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 2016  ottobre 26 Mercoledì calendario

ADDIO CARLOS ALBERTO, IL CAPITANO

Lo chiamavano il Capitano. Con semplicità e rispetto. Per nessuno era Carlos Alberto, né tantomeno Carlos Alberto Torres (com’era iscritto all’anagrafe). L’appellativo portava con sé il significato e lo stile di un’intera esistenza: era, come avrebbero detto nell’antica Roma, il «primus inter pares», il comandante, colui che indicava la strada ai compagni e ne seguiva con severa attenzione il cammino. Ora che se n’è andato all’improvviso, a 72 anni, con la stessa velocità con la quale raggiungeva il fondo del campo e poi crossava in mezzo all’area per la testa di Tostao, o di Pelé, oppure concludeva lui stesso in porta; adesso che non c’è più, insomma, tutta una generazione si sente orfana. Perché Carlos Alberto, pardon il Capitano, è stato l’uomo che ha alzato al cielo la Coppa Rimet nel 1970, la terza nella storia del Brasile, ed è stato soprattutto un esempio di modestia che, negli anni, ha accompagnato la crescita del futbol, carioca o paulista che fosse.

INVITO ALL’AMICO Noi italiani ce l’abbiamo impresso nella memoria il Capitano che arriva da dietro, Pelé che ne coglie il movimento con la coda dell’occhio, lui che carica il destro e spara una cannonata terrificante. Fu il gol del 4-1 all’esausta Italia di Ferruccio Valcareggi nella finale di Messico 70: il segno della resa. Ma tale fu la bellezza del gesto, che racchiudeva in sè potenza ed eleganza, che tutti restammo a bocca aperta. Era l’azione corale, ad averci stordito, i dribbling di Clodoaldo nella sua metà campo, in mezzo a una nuvola di maglie azzurre, il passaggio sulla sinistra a Piazza, l’allungo sulla fascia, poi il rapido accentramento della manovra e quell’appoggio, tanto leggero quanto poetico, di O Rei che era un invito al suo amico Carlos Alberto: «Vai, Capitano, tocca a te!». Gianni Brera scrisse che il tiro del terzino destro era «assolutamente omicida». Al povero Albertosi non restò che inchinarsi. Fu, quel Brasile, una squadra irripetibile, perfetta. E Carlos Alberto fu scelto per guidare, in campo e fuori, quel gruppo. Non Pelé, il migliore del mondo, ma Carlos Alberto che, tra l’altro, era più giovane e nella Seleçao aveva esordito nel 1964, quando O Rei aveva già conquistato due campionati del mondo (nel 1958 e nel 1962).

LE REGOLE Il fatto è che Carlos Alberto era capitano nell’anima. Pensava da capitano, lavorava da capitano, parlava da capitano. Mai un gesto sopra le righe, sempre una parola d’incoraggiamento per il compagno in difficoltà e di rimprovero per quello che dribblava le regole. La frase stampata sulla bandiera brasileira ce l’aveva fissa nella testa: Ordem e Progresso, Ordine e Progresso. La applicava in campo, dove ognuno dove mantenere la propria posizione senza tuttavia limitare la propria fantasia. Il progresso era quel porto verso il quale lui, da autentico comandante, voleva (e doveva) portare la nave. Quando l’aereo in arrivo da Città del Messico sbarcò a Rio de Janeiro, e andò in scena una specie di Carnevale fuori stagione, il Capitano passava in mezzo alla folla impazzita di gioia e teneva stretta quella coppa come fosse una figlia.

I GIUDIZI Giocò con il Fluminense e con il Santos di O Rei, con il Botafogo (per un breve periodo) e con il Flamengo, poi negli Stati Uniti con il Cosmos dove con l’amico di sempre era andato a guadagnare un mucchio di dollari. Con la maglia della Seleçao disputò 69 partite e segnò 9 gol. Intraprese la carriera di allenatore, ma in panchina non si sentiva a suo agio. Lui era fatto per correre, per volare sulla fascia, a stare lì seduto gli sembrava di essere in prigione. Un po’ di libertà la ritrovò quando gli misero un microfono davanti alla bocca: commentatore sportivo. Era ascoltato da tutti e i suoi giudizi, severi e taglienti, non risparmiavano nessuno. L’ultimo, dedicato a Neymar e alle sue bizze prima dell’Olimpiade di Rio, pochi mesi fa. «Cerchi di essere più umile e si ricordi che gioca per una nazione intera, non per se stesso». La fascia da Capitano non l’è mai tolta.