Fabio Corti, LaVerità 23/10/2016, 23 ottobre 2016
SQUADRA CHE VINCE SENZA AVERE UN PAESE
A Socol non c’è praticamente niente oggi, chissà negli anni Sessanta. Campi spelacchiati, poche case, tremila anime. Il Danubio, palpitante e sconfinato, interrompe il piattume del paesaggio e contrassegna i luoghi: di qua Romania, di là Jugoslavia. Danita, una donna d’altri tempi, china il capo velato e s’aggrappa all’unico retaggio che il regime di Ceausescu non abbia strappato al pianeta dei contadini: prega San Nicola. Chiede, al santo più venerato della sua chiesa, un futuro radioso per il bimbo che porta in grembo.
Una volta cresciuto, verso fine anni Ottanta, al nascituro basterà attraversare il Danubio per per sbucare in un’altra galassia.
confini
Tempo e acqua scorrono. Manca poco a Natale del 1988, sull’altra sponda del Grande fiume molte cose son diverse. Il dittatore, Tito, è morto da anni e la nazione attraversa la Guerra fredda senza una guida ferma. Spinte separatiste minano la tenuta dello Stato. Una cosa è identica: si venera San Nicola.
È una sera ghiacciata, la luna ha deciso di esibirsi altrove. Belgrado indugia, bellissima e inconsapevole, al bivio fra un passato di lacrime e un futuro di sangue. Il dottor Dragan Dragan Dzajić batte qualcosa a macchina. Sul vetro zigrinato della porta dell’ufficio si consuma un epico scontro tra la forza di gravità e la scritta «Direttore sportivo», la scrivania ospita un posacenere zeppo di questioni in sospeso. Squilla il telefono. «Pronto». La faccia si pietrifica. «È davvero lui? Fallo salire». Paltò scuro e cappello di pelo, così se ne va in giro la Grazia: «Mi chiamo Miodrag Belodedici, sono serbo e voglio giocare per la Stella Rossa».
È uno dei tre, quattro migliori liberi su scala continentale. Dopo sei scudetti di fila, ha appena vinto una Coppa Campioni con la Steaua Bucarest, storica prima volta di una squadra dell’Est sul tetto d’Europa. In Romania lo considerano patrimonio nazionale. Se Ceausescu sapesse, lo farebbe fucilare seduta stante. Belodedici è fuggito, scriveranno i giornali. Per come la vede lui, è solo tornato a casa: figlio di una coppia mista, aveva parlato serbo fino alla quarta elementare e il suo stesso nome, Miodrag, non aveva niente di romeno.
pallone e fucili
In Romania assieme ai gradi dell’esercito, appuntati sulle spalle per meriti sportivi, Belodedici veste le maglie della Steaua, club di riferimento del ministero della Difesa, e della nazionale. Vincerà tutto, fino al trofeo più bello che ci sia. Ma anche un trionfo come la Coppa Campioni, a quelle latitudini, si deforma sotto la pressione totalitarista. È il regime ad esser campione, non la squadra. E guai a chi sgarra, tipo Helmuth Duckadam.
Il portiere eroe della finalissima di Siviglia (Eroul de la Sevilla, per la stampa romena), dopo aver parato tutti e quattro i rigori calciati dal Barcellona, con le sue manone d’oro afferra la coppa dalle grandi orecchie e si fa fotografare dai media occidentali. Sarà l’ultima presa salda della sua vita. Leggenda vuole che Valentin Ceausescu, tignoso figlio del dittatore, gli abbia fatto spezzar le dita dalla polizia segreta (la Securitate) per il semplice fatto che il portierone rifiutasse di consegnare al partito la fiammante Mercedes - roba mai vista in Romania - che il presidente del Real Madrid gli aveva regalato quale segno di somma riconoscenza per la cocente umiliazione inflitta agli acerrimi rivali blaugrana. Sotto Ceausescu non si vive, figurarsi giocare a pallone: Belodedici cerca un’altra patria. Quella giusta. Col pedigree che aveva, sarebbe potuto fuggire ovunque: Italia, Spagna, Francia, Inghilterra. Invece no, Jugoslavia. «La vera patria è quella in cui incontriamo più persone che ci somigliano», diceva Stendhal. Temendo vendette trasversali, Miodrag si porta appresso mamma e sorella. La signora Danita ha una sola richiesta: si fa accompagnare a pregare in una chiesina bianca, la più antica di Belgrado, incastonata da qualche secolo nel fianco della città. Non c’è bisogno di dire a quale santo sia dedicata.
NEMICI DEL POPOLO
La rappresaglia di Bucarest non si fa attendere: il tradimento di Belodedici, aggravato dal rango militare, è punito con una condanna in contumacia a dieci anni. Il contratto professionistico «sparisce» dagli archivi della Steaua, col risultato che la Uefa non può ratificare subito il trasferimento alla Stella Rossa e il giocatore, prima di poter procedere con una sorta di tesseramento ex novo, deve attendere un’intera stagione. Più o meno lo stesso tempo che resta nella clessidra di Ceausescu. Il quale nel giorno di Natale 1989 cadrà, assieme col suo regime, sotto i colpi del plotone d’esecuzione che - amara ironia della sorte - avrebbe volentieri riservato al calciatore fuggiasco.
INCASTRI
Aggiunto Belodedici, campione fatto e finito, al gruppo di talenti coltivati nel giardino di casa, la Stella Rossa punta al bersaglio grosso europeo. Stojanovic in porta, Belodedici, Jugovic, Mihajlovic, Prosinecki, Savicevic, Stojkovic, Pancev. Serbi, croati, macedoni, montenegrini. Tutti assieme. La squadra è l’ultimo avamposto dell’utopia unionista del compagno Tito: «Sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti, un Tito». Le forza centrifuga dei nazionalismi sta per allontanare da Belgrado i frammenti di un paese che non può stare insieme. È questione di poco. La Stella Rossa no, sorregge ancora quel manifesto. Lì dentro, un minimo comune denominatore sono riusciti a trovarlo sul serio. Si chiama talento.
Prendete Robert Prosinecki. Nato in Germania Ovest da una coppia serbo-croata emigrata per lavorare nel settore alberghiero, esibisce sin da bambino i tratti più sublimi del fantasista balcanico. Svagato, indecifrabile, attraversato da scosse di onnipotenza momentanea. Adolescente, torna a Zagabria coi genitori. Le porte delle giovanili della Dinamo si spalancano e ben presto, a 17 anni, si parla di salire in prima squadra. Però lo scartano. È il 1987. Il vecchio Prosinecki non si arrende e una mattina si infila all’Hotel Esplanade di Zagabria. Ci ha passato la vita negli alberghi, sa come muoversi senza dare nell’occhio. Avvicina l’uomo del destino: «Dottore, permette una parola?». L’altro già sa, perché tutti i papà della Jugoslavia gli chiedono la stessa cosa: «Mio figlio gioca a calcio. È bravo davvero, mi creda, ma qua non capiscono».
Quarantotto ore dopo, a Belgrado, Robert Prosinecki umilia i suoi pari età al mattino e ottiene una partitella al Marakanà per il pomeriggio. L’uomo dell’Esplanade, anni dopo, si farà bello coi giornalisti: «Gli ho visto fare meraviglie col pallone. Era ovvio che avevamo per le mani un calciatore di un’altra categoria». Il dottor Dragan Dzajić, sempre lui, ne ha imbroccata un’altra.
Nell’estate 1988 girerà per la nazione e incastrerà nuovi pezzi del puzzle. Darko Pancev, attaccante macedone che gli interisti odiano come la morte per i suoi tre gol in tre anni nerazzurri, ma che con la Stella Rossa vincerà la scarpa d’oro. Dejan Savicevic, incatalogabile prodigio montenegrino che i milanisti amano come la vita per essere rimasto, anche in rossonero, il Genio che fu a Belgrado. Entrambi fanno il militare, ragion per cui compaiono in campo a singhiozzo. Fa l’ingresso in rosa anche un longilineo terzino con un mucchio di capelli così, comprato dal Vojvodina campione jugoslavo a sopresa: Sinisa Mihajlovic, che milanisti e interisti - come romanisti e laziali - hanno odiato e amato a fasi alterne. Dalle giovanili spunta un mediano con la faccia da geometra del catasto e le orecchie un po’ a sventola: Vladimir Jugovic, anni 22. Un gran bel geometra, ma non per il catasto. Citazione obbligatoria per il gioiello della corona, anche se lascerà il club nel 1990, appena prima del culmine collettivo: Piksi, Dragan Stojkovic. C’è poco da dire. Il miglior calciatore jugoslavo di sempre, il dieci naturale, la poesia, un Maradona in cirillico.
«We are FUCKED»
Dopo un’agilissima sgambata contro gli svizzeri del Grasshopper, nella Coppa Campioni 1990/91 la Stella Rossa agli ottavi trova i Glasgow Rangers. Sulla panchina dei britannici siede Graeme Souness detto Champagne Charlie, nomignolo british che negli anni Settanta indicava i figli della working class che ce l’avevano fatta e non lo nascondevano, fra donne feste e bella vita. Souness, scozzese con la faccia molto più sveglia della media nazionale, fuori dal campo era uno talmente lanciato da aver bazzicato una Miss Svezia pescata dalla pregiatissima collezione del compianto George Best. In campo era anche più lanciato. Da giocatore ha alzato tre volte la Coppa Campioni col Liverpool (cui si aggiungono cinque campionati inglesi). Prima di smettere passa alla Samp e fa storia anche sotto la Lanterna, col primo trofeo di peso per i blucerchiati (Coppa Italia ‘85). Da coach, pianterà dopo un derby la bandiera del Galatasaray al centro del campo del Fenerbahçe, scatenando una notte di scontri terrificanti in tutta Istanbul.
Ai Rangers, fedele al proprio Dna guascone, Champagne Charlie ricopre il bizzarro ruolo di allenatore-giocatore, che non gli impedirà di vincere quattro scudetti ma gli rende impossibile spostarsi a Belgrado per dare una studiata ai rivali di coppa. Così ci manda il suo vice. Un telegramma dalla Jugoslavia avrebbe dovuto far luce sui punti deboli della controparte e suggerire metodi per sfruttarli. Passa una settimana, poi il vice di Champagne Charlie telegrafa la propria serena e distaccata analisi dell’avversario: «Siamo fottuti. Stop».
L’andata a Belgrado è un massacro: 3-0 e una squadra sola in campo, Prosinecki infila il 2-0 con una punizione capolavoro. Al ritorno il pareggio 1-1 serve solo per l’autostima degli scozzesi.
Quarti di finale: Dinamo Dresda. L’andata a Belgrado è un massacro: 3-0 e una sola squadra in campo, Prosinecki apre le danze con una punizione capolavoro. Da segnalare anche il terzo gol: Savicevic, chirurgia pura in diagonale da fuori area. Al ritorno (dopo una pièce di teatro dell’assurdo regalata ancora da Savicevic, che mette a sedere mezza Germania Est), il 3-0 a tavolino per lancio di oggetti testimonia i danni all’autostima dei tedeschi.
Semifinale: Bayern Monaco. L’andata in Baviera è un colpo di scena: 2-1 per la Stella Rossa in rimonta. Gol partita di Savicevic in contropiede. Il ritorno è un giro della morte, coi tedeschi che ribaltano 2-1 la punizione iniziale di Mihajlovic e opzionano i supplementari prendendo, con perfetto aplomb bavarese, il controllo sull’inerzia della gara. Quando manca un minuto al 90°, però, Augenthaler sporca un cross innocuo e lo spedisce sotto la traversa, la goffaggine del portiere fa il resto. Due pari. La Stella Rossa è in finale.
«NAPRED ZVEZDA ALE»
L’ultimo avversario è l’Olympique Marsiglia, gran bella squadra in cui spicca il nome di Papin. La finalissima si gioca il 29 maggio ‘91 a Bari, per l’occasione invasa dagli ultras della Stella Rossa, i Delije. Cantano a squarciagola Napred Zvezda ale («Avanti Stella alè»). Nelle fila dei francesi ritroviamo Stojkovic, ceduto dopo la straordinaria prestazione al Mondiale dell’anno precedente, in cui la Jugoslavia s’era arresa solo nei quarti contro la Germania, che avrebbe poi sfilato la coppa dalle mani di Maradona. La sottotrama dell’ex tormentato dal crepacuore sarà la vena più preziosa, a livello emotivo, di tutta la nottata. Piksi parte in panca. Guarda i vecchi compagni, gli ultras, distingue i canti, le parole, gli affetti. Affronta un dolore antico. La partita è bloccatissima, saranno tutti concordi nell’archiviarla fra le peggiori finalissime Champions di sempre. Zero a zero, rigori.
L’allenatore del Marsiglia butta dentro Stojkovic al 110°, confidando nel suo sinistro fatato per la riffa da undici metri. Piksi, consapevole che per la Jugoslavia non passeranno altri treni, rifiuta di calciare.
L’ultimo lo mette Pancev.
Uno dei più grandi incastri di talenti di sempre, dopo aver macinato ogni avversario, arriva alla meta. L’orgoglio jugoslavo vive la sua ultima notte felice nello stadio di Bari.
Non c’è bisogno di dire a quale santo sia dedicato.