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 2016  ottobre 23 Domenica calendario

Pierlù, stragista del principio di coerenza– È un fatto che la coerenza è andata a ramengo. Con la scusa del Sì e No al referendum diversi individui stanno rinnegando sé stessi per puro tornaconto personale

Pierlù, stragista del principio di coerenza– È un fatto che la coerenza è andata a ramengo. Con la scusa del Sì e No al referendum diversi individui stanno rinnegando sé stessi per puro tornaconto personale. Premetto che voglio parlare di Pier Luigi Bersani ma prima delineo il quadro. Nel 2012, l’attore Benigni ci propinò in tv lo slogan della più bella Costituzione del mondo e guai a chi la tocca. Per farsi paladino dell’intangibile Carta del 1948, si beccò pure dalla Rai un cachet di 1,8 milioni. Ora, invece, sostiene il Sì al referendum che ratifica le modifiche costituzionali a cui tanto tiene Matteo Renzi. Un primo compenso per la giravolta, Robertaccio l’ha incassato con la trasferta a Washington, per lui e signora, a spese della collettività e successivo pranzetto con Barack Obama. È immaginabile che, in prospettiva, conti sulla benevolenza del premier per altre remunerative serate Rai. Se passiamo ai politici, i voltagabbana sono legione e sempre per interesse. C’è un tale che fu addirittura presidente del Senato. Parlo di Renato Schifani che ha votato la riforma costituzionale, approvata in aprile, esaltandone i cambiamenti con decine di comparsate tv. Poi, in settembre, ha lasciato Angiolino Alfano e Ncd per tornare dal Berlusca che aveva tradito tre anni fa. Da allora, ricompare ogni ora in tv per dire l’opposto di quello che aveva sostenuto prima. Ossia, è per il No con la stessa faccia di bronzo di quando diceva Sì tre mesi fa. E per cosa si svende? Per aggrapparsi alla speranza di una rielezione nel 2018 se il Berlusca, bontà sua, ne ripagherà il servilismo con un posto in lista. Uno schifani in seconda E ora veniamo a Bersani, che è uno Schifani in seconda e capeggia la minoranza antirenziana del Pd. È un tipo ondivago con improvvisi voltafaccia. Al pari di Schifani, Pierlù ha votato ogni singolo passaggio - ed erano centinaia - della riforma costituzionale approvata dal Parlamento. Ora, ha invece deciso di rinnegarsi e votare No, silurando il provvedimento che ha sottoscritto. A questo punto - per obbedienza - i suoi seguaci - Cuperlo, Gotor, Speranza e nomi così - passeranno al No, pur avendo votato Sì in Parlamento. In altre parole, un’autentica strage del principio di coerenza. Mi chiedo, cosa diranno agli elettori per giustificare un comportamento così schizoide. E con che faccia potranno raccomandare ai figli, per esempio, di non dire bugie, mantenere la parola data, ecc. Ma nel caso del nostro Bersani c’è di peggio. Chi lo conosce dice che a lui della Costituzione non interessa un baffo. Il suo obiettivo è scalzare Renzi e vota No per cacciarlo. Bersani è, infatti, convinto che, se il Fiorentino salta, sarà lui a riprendere le redini del Pd. Ed è qui che Bersani diventa davvero patetico. Come fa a pensare che chicchessia -salvo i quattro gatti suoi seguaci, peraltro tiepidi - abbia istinti tanto suicidi da rivolerlo segretario del Pd? Ma non è mai riandato col pensiero ai guai che ha combinato nei quattro anni, 2009-2013, in cui ha guidato il partito? Fu un leader disastroso, umorale, indeciso a tutto, senza strategia. E passi, che abbia danneggiato il Pd. Ma la sua incapacità ci ha messi nelle peste tutti. dimissioni liberatorie Partiamo dal fondo. Aprile 2013, inizio dell’attuale legislatura. Dopo avere clamorosamente fallito il fallibile Bersani si dimise da segretario, con generale sollievo. In un paio di mesi, tra la striminzita vittoria elettorale della sinistra e le dimissioni, ne fece di tutti i colori. Ricordo a volo d’uccello, l’incaponimento di trattare con i grillini per portarli al governo, con lui premier. Fu preso a randellate e umiliato via streaming. Poi, quel bonaccione del Cav gli propose di fare insieme un gabinetto sinistra-destra, la sua fissa di allora. In cambio, gli offrì addirittura il voto di Fi per dargli il trono del Quirinale. Bersani Capo dello Stato, pensate! E quello che fa? Rifiuta perché non voleva favori dal Berlusca e si sentiva sicuro di andare a Palazzo Chigi. Uno svampito. Da allora, e per un mese intero, non ne azzeccò una. Mise Laura Boldrini alla presidenza della Camera e Pietro Grasso a quella del Senato. Due arrivisti estranei al mondo della politica, la cui promozione indispettì tutti i partiti e condanna tuttora le Camere ad essere guidate da due macchiette: una cupa suorina e un tronfio pavone. l’errore del quirinale Ma il crollo definitivo avvenne sbagliando clamorosamente l’ultima mossa: trovare un sostituto a Giorgio Napolitano che doveva lasciare il Quirinale per scadenza del settennato. Bersani candidò prima Romano Prodi e poi Franco Marini, buttandoli allo sbaraglio e facendoli impallinare entrambi. A questo punto si capì che lui era un asino in mezzo ai suoni e la sua leadership di cartapesta. Ciondolò la testa per un paio di giorni, finché ebbe l’accortezza di dimettersi, lasciando a Enrico Letta il via libera per Palazzo Chigi. Da allora vivacchia e, se fa parlare di sé, è solo per qualche incaponimento tipo il No al referendum. Bersani è una promessa mancata che, messo alla prova, ha deluso. Ormai ha 65 anni e la partita è chiusa. Di lui si può parlare da storici. Fece bene in due sole circostanze. Da Governatore dell’Emilia-Romagna tra il 1993 e il1996. Ma giocava talmente in casa - rosso lui, rossa la Regione - che non fa testo. Più meritoria la sua esperienza come ministro, carica che ricoprì tre volte. Eccelse allo Sviluppo Economico, nell’ultimo governo Prodi, 2006-2008, facendo memorabili semplificazione amministrative di cui molti cittadini si sono avvantaggiati, dal trasferimento dei mutui da una banca all’altra, ai passaggi di proprietà automobilistici. antiberlusconismo astioso Il resto è un deserto. Quando il governo Prodi II cadde e il Cav vinse le elezioni del 2008, Bersani si trovò a spasso. Palazzo Chigi era in mano al centrodestra e nel Pd comandava Walter Veltroni. Non gli restava che girarsi i pollici. Divenne astioso. Fu preda di un antiberlusconismo malato e di raptus contradditori capital-marxisti. Per esempio. Rinfacciò a Giulio Tremonti di non abbassare le tasse, che è un rispettabile punto di vista liberale. Ma quando il ministro tolse l’Ici sulla prima casa, osservò da perfetto comunista: «Il vantaggio è andato ai ceti medio-alti, non certo ai poveri». La tipica incontentabilità dei frustrati. Tremonti lo pigliava per i fondelli chiamandolo Bersanow. un capo politico inetto Fu così che, per non finire alla neuro, scalzò dalla segreteria Pd Dario Franceschini, successore di Veltroni. Promise mari e monti tra cui il rilancio del partito che, alle Europee di quell’anno, si era fermato a un modesto 26 per cento. Poi, non partorì neanche il proverbiale topolino e si rivelò per quello che già sappiamo: inetto come capo politico. Non gli riuscì mai di imporre un suo uomo alla guida di una città. Nel 2011, appoggiò a Milano Stefano Boeri e divenne sindaco Giuliano Pisapia. Nello stesso anno, scelse per Napoli tale Andrea Cozzolino e vinse Luigi De Magistris. L’anno dopo, candidò a Genova il sindaco uscente, Marta Vincenzi, e fu eletto Marco Doria, spinto da Nichi Vendola. Venne infine il giorno della grande prova: l’elezione politica del 2013. Vinse la sinistra, ma solo grazie agli alleati. Il Pd fece invece fiasco e Bersani uscì sconfitto anche nel confronto con Franceschini, prendendo un punto in meno: 25 a 26. Della successiva figura barbina ho già detto all’inizio. Mi pare che basti.