai monologhi della “Vagina Warrior” Eve Ensler sono passati vent’anni: lo spettacolo ha fatto irruzione sulla scena off-Broadway nel 1996. Nel frattempo l’origine del mondo è diventata meno misteriosa. Charlotte Roche in Zone Umide (2008) ha sostenuto il diritto di non lavarsi, trovando meravigliosa ogni secrezione intima, le Pussy Riot hanno chiesto alla Madonna di diventare femminista, le artiste hanno rivendicato la visibilità di ciò che è sempre stato, per accordi non scritti, invisibile. Che sia l’ultimo tabù è evidente, basta pensare allo scandalo suscitato dall’installazione Dirty Corner di Anish Kapoor, star dell’arte concettuale, a Versailles: il suo tubo di ferro, lungo sessanta metri e alto dieci, subito ribattezzato “la vagina della regina”, è stato deturpato con Lo spray giallo da qualcuno che non gradiva. Ma è l’ora della rivincita, che la cosa piaccia no. A colpi di provocazioni, quella parola tabù entra nel rap, nel pop e persino nell’ultima, esilarante avventura di Bridget Jones (Bridget Jones’s baby). Mr. Darcy (Colin Firth), severo avvocato per i diritti civili, difende le ragazze di un gruppo punk rock femminista (eco delle Pussy Riot) che in tribunale urlano «Vagina al potere» e hanno come slogan “Mestruazione-Liberazione-Rivoluzione”, mettendo a dura prova il suo aplomb british.
Rihanna confessa: «Ho la fobia di avere la vagina profonda. Oddio, non posso credere di averlo detto! Per me è un problema. Se i maschi riescono ad arrivare fino alla fine, è come viaggiare nello spazio». L’elegante, colta e impegnata Emma Watson (Hermione Granger, la secchiona dei film di Harry Potter) racconta di aver scoperto il sito omgyes.com (niente a che vedere con gli organismi geneticamente modificati, ma con la contrazione di “Oh my god, yes”, riconoscibile grido di estasi femminile). Ha pagato un abbonamento di 40 sterline al mese e sta imparando molto sul piacere sessuale. «È caro», ammette, «ma ne vale la pena». È li che bisogna iscriversi per sapere tutto, dall’abc al master: ogni aspetto della fisiologia è analizzato e illustrato in pratica. Nell’app si sfiora una vagina interattiva e il tablet vibra se tocchi i punti giusti.
Insomma, il tempo del silenzio è finito, con una voglia, a volte estrema, di mostrare. Dice Jamie McCartney, autore di The Great Wall of Vagina, opera composta nel 2011 da quattrocento calchi in gesso di vulve: «I genitali femminili sono stati da lungo tempo una fonte di fascinazione, recentemente di celebrazione, ma generalmente di confusione». L’artista lussemburghese Deborah De Robertis, nel 2014, al Museo d’Orsay di Parigi, ha posato nuda davanti alla tela L’Origine du Monde di Gustave Courbet, con l’Ave Maria di Schubert come sottofondo. Non tutti hanno capito la performance. Vivienne L’Amour ha lanciato il vagin painting. Si dipinge e si sdraia su sulla tela: l’opera cambia in base alla pressione, al movimento del bacino e al colore. Morgana Orsetta Ghini dedica alla vagina le sue sculture. Il marmo, assicura, conferisce un aspetto più morbido, mentre il ferro mette in risalto l’aggressività. Alcune sono piccoli oggetti preziosi, orecchini, ciondoli e anelli. La cantante Arisa ne ha uno e c’è chi l’ha notato a Sanremo. La nuova frontiera è la tecno-arte. Arvida Bystro, fotografa, regista, ex modella, lavora su un’estetica tutta femminile. In collaborazione con Maja Malou Lyse ha messo in scena alla Tate Modern di Londra la performance Aerobica del selfie stick, dove l’autoscatto diventa quasi un cerimoniale per prendere coscienza della propria bellezza: un clic per ogni inquadratura (le partecipanti si sono divertite moltissimo).
E il linguaggio della musica? Certo, è cambiato. Oggi le artiste scrivono testi espliciti e/o allusivi. La popstar Lana Del Rey canta: «La mia vagina ha il gusto della Coca Cola». Madonna parla di Holy Water, acqua santa: «Baby vieni qua, scendi giù e bevi il mio liquido prezioso», invita. Rihanna in Birthday Cake, punta sulla pasticceria: «Non è neanche il mio compleanno/ Ma lui vuole leccare via la glassa/ So che lo vuoi nel peggiore dei modi/ Non vedi l’ora di soffiare le mie candeline. Lui vuole la torta-torta-torta». La vuole anche Joe Jonas, ansioso di mangiarla «vicino all’Oceano». Il pezzo, realizzato con la nuova band DNCE è Cake by the Ocean, grande successo anche grazie al video con la supermodel Gigi Hadid, ormai sua ex fidanzata. Testo: «Ti vedo leccare la glassa dalle tue mani/ Voglio un altro assaggio, ti prego...». Metafora molto diffusa, quella della torta, al punto da far fare al settimanale francese L’Ob una serie di riflessioni sulla «vagina commestibile». Iggy Azalea, Nicki Minaj, Azealia Banks, le inquiete ragazze delle hit musicali e Lady Saw, regina della dancehall, non hanno problema a usare definizioni esagerate, suggerendo di esplorare un territorio «più umido dcll’Amazzonia», di «assaporare l’istante», bere a una fonte «dolce e salata». Non più maledetto, il sesso femminile è goloso, è, parafrasando i Beatles con la loro lisergica Lucy, “Pussy in the sky with diamonds”.
Eppure è del tutto scomparso il “gesto della vagina”, le mani unite a rombo, l’arma con cui le donne sono scese in piazza negli anni 70 gridando il famoso “Io sono mia”. In quel gesto femminista molte si sono riconosciute, e per un decennio ha trovato espressione nella politica, nel cinema, nella letteratura, nel teatro, nella Body Art. Perché è scomparso? Forse perché si è frammentato, sostiene Ilaria Bussoni, editor della casa editrice DeriveApprodi e redattrice della rivista Alfabeta2, generando
comportamenti quotidiani ed essendone quasi la premessa. Il gesto femminista. La rivolta delle donne nel corpo, nel lavoro, nell’arte (DeriveApprodi), con contributi di filosofe, antropologhe, artiste, storiche, se lo chiede, ma forse è solo questione di velocità. Nell’era del tanto sbandierato girl power, parametri nuovi modificano ogni giorno la soglia della trasgressione e del pudore, trasformano quello che un tempo era bollato come volgare in un grimaldello per forzare porte altrimenti chiuse. E tutto dura il tempo di un hashtag. Anna Meldolesi, nel saggio Elogio della nudità (Bompiani) esplora questo confine estremo, il continuo spostamento in avanti (o indietro, ci sono corsi e ricorsi) di ciò che fa scandalo. Per lei, «la rottura dei tabù è un bene. L’aura di mistero che circonda la vagina, alla fine è una trappola. Mi fa sorridere il dibattito sul punto G come qualcosa di insondabile, quasi magico. L’ignoranza non può essere una buona cosa. Ma i codici sono complessi. Certe volte nascondere, come in alcune foto di David LaChapelle (la Nascita di Venere con una conchiglia al posto del pube), trasmette un messaggio ancora più forte del mostrare. E mostrare non è per fora rivoluzionario. L’unica chiave femminile possibile è l’ironia: penso alle donne inglesi che hanno mandato i loro peli pubici a Tony Blair con dissacrante piglio pacifista: “Mi sono liberata del mio bush (cespuglio, ndr), liberatene anche tu”, chiara allusione al presidente americano».
«Dal gesto femminista in poi abbiamo fatti molti passi avanti», ricorda Daniela Farnese, autrice del bestseller Via Chanel n.5, che ha appena pubblicato con Rizzoli il romanzo Donnissima, quasi un manifesto, e nel suo blog (dottoressadania.it) parla di amore e sesso, «ma siamo ancora lontani dall’essere liberi. Luciana Littizzetto è l’unica a parlare di vagina (la Jolanda) ma è il pene (il Walter) che fa più ridere. Anche nei romanzi scritti dalle donne il maschio è dominante. In Cinquanta sfumature di grigio c’è lei, sempre estatica, davanti all’uomo muscoloso e potente, e giù descrizioni del torace, delle spalle, dei fianchi. Se potrei mai usare la parola “vagina” in uno dei miei libri? No, di sicuro. Mi sentirei chiedere dall’editor: dillo in un modo più soft, per favore. Che volete, l’Italia è il paese del “pare brutto”. E poi, rivoluzione o non rivoluzione, gli uomini si imbarazzano. Se mandi un marito a comprarti gli assorbenti scopri che è come chiedergli di donarti un rene...».