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 2016  ottobre 23 Domenica calendario

L’ITALIA SVUOTATA DA QUELL’ARTE CHE FU LA BASE DI QUASI TUTTO

Roma nacque da un ponte, si disse nella prima puntata di questo racconto. E l’Italia prosperò finché su quel ponte continuarono a passare genti e a transitare idee, opere d’arte, merci. Regredì, quando lo scambio si arrestò e si rinchiuse in un’idea astratta e autoreferenziale d’identità. Se fu la sintesi ad assicurarne il successo, la capacità di metabolizzazione le permise di esprimersi in maniera comprensibile a tutti. È un caso che nella Torre di Babele dipinta da Pieter Bruegel nel 1563, il cuore dell’immensa costruzione fa pensare al Colosseo? Roma aveva sfidato Dio nella lingua universale dell’arte e per questo era stata punita con il sacco del 1527. Come Babele, finì svuotata dall’esodo dei costruttori e degli artisti che, alla fine del loro periplo, fecero raramente figura di estranei: il loro idioma portava già l’Altro dentro di sé.

Ancora una volta, il segreto non fu nella purezza o nella forza di un’ininterrotta tradizione. Avvenne piuttosto il contrario. Quando uomini come Winckelmann ricercarono un’ipotetica classicità originaria, la penisola fu disdegnata e nelle copie romane spuntate dal sottosuolo si andò a cercare l’ombra della purezza greca. L’arte imperiale, in effetti, era stata profondamente eclettica e per federare i popoli cui s’indirizzava aveva inventato un vocabolario spurio tenuto da una sintassi duttile come nessun’altra. Sempre il Colosseo, Torre di Babele nella varia unità del Mediterraneo antico, è un esempio perfetto: il sistema greco colonna/architrave sta incollato su una struttura ad arco di origine etrusca, la cui ripetizione potenzialmente all’infinito è la vera invenzione romana.

La metabolizzazione delle influenze aprì infinite strade agli italiani senza mai essere percepiti come alieni. Il tempio di Bel, a Palmira, distrutto dalla furia criminale di Daesh, venne costruito come una creatura multiculturale. Stilisticamente greco-ellenistico, era dominato da capitelli corinzi di gusto romano ma aveva una pianta mediorientale: la porta d’ingresso non si trovava sul lato corto dell’edificio ma su quello lungo, a tal punto ibrido che fu utilizzato come chiesa e moschea fino al 1920. Analogamente avveniva per la pittura, la scultura e le arti del mosaico. Se le spirali mistiche dei berberi erano passate dai tappeti alle tessere di marmo, tornarono da Roma alle province africane con una pletora di ghirlande, scandite dalla pianta sacra della divinità più cara ad Augusto, l’acanto di Apollo. Quel mondo ormai comune – un Commonwealth detto ellenisticamente koiné – in Roma e nell’Italia riconobbe la sua capitale.

Se nell’XI secolo l’uso di fasce alternate di pietra bianca e nera cominciò a diffondersi da Bisanzio e Damasco, trecento anni dopo l’Egitto le prese a prestito dall’Italia. Nel 1487 l’ambasciatore mamelucco Ibn-Mahfuz venne in visita in Toscana. Fosse entrato nel duomo di Pisa, più che una chiesa gli sarebbe sembrata una moschea. Gli archi a sesto rialzato erano un prestito islamico, così come la cupola ellittica d’ispirazione moresca e la solita bicromia bianca e nera, in arabo detta ablaq. Ormai di moda anche al Cairo, nella girandola delle influenze veniva proprio da lì. Non è questione di rifare il viaggio già percorso, tappa per tappa all’inverso, dimostrando come l’arte italiana si sia diffusa grazie al suo multiculturalismo, ma tant’è.

La varietà del classicismo rinascimentale fu fonte di varianti estremamente diverse, dal manierismo francese al palladianesimo britannico di Inigo Jones. Nel 1703 lo zar Pietro il grande chiamò a corte l’architetto Domenico Trezzini per gettare le fondamenta di San Pietroburgo, alla ricerca di una formula occidentale capace di superare senza strappi la tradizione ortodossa. Il risultato fu brillante e per raggiungere il risultato ricercato, il nuovo stile si servì dei germi orientali della cultura italiana. La facciata della cattedrale di San Pietro e Paolo somiglia allo stesso titolo ai campanili del Bernini per San Pietro che alle chiese russe tradizionali in legno. Volendo implementare gli incroci barocchi, la zarina Elisabetta fece appello a Bartolomeo Rastrelli e quando Caterina II decise di cambiare gusto, si rivolse sempre a un italiano, Carlo Rossi, che portò sulla Neva echi del neoclassicismo partenopeo di Carlo di Borbone.

A proposito di Commonwealth, è un caso che lo stile ufficiale dell’Impero britannico fu una summa dell’architettura italiana? La dogana di Yangon, in Birmania, ha al suo centro uno dei campanili borrominaini di sant’Agnese in Agone, mentre l’ufficio contabile vanta ben due repliche della cupola del Brunelleschi. A Bombay, l’università è una versione esagerata della Ca’ d’Oro di Venezia. E quante Ca’ d’Oro hanno costruito in giro per il mondo? Volendo una lingua cosmopolita, gli inglesi dovettero parlare italiano, cosicché nel Prince of Wales Museum di Mumbai il percorso positivistico nell’evoluzione dell’arte si conclude ancora oggi con la pittura toscana. A qualche passo, la biblioteca dell’Asiatic Society conserva la seconda copia più antica della Divina Commedia che Mussolini tentò, invano, di riportare a casa. Per venire a oggi, le torri gemelle di Kuala Lumpur, in Malesia, altro non sono che una proiezione per 452 metri della lanterna della cupola di San Pietro su una pianta che riprende il progetto bramantesco della basilica. Da lontano sembra quasi una pagoda, come stupirsi? Alla ricerca di un punto d’intersezione tra Islam e contemporaneità, l’architetto argentino César Pelli ha guardato a una cultura che porta la matematica araba e indiana, liofilizzate, dentro di sé. Sciolte nell’acqua dell’Oceano indiano, quelle polveri hanno dato vita a una combinazione perfetta.

La presenza germinale di quasi tutto nell’arte italiana divenne leggendaria. Al punto che un monaco spagnolo, Sebastien Manrique, raccontò che il Taj Mahal, la tomba, fatta costruire nel 1632 dall’imperatore Moghul Shah Jahan per la sua amatissima moglie, era opera del veneziano Geronimo Veroneo, arrivato in India su una nave portoghese. Basta confrontare il mausoleo con la cupola di San Pietro per capire il perché. Impossibile stabilire se la storia abbia un qualche fondamento, ma in entrambi i casi, uno stesso modello, quello dell’edificio voltato a cupola, proveniente già nell’antichità dall’Asia centrale, aveva dato vita a esiti analoghi, in due parti del globo caratterizzate da una sorprendente frequenza di scambi. All’Italia ed esclusivamente all’Italia, perciò, autrice di sintesi millenarie che il contemporaneo dovrebbe perpetuare, poteva essere attribuita la paternità leggendaria di una delle meraviglie del mondo.