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 2016  ottobre 15 Sabato calendario

LE RAGIONI DI BERLINO CONTRO SUPERMARIO


Nei primi tre mesi del 20l6 gli investimenti finanziari delle famiglie tedesche hanno superato i 5.500 miliardi, 1.500 più che in Italia. A fare la differenza a nostro favore nella ricchezza familiare globale sono le case: l’80% delle famiglie italiane ne possiede una contro il 44% di quelle tedesche. Un dipendente tedesco con 35 mila euro di reddito andato in pensione nel 2015 prende in media un assegno annuo lordo di 15.250 euro (il 43% degli ultimi stipendi), rispetto ai 30 mila del dipendente italiano (85%): con una tassazione più leggera in Germania che però il governo ha deciso di inasprire.
In questi due confronti sono racchiuse alcune cause della ribellione dell’opinione pubblica tedesca, in particolare nella classe media, verso la politica del denaro facile della Banca centrale europea, impersonata da Mario Draghi. Ribellione che, con la questione migranti, porta consensi ad Alternative für Deutschland, il partito nazionalista-populista accreditato dai sondaggi del 15%, e maggiore fonte di preoccupazione per Angela Merkel in vista delle elezioni per la Cancelleria del 2017.
Al primo punto del programma di Afd non c’è tanto la politica dell’accoglienza dei profughi, che pure tiene banco, ma «il rispetto del diritto e della parola data», con primo riferimento all’economia. E dunque: «Esigiamo un ordinato scioglimento del sistema monetario dell’euro. Esigiamo la reintroduzione delle valute nazionali. Esigiamo il divieto immediato dell’acquisto di carta straccia dalla Banca centrale europea». Una parte ponderosa è sulle pensioni: «L’Europa mette in pericolo tutte le forme di previdenza a causa dell’indebitamento e della riduzione degli interessi. Le assicurazioni pensionistiche e di malattia hanno i piedi d’argilla». Passaggi che portano direttamente ai contrasti fra Draghi, governo tedesco (in testa il ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble), Bundesbank e opinione pubblica sulla opportunità di proseguire nella politica dei tassi bassi e del Quantitative easing, con la Merkel fin qui nel ruolo di mediatrice.
La questione è sì ammantata della retorica di tutti i populismi, però poggia su dati di fatto: i tedeschi si sentono obbligati a risparmiare non per diventare ricchi ma per difendersi dalle insidie esterne, e tutelare la loro terza età. Infatti le famiglie investono in strumenti poco diversificati e a basso rischio: secondo i dati della Bundesbank, per il 39% in depositi e per il 37 in piani assicurativi e previdenziali. Solo un quinto compra azioni e obbligazioni. Le polizze assicurative servono a loro volta a garantire una pensione complementare che arrotondi quella magra dello Stato; magari evitando l’emigrazione verso i paradisi fiscali di Spagna e Portogallo, o addirittura di Bulgaria e Romania.
I tassi sottozero della Bce hanno annullato i rendimenti dei depositi e creano guai ai colossi assicurativi che forniscono le pensioni integrative. Al contrario hanno migliorato i bilanci alle aziende industriali più competitive: eccezioni sono Siemens, Man, Tyssen che risentono della concorrenza cinese; e Volkswagen per gli scandali sui diesel. Ma ora con il Quantitative easing potenziato di Draghi le aziende (e i land) possono vendere direttamente alla Bce le loro obbligazioni anziché collocarle sul mercato. Il che, assieme alla qualità simboleggiata dalla digitalizzazione dell’Industria 4.0, aiuta ulteriormente le esportazioni, che hanno raggiunto il 9 per cento del Pil, con grandi proteste soprattutto dell’Italia. Ma l’altra ricadute delle iniezioni di denaro facile è la rivalutazione automatica delle vecchie obbligazioni già in portafoglio: azioni e bond però costituiscono solo il 20% dei risparmi dei tedeschi. Un recente studio della Bundesbank rivela come il 10% più ricco possieda ormai il 60% della ricchezza nazionale, rispetto al 45% di dieci anni fa. Certo, le aziende hanno anche impiegato i guadagni per aumentare gli stipendi. I salari reali sono cresciuti nel 2015 del 2,5 per cento, con punte del 3,4 ottenute dal potente sindacato Ig Metall. Ed il governo ha promesso di migliorare le retribuzioni statali. Ma molti si domandano che fine farà tutto questo se, come insiste Draghi, l’inflazione tornerà a crescere «almeno fino al 2%», l’obiettivo ufficiale della Bce che però in Germania pochi capiscono, continuando a considerare l’inflazione più un male che un bene: «È il mercato, non l’autorità regolatoria, a determinare il livello ottimale dei prezzi», ripete Jens Weidmann, presidente della Bundsbank. Inoltre a chi è più addentro ai meccanismi della finanza non sfuggono le conseguenze della fine del Qe, che Draghi annuncia sì di prolungare anche oltre marzo 2017 «se servirà», però il suo mandato scade nel 2019 ed è impensabile che vincoli il successore – presumibilmente un esponente del Nord-Est d’Europa, dopo un olandese (Wim Duisenberg), un francese (Jean-Claude Trichet) e un italiano – ad una linea di politica monetaria. Dunque il tapering europeo, il progressivo rialzo dei tassi d’interesse, diventerà una questione centrale dalla metà dell’anno prossimo e per tutto il 2018. E, come l’omologo tapering americano, le incertezze della presidente della Federal Reserve Janet Yellen ed i suoi scontri nel board, potrà terremotare non solo i salotti finanziari, ma le famiglie e la classe media, parte delle quali simpatizza per Donald Trump. L’eterna Main Street contro Wall Street, l’uomo comune contro le élite.
Per inciso, quest’ultima contrapposizione fa anche sì che i presunti favoritismi della vigilanza della Bce (presieduta dalla francese Danièle Nouy) alla Deutsche Bank non bastino a mitigare l’avversione tedesca anti-Draghi. In Germania non esiste ancora un movimento anti-finanza stile “occupy” come negli Usa; però sempre il programma di AfD addita «banche, hedge funds, grandi investitori privati» come «principali beneficiari dei regolamenti e dei salvataggi europei». Ma soprattutto si comincia a parlare degli effetti pratici del dopo Qe. E cioè: rivalutazione dell’euro (che nuoce all’export), ulteriore svalutazione di titoli pubblici e obbligazioni finiti in questi anni in portafoglio agli enti previdenziali, che per statuto non possono fare trading e che quindi verrebbero colpiti due volte, prima dai tassi bassi poi dal loro rialzo.
È certamente un modo di vedere le cose opposto a come viene inteso in Italia e nel Sud Europa, dove si invoca la crescita e l’allentamento del rigore. Anche qui però i tedeschi possono far valere il fatto che, pur tra rigore e manica larga monetaria, la Germania ha ridotto il suo debito pubblico fin quasi al 60% del Pil, mentre Italia e Francia continuano ad aumentarlo. Per non parlare dell’occupazione. Ce n’è abbastanza per prevedere che l’appeasement di facciata Merkel-Draghi, che finora ha cercato di tenere buone la politica e l’opinione pubblica tedesche, non avrà, nei prossimi mesi, più molto spazio. Anzi, probabilmente finirà.