Guido Santevecchi, CorriereEconomia 24/10/2016, 24 ottobre 2016
EREDITARE IN CINA, PICCOLI RICCHI CRESCONO. AI DELFINI 2 MILA MILIARDI IN VENT’ANNI
L’economia dell’Asia-Pacifico sta creando un miliardario ogni tre giorni: dei 113 entrati quest’anno nel club dei mille milioni di dollari molti operano nel campo dei servizi, della tecnologia, della finanza. E la Cina contribuisce più di ogni altro Paese, tanto da avere ormai staccato gli Stati Uniti per numero di «billionaire»: 594 a 535 secondo il censimento pubblicato il 13 ottobre dalla Lista Hurun di Shanghai, la bibbia dei ricchi cinesi, Forbes e Fortune in salsa mandarina. Però il supercapitalismo mondiale, e quello cinese in particolare, ha un problema di eredità. Da 2.100 miliardi di dollari nei prossimi vent’anni, secondo uno studio Ubs/PwC.
Mentre negli Stati Uniti e in Europa ci sono già stati molti passaggi di capitale, per la Repubblica popolare cinese quella imminente sarà la prima grande successione di ricchezze miliardarie nella storia, perché l’85% delle fortune private sono di prima generazione e di proprietà familiare. Trentacinque anni dopo l’apertura all’economia di mercato voluta da Deng, i self-made businessmen che hanno fatto il miracolo cinese, quelli che sono cresciuti con la manifattura e l’edilizia, stanno arrivando all’età del ritiro e dovranno trovarsi un successore.
Passaggi generazionaliIn Cina, contando anche le fortune personali del gruppo di imprenditori che non hanno un miliardo ma sono comunque ultraricchi, si arriva a un monte eredità da un trilione nei prossimi 10 anni e da tre trilioni nei prossimi 20. Una previsione basata su dati anagrafici.
Terreno inesplorato. In un grande gruppo industriale la successione non si decide staccando un assegno o facendo solo testamento, serve un chiaro sistema di governance aziendale del quale in Cina non c’è ancora esperienza. L’amministratore delegato diverso dal proprietario qui è ancora una figura sconosciuta.
Un sondaggio sistematico sullo stato dell’arte industrial-familiare in Cina condotto dai professori Shaomin Li e Seung Ho Park ha rilevato che i figli dei fondatori in genere hanno un alto grado di istruzione, la metà circa ha frequentato college e università all’estero; ma al ritorno, solo un quinto di questi giovani dichiara di voler ereditare l’impresa di famiglia. Il resto pensa ad altro, ha l’ambizione di creare un proprio business. L’80% ammette che sono l’età avanzata, le forze che se ne vanno o le malattie a imporre il ricambio, altrimenti rifiuterebbe magari la responsabilità. Solo il 20% di chi è destinato ad ereditare conferma di avere la piena fiducia dei genitori-fondatori; e tra quelli che sono già in azienda emerge una fortissima spinta al cambiamento, che per il 59% dev’essere «rivoluzionario».
Poi, ci sono le cronache della stampa cinese a raccontare che i figli dei miliardari incontrano problemi e sono poco amati. Li chiamano «fuerdai», che significa letteralmente «ricchi di seconda generazione», ma il termine è diventato anche sinonimo di ragazzi abituati a spendere male e troppo tra feste, shopping di lusso e auto sportive. Il fenomeno dei fuerdai comporta rischi tali, per il futuro dell’impresa privata cinese, che l’anno scorso è intervenuto il presidente Xi Jinping. In una riunione di governo ha detto che questi giovani ereditieri debbono dare un taglio all’edonismo, debbono essere guidati, debbono «pensare a come è stata creata la loro fortuna: il problema è che questi giovani sanno solo esibire la ricchezza prodotta dai genitori, non sanno come crearla». La macchina del Partito ha subito organizzato corsi obbligatori di rieducazione per fuerdai, con lezioni di «cultura tradizionale cinese, responsabilità sociale, consapevolezza dei valori del business, pietà filiale». Non si conosce l’esito.
Imparare dall’esteroStudia il problema anche il China Entrepreneur Club, il salotto economico più esclusivo della Repubblica popolare: costituito nel 2006, accetta nuovi membri solo con l’unanimità di tutti i 49 soci. Che insieme valgono un fatturato di circa 300 miliardi di euro, il 4,5% del Pil cinese. L’anno scorso sono stati in viaggio di ricognizione in Italia e appoggiandosi a The European House Ambrosetti hanno dedicato una giornata di seminario al tema «Eredità e successione nelle imprese di proprietà familiare», ascoltando le esperienze di governance di Albiera Antinori, Paolo Barilla, Andrea Illy, Milena Perini, Marco Tronchetti Provera e Niccolò Ricci.
Corriere Economia ha incontrato il socio del club e re dei succhi di frutta, Zhu Xinli. Classe 1952, Zhu ha fondato l’azienda Huiyuan nel 1992, all’inizio della grande apertura al mercato; oggi ha 64 anni e due figli trentenni: «Noi abbiamo creato la ricchezza, io voglio che l’azienda si ammoderni e si sviluppi dopo di me. E non voglio imporre la mia scelta ai figli, un leader deve avere anche il sostegno dei dipendenti, la Huyuan ne ha migliaia». Zhu lascia la questione aperta, ma ricorda che «molte imprese familiari in Italia si sono tramandate per generazioni e il sistema ha funzionato».
Tra i capitani d’industria che pensano al passaggio di consegne c’è Wang Jianlin, l’imperatore di Wanda, l’uomo più ricco della Cina. È solo del 1954, ma in passato ha detto che potrebbe fare un passo indietro quando arriverà ai 65. Il figlio Wang Sicong è stato criticato per qualche eccesso (come gli smartwatch messi alle zampe del suo husky), ma recentemente si è impegnato nella costruzione del primo hotel a sette stelle di Shanghai, sul Bund. Il fondatore di Huawei, Ren Zhengfei, nato nel 1944, ha 72 anni. Zong Qinghou, quarto miliardario cinese, ne ha 71 e una figlia che lo consiglia.
Lo studio di Ubs/Pwc avverte con freddezza statistica: «La ricchezza miliardaria è spesso di breve durata a causa dei rischi connessi al business o di diluizione. Guardando alle fortune cadute sotto il miliardo negli ultimi vent’anni, si osserva che nel 90% dei casi è successo tra la prima e la seconda generazione».