Claudio Antonelli, LaVerità 25/10/2016, 25 ottobre 2016
«LA TURCHIA SFRUTTA LA DIETA MEDITERRANEA PER RUBARE ALL’ITALIA IL RECORD DELLA PASTA»
«LA TURCHIA SFRUTTA LA DIETA MEDITERRANEA PER RUBARE ALL’ITALIA IL RECORD DELLA PASTA»–
C’è un veneto che riesce a far mangiare la stessa pasta a israeliani e palestinesi. E a guardare i conti, riesce a fare contenti tutti e due. Quando Furio Bragagnolo, presidente di pasta Zara, atterra a Tel Aviv, organizza così la giornata di incontri: il mattino dedicato all’importatore di Israele, il pomeriggio, superato il valico di Ramallah, tocca al cliente palestinese che vende la pasta tricolore. «Non è stato difficile», racconta Bragagnolo a La Verità, «la pasta si sposa con un grande numero di sapori, di aromi, di culture e di religioni. Gli spaghetti sono un piatto multivalente cui noi diamo il valore aggiunto del made in Italy. Il cliente palestinese dopo anni di presenza in Israele ci ha cercati. Nessuno avrebbe rinunciato ai nostri spaghetti. Così, in modo molto naturale abbiamo avuto l’ok per vendere oltre il valico». A oggi Zara è il primo esportatore di pasta e il secondo produttore italiano, dopo Barilla. È presente in quasi 110 Paesi con marchio proprio o sotto altri brand privati. Raccoglie quattro generazioni di pastai ed è la colonna portante della nostra pasta nel mondo. Un’industria che complessivamente copre il 20% di tutto il mercato globale.
Che cosa significa produrre pasta made in Italy? Quale è il valore aggiunto che permette di stare in Giappone come in Nigeria, a Tel Aviv come a Ramallah?
«A fare la differenza è l’intera filiera. La prima componente è la materia prima. Dal grano duro deriva la semola. Che necessariamente è frutto di un mix di qualità. Noi abbiamo una capacità di macinazione per oltre 310.000 tonnellate di grano all’anno. Il grano italiano non è sufficiente a coprire il fabbisogno dell’industria. Inoltre la qualità, pur essendo molto elevata, non è stabile tutti gli anni. Per questo i produttori devono integrare la semola dal punto di vista quantitativo e a volte dal punto di vista qualitativo. Dobbiamo, infatti, sempre avere il mix di materia prima; poi si punta sulla macinazione, sulla pastificazione e sulla trasformazione. L’insieme di tutti i passaggi è il made in Italy».
Come è possibile vendere in Nigeria come in Giappone o negli Usa? Il prodotto è lo stesso, ma i mercati sono molto differenti?
«Possiamo farlo finché il made in Italy viene percepito come un sapore unico per il quale vale la pena sborsare qualcosa in più rispetto agli altri marchi sullo scaffale».
Da tempo c’è polemica però sulla filiera. In molti vorrebbero che solo la pasta fatta con grano italiano possa essere definita made in Italy. Che succederebbe?
«Cambierebbero gli equilibri. Chi esporta in giro per il mondo avrebbe una marcia in meno. Non potrebbe più far leva sul marketing, che già andrebbe ritarato e rivisto. Consentire la dicitura made in Italy solo a semola proveniente da grano italiano o in maggioranza, sarebbe una vittoria per concorrenti come la Turchia che sono già forti nel Medioriente e in Africa. Le strategie di espansione all’estero – e parlo dell’industria agroalimentare nel complesso – dovrebbero tenere conto di tutte le variabili e non solo della materia prima. È invece importante vigilare perché tutte le componenti della filiera, come la macinazione e la pastificazione, si sviluppino sul nostro territorio. Così cresce il made in Italy».
Perché la dieta mediterranea non è la bandiera giusta?
«Di per sé non fa i conti con la concorrenza. La promozione giusta sarebbe “Il primo piatto all’italiana” e non solo la dieta mediterranea. Il Paese che rischia di mangiare in testa alla nostra industria è la Turchia. In Giappone, per esempio, la quota di pasta made in Italy è andata calando. A crescere sono stati gli spaghetti turchi. Perché hanno cavalcato la pubblicità che gli ha fatto indirettamente il nostro Paese. Uno dei nostri clienti ha ammesso che i consumatori giapponesi non distinguono Italia e Turchia per via del fatto che tutte e due sono sponsor della dieta mediterranea. Quindi i consumatori giapponesi hanno sterzato verso la Turchia solo perché ha prezzi più bassi».
Il costo del grano è però in forte tensione. Voi come ci proteggete?
«Non è facile, perché il grano duro, a differenza degli altri cereali, è un prodotto di nicchia. Noi proviamo a chiudere contratti in anticipo, ma non è detto che riusciamo ad azzeccare il trend. A volte sì, a volte no. Il problema si pone soprattutto per i produttori».
Per voi quali sono gli altri concorrenti?
«In Europa direi la Francia, la Spagna e soprattutto il Belgio. Nelle Americhe, le fabbriche argentine e cilene. In Cina siamo presenti dal 1988. Dovremo invece spostare la sede da Alessandria d’Egitto a Dubai per aggredire meglio il mercato arabo e contemporaneamente quello africano».
Nell’opinione pubblica l’industria della pasta è sempre uguale a se stessa. È così?
«La pasta in 30 anni è cambiata drasticamente. In termini di qualità, stabilità, sapore. Senza contare che il mercato ci richiede continuamente aggiustamenti ai mix. Celiachia e altre patologie hanno allargato quelle che una volta erano minuscole nicchie. Produciamo pasta di kamut e di farro e la semola ha mix sempre più all’avanguardia».
Il suo bisnonno ha lanciato il marchio nel 1898. Lei è cresciuto in azienda?
«Erano tempi diversi. Quando ero piccolo stavo sempre in fabbrica a giocare. Crescendo ho assorbito le discussioni e le problematiche. Oggi non è più possibile portare i figli a giocare. Le leggi non lo consentono. È meglio che prima girino il mondo e imparino altro, per ragionare in modo più trasversale. Ma è bene che mettano sempre le mani nella pasta che vanno poi a vendere».
Avete chiuso il 2015 con circa 285 milioni di ricavi. L’anno prima erano poco più di 260. Quanto destinate a ricerca e sviluppo?
«Pasta Zara in 5 anni ha investito circa 100 milioni di euro. In modo da avere una capacità produttiva di circa 420.000 tonnellate all’anno. Lo stabilimento più grande ora è a Muggia, in provincia di Trieste. Abbiamo da poco inaugurato un magazzino automatico da 66.000 pallet. Abbiamo acquisito il pastificio Pagani di Brescia e due mulini. Siamo a 450 dipendenti diretti più una cinquantina di indotto nella fase della macinazione. Mediamente ogni anno tra il 2 e il 3% del fatturato è investito in ricerca e sviluppo. Inoltre crediamo molto nel concetto di primo piatto all’italiana. Per questo abbiamo aggiunto anche sughi, salse e ravioli».
Dove sarà la pasta fra dieci anni?
«Sul mappamondo spererei ovunque. In questi anni abbiamo perso il mercato libico e per via delle sanzioni, circa un quinto di quello russo. Siamo cresciuti però del 20% in quello americano. Il globo gira e spetta a noi rincorrere chi ha una forchetta in mano. Ecco, oltre a vendergli la pasta, dovremo insegnare meglio come si arrotolano gli spaghetti».