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 2016  ottobre 25 Martedì calendario

CEREALI GIÙ DEL 30% KO 300.000 AZIENDE


La Toscana dei produttori di grano ancora una volta contro il governo, come era già successo a fine luglio, in Maremma.
Stamattina, con i loro trattori, vogliono bloccare il casello autostradale di Val di Chiana (Siena) o, almeno, farsi sentire come si deve, insieme ai loro colleghi provenienti da altre regioni. Motivo della protesta? L’eccessiva importazione di grano straniero in Italia, una delle loro più grandi preoccupazioni. I vertici nazionali della Cia e della Confagricoltura, oggi in Val di Chiana, si accingono quindi a celebrare il funerale del grano italiano «venuto a mancare per il lungo e penoso disinteresse della politica agricola». «Il ministero non può muoversi solo quando ha i trattori sotto “le finestre” e la speculazione non può sempre avvenire sulla pelle di noi agricoltori», dicono in coro. Quest’anno, i prezzi del grano sono crollati di circa il 31 per cento rispetto al 2015, mettendo in ansia oltre 300 mila aziende agricole che lo lavorano.
La nostra produzione di grano duro non è sufficiente, poiché la metà di quella della pasta italiana viene esportata, anche in Estremo Oriente.
L’Italia importa grano - sia duro, sia tenero - soprattutto da Canada, Francia, Russia, Ungheria, Romania, Polonia, Ucraina e Khazakistan. L’Associazione nazionale cerealisti (Anacer) nota che il saldo della bilancia commerciale del settore cerealicolo è peggiorato nei primi 7 mesi del 2016, aumentando la nostra dipendenza dall’estero.
Se nello stesso periodo 2015 il passivo era di 958 milioni di euro, quest’anno il deficit commerciale ha toccato 1040,3 milioni di euro (esborsi per import di 2977,6 milioni di euro e introiti da export per 1937,3 milioni di euro). C’è chi minaccia addirittura il blocco della semina.
semina
«In queste condizioni non seminiamo», spiega il presidente nazionale della Confederazione italiana agricoltori (Cia), Dino Scanavino. «Attualmente», continua, «i nostri agricoltori producono grano di qualità, ma in perdita. L’Italia ha una forte tradizione cerealicola e le speculazioni internazionali di mercato la stanno spazzando via». La Cia chiede ancora al ministro delle politiche agricole, Maurizio Martina, di mettere in atto «tutte le misure di salvaguardia». Che cosa accade, esattamente, nel mercato del grano globalizzato, dai prezzi sempre più volatili? Possono accadere cose diverse.
Tra marzo e giugno, quando le nostre scorte nazionali iniziano a scemare, è il periodo in cui il mercato italiano è invaso dal grano straniero di bassa qualità, peraltro irrorato con fitofarmaci chimici, qui vietati. Navi cisterna attraccano ai porti italiani, cariche di grano straniero, oppure sostano al largo aspettando il momento più conveniente per immettere «sul mercato» le loro stive piene.
import
«Nel mese di luglio, in piena trebbiatura», racconta il presidente della Cia Toscana, Luca Brunelli, «a Lecce sono arrivate tre navi con grano duro straniero, vecchio di qualche anno». Fra l’altro, il pericolo di micotossine nel frumento aumenta dopo i 18 mesi di stoccaggio. E il prezzo, intanto, va giù. «Oggi il raccolto di 6 ettari seminati a grano», aggiunge Scanavino, «è appena sufficiente per pagare i contributi di una famiglia media agricola e oltre il 50 per cento dei contributi della politica agricola comune europea (Pac) servono a coprire le perdite». I costi di produzione del grano (lavorazione e preparazione per la semina, acquisto delle sementi, semina, concimazioni, trattamenti e trebbiatura) variano, per ettaro, dagli 800 ai mille euro, secondo la tipologia del terreno.
Succede anche che alcuni grani «di forza», più ricchi di proteine rispetto al grano duro italiano, in particolare quello canadese «Northern Spring», alcuni grani austriaci o dell’Est Europa, vengono apprezzati meglio sui mercati, più del grano duro pugliese o siciliano. L’industria della pasta li ritiene indispensabili, miscelandoli ai nostri, per conferire alcune caratteristiche di qualità al prodotto finale, come una migliore tenuta di cottura.
Però c’è un «ma», grosso quanto un pagliaio. In Italia il commercio delle grandi quantità di grano proveniente dai Paesi esteri è senza regole. «L’essiccazione del grano estero è forzata», afferma ancora Brunelli, «nei Paesi nordeuropei, in Canada e in Russia viene accelerato con l’uso di prodotti disseccanti (il Glifosate), irrorati proprio nella fase di preraccolta». Residui di tali prodotti chimici, vietati in Italia, a causa di una globalizzazione «sregolata», alla fine arrivano anche sulla tavola del consumatore italiano. «Il nostro sistema di controllo sulla qualità dei prodotti alimentari è rigoroso e tutela la nostra salute. Dovremmo almeno ottenere», afferma il presidente nazionale della Confagricoltura, Mario Guidi, «che il grano proveniente dall’estero sia soggetto agli stessi controlli e che non venga portato a maturazione col glifosate, che essicca rapidamente le spighe. Poi: il nostro grano ha poche proteine? Noi già otteniamo grani duri con le stesse caratteristiche proteiche di quelli esteri, ma ancora non siamo capaci di esaltarli, singolarmente, sulle borse merci, come invece fanno i Paesi stranieri».
Il ministero delle politiche agricole ha stanziato 10 milioni di euro per il 2016 (3 milioni) e per il 2017 (7 milioni) ma è giusto un «pannicello caldo». Per incassare questi soldi i produttori devono avere un accordo di filiera (azienda, mulino, pastificio, commercializzazione) valido almeno tre anni. Non tutte le aziende sono così ben organizzate.
contributi
Anzi solo 1/12 della produzione di grano italiano è regolata da accordi di filiera, pari a circa 100 mila ettari su un milione e 200 mila coltivati. Inoltre, gli eventuali contributi vengono erogati sotto regime de minimis. Una singola azienda che produce grano duro non può ottenere oltre 15 mila euro nell’arco di tre anni, ben poca cosa rispetto ai costi sopportati. «Il governo», continua Guidi, «non deve considerare più i produttori di grano come «figli di un dio minore» e deve aiutarci a migliorare la nostra capacità di stoccaggio. Infine dobbiamo costituire, prima possibile, la Commissioni unica nazionale (Cun) di cui già si parla, per definire meglio, ogni settimana e attraverso il lavoro di esperti, il prezzo del nostro grano sui mercati.