25 ottobre 2016
PRIMO CARNERA IL GIGANTE BUONO CHE ALLA NASCITA PESAVA GIÀ 8 CHILI
Centodieci anni fa da Isidoro Sante e da Giovanna Mazziol nasceva Primo Carnera. La ricorrenza ha richiesto una consultazione preventiva con il sindaco di Sequals, paese d’origine del campione di pugilato, perché molte fonti storiche lo vorrebbero nato il 26 ottobre 1906. Allora il paesino friulano ricadeva sotto la giurisdizione di Udine, ma ora si trova in provincia di Pordenone.
Emigrato in Francia giovanissimo, Carnera fu bracciante agricolo, manovale edile e spaccapietre. A 17 anni, già dotato di un fisico eccezionale, fu ingaggiato come lottatore in un circo. Dopo un primo approccio fallito al mondo del pugilato nel 1925, nell’estate di tre anni dopo incontrò un ex pugile, Paul Journée, che con il giornalista Léon Sée lo avviò alla boxe.
In un paese del Veneto, Motta di Livenza, oggi si onorerà la ricorrenza con un pane gigantesco, che avrà lo stesso peso del pugile alla nascita: 8 chili. Si è pensato di impastare e cuocere la maxi pagnotta perché il pugile era buono come quel pane che ogni giorno andava a comperare per ordine dei genitori e che non arrivava mai intero a casa. Lungo la strada, Primo se lo mangiava.
Ora ci si chiede che cosa sia rimasto al suo paese, Sequals, a distanza di 110 anni dalla nascita. Molti vi si recano alla ricerca di quello che è rimasto, a sentire il racconto dei ricordi della gente che non lo ha dimenticato. Il paese conserva ancora le sue radici e la storia del pugile. Quando nacque nel 1906, la fame bussava alla porta della gente e molti erano costretti a emigrare per trovare lavoro e aiutare la famiglia. Carnera passò gli anni più belli a Sequals, gli anni della fanciullezza. Là in paese si trova ancora la casa dove venne al mondo: sulla sua abitazione è posta una lapide che lo ricorda. Vicino alla casa natale c’è una chiesetta molto bella, che può essere ammirata dal visitatore. Questo piccolo mondo ha affascinato molti scrittori, che hanno scritto grandi pagine di letteratura.
In paese si respira l’aria di un campione la cui leggenda continua. Quei tanti sportivi che giungono a Sequals sulle tracce di Carnera non restano delusi. Molti hanno sentito parlare di lui dai loro padri e dai loro nonni. La forza del campione era impareggiabile, così pure la sua splendida figura d’atleta che superava i due metri d’altezza. La gloria pugilistica la raggiunse con la conquista del titolo mondiale. Una decina d’anni fa lo scrittore italiano Mauro Corona scrisse in un mio libro alcune parole su questo personaggio. «Carnera è stato il mito della mia infanzia, l’uomo che avrei voluto avere accanto quando avevo paura della notte, quando mio padre mi picchiava, quando dovevo portare fasci di fieno o di legna che mi facevano piegare le ginocchia, quando, insomma, ero adolescente e mi dovevo fare le ossa. Sognavo allora di essere amico di Carnera e che mi potesse dare una mano».
Nell’immaginario collettivo di un tempo e anche di adesso la parola Carnera aveva molti significati. Una famiglia, alla nascita di un figlio, sperava che il nascituro fosse buono come Carnera, che diventasse un Carnera. Si diceva, elogiando la sua bontà pugilistica, che Carnera con un pugno ti butta a terra e con la mano ti aiuta ad alzarti. Carnera era diventato il mitico uomo che era riuscito ad avere tutto dalla vita. L’uomo che il 29 giugno del 1933 riuscì a diventare campione del mondo dei pesi massimi, contro Jack Scharkey. Quel giorno non fu solo Carnera a salire sul podio più alto del mondo, ma salirono tutti gli italiani che si immedesimavano in lui. Nel 1933 Carnera, dopo aver conquistato il titolo di campione del mondo, espresse il primo pensiero per l’Italia e il Duce. Le sue parole furono evidenti: «Offro il campionato all’Italia fascista inviando a vostra eccellenza devoti omaggi». Nel telegramma rivolto alla madre le sue parole sono di una semplicità disarmante, ma raccolgono tutto. «Devo tutto a te, mamma». Era riuscito a scrivere il suo nome sulla più alta vetta della montagna e aveva sentito con orgoglio la sua appartenenza all’Italia fascista, al Duce e al suo Paese. Al suo arrivo in Italia folle oceaniche lo accolsero. Qualcuno ne approfittò per rubargli il portafoglio. Credo che questa cosa avesse fatto imbufalire Carnera, ma ai buoni la rabbia passa in fretta e avrà pensato che quei soldi potevano aver fatto felice qualcuno. Dopo la conquista del titolo mondiale volle far ritorno al suo paese, l’amato Sequals. Quel paese per lui era il luogo caro all’anima, dove sia nella vittoria che nella sconfitta tornava a cercare le radici.
La sua vita fu costellata di tanti avvenimenti, ma fu un buon padre che amò i suoi figli. Poche ore prima di morire, raccontò al sacerdote: «I pugni si danno, i pugni si prendono. Questa è la boxe, questa è la vita. E io nella vita ne ho preso tanti di pugni, veramente tanti. Ma lo rifarei, perché tutti i pugni che ho preso sono serviti a far studiare i miei figli». Carnera di figli ne ebbe due, Maria Giovanna e Umberto, che portava questo nome in onore di re Umberto II, amico personale di Carnera. Studiarono e si laurearono. Il figlio diventò un grande medico, la figlia diventò una psicologa. Umberto è morto alcuni anni fa, la figlia Maria Giovanna vive ancora a Sequals.
La scuola di Carnera fu la vita. Rimase in piedi in tanti momenti duri su quelle scarpe gigantesche: si dice che portasse il numero 52. Quelle scarpe si possono ammirare a Sequals, esposte nell’osteria che lui frequentava: Il Bottegon. Il suo primo paio di scarpe lo ebbe da un soldato austriaco, che vide penzolare da una corda in un bosco a Sequals. Aveva 12 anni. Questo episodio è raccontato nelle sue memorie, uscite alcuni anni fa.
La vita del pugile è stata immortalata da un film e da una serie di libri, ma l’evento più importante si svolge ogni anno a Sequals, dove viene organizzato il trofeo Carnera. Nelle date commemorative della nascita e della morte vengono celebrati una messa e un banchetto organizzato dal noto ristoratore Ferdinando Polegato davanti al suo locale, dove si trova il mosaico di Primo Carnera. Il campione si comportò da numero uno anche nel duro periodo della malattia, che lo portò a morire a soli 61 anni il 29 giugno del 1967. Il male lo aveva reso irriconoscibile, ma lui non si nascose. A fatica scese dalla scaletta dell’aereo, a Roma. Le sue mani un tempo forti come l’acciaio erano ossute, ma il saluto ai suoi connazionali fu grandioso come sempre.