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 2016  ottobre 20 Giovedì calendario

NON HO CAPITO NIENTE (DELL’AMORE, DEL TEATRO, DELLE DONNE...)– [Ennio Fantastichini] Per capire Ennio Fantastichini bisogna arrivare al suo frigo

NON HO CAPITO NIENTE (DELL’AMORE, DEL TEATRO, DELLE DONNE...)– [Ennio Fantastichini] Per capire Ennio Fantastichini bisogna arrivare al suo frigo. E leggere le due frasi che da anni tiene appese lì. La prima è di Oscar Wilde, ed è abbastanza nota: «Posso resistere a tutto tranne che alle tentazioni». L’altra, di Friedrich Nietzsche, è più aulica: «Se rivolgi a lungo lo sguardo nell’abisso, anche l’abisso affonda lo sguardo in te». «Una è da vecchia zia, l’altra da Colonnello Kurtz di Apocalypse now: mi rispecchiano» spiega l’attore. Interprete di «antieroi», Fantastichini, 61 anni, nato a Gallese, un paesino dell’alto Lazio, compiuti i 15 anni è scappato a Roma. «Ai miei genitori dissi: me ne vado, comincio la mia camminata su questo pianeta» racconta. Ora è Giovanni Reitani, il personaggio chiave di Squadra antimafia 8 (in onda su Canale 5 ogni venerdì sera), un boss vendicativo in perenne t-shirt nera come l’architetto Massimiliano Fuksas e lo sguardo spiritato di Al Pacino in Scarface. E poi è al cinema nel film Caffè di Cristiano Bortone, dove interpreta un melanconico uomo in fuga, «un fallito di quelli che piacciono a me». Nella sua casa romana, tra molte sigarette fumate, sculture di alieni e divinità indiane, ci racconta come è iniziata la fascinazione per l’abisso. «Ho avuto una formazione gotica: leggevo la biografia di Santa Maria Goretti, violentata e uccisa nei campi, e poi mi perdevo a guardare i quadri di Lucas Cranach e Matthias Grünewald». Com’era la sua famiglia? «Mio padre tornò a piedi dalla Russia, un carabiniere, un uomo duro. Mio nonno, grande invalido di guerra, aveva cinque figli, quando qualcosa non andava aspettava di arrivare a tavola e poi lanciava il cappello a chi aveva fatto qualcosa di sbagliato. E quello doveva alzarsi e sparire. Autoritario? Forse, ma allora c’era rispetto. C’era quello che chiamo l’orologio di Pulp fiction». E sarebbe? «Quell’orologio che Bruce Willis deve recuperare assolutamente perché è l’unico ricordo del padre morto in Vietnam. È come in Gioco all’alba di Arthur Schnitzler, è il senso dell’onore, una delle tante cose che abbiamo perso». Anche lei tira il cappello a tavola? «No, sono un padre protettivo, apprensivo, anche troppo. Avevo sempre paura di sbagliare, ci sono state grosse tensioni con la madre di Lorenzo, mio figlio. Ho cercato di educarlo alla gentilezza». Ci è riuscito? «Una sera mi disse: “Papà, avevi ragione, è bellissimo essere gentili”. È stato il mio picco pedagogico, la sola volta che mi sono sentito utile, interessante ai suoi occhi. So che con lui ho sbagliato, spero che un giorno perdonerà i miei errori. Ora ha 20 anni e vuole fare l’attore. E io sono spaventato». Perché? «È un lavoro emotivamente pericoloso, un continuo up and down, e poi noi attori siamo tutti dei feriti. Quando Lorenzo ha debuttato a teatro mi è scesa la lacrima». Il boss Reitani che piange non sembra attendibile. «È un periodo che sono facile al pianto. E non mi vergogno. Piangevo a Venezia alla presentazione del mio ultimo lavoro, Caffè... Quando si stavano per accendere le luci mi sono detto: “Che cosa fai, ti commuovi in un film dove reciti? Allora sei fottuto”». Non è che ha trovato per caso l’amore? «Quando mi chiedono dell’amore rispondo di chiamarmi un taxi. Perché da vecchio, ormai, posso dire che non ci ho capito niente, non so che cosa sia. Se sei saggio a questa domanda non riesci a rispondere. Roland Barthes ci provò in Frammenti di un discorso amoroso. Sei innamorato? Allora sei malato. Sono in ritiro, diffidente. Mi dico: “Ennio, manca solo che ti innamori”». Il suo personaggio si definisce un lupo, è così anche lei? «Mi arrabbio quando mi chiedono se amo fare solo i cattivi. Io non interpreto i cattivi, ma gli antagonisti. Li ritengo più interessanti». Chi sarà dopo il boss? «Re Lear. Il prossimo anno sarò a Roma, al Teatro Argentina. Ho il terrore, ho molta più paura adesso che a 18 anni». Teme i giudizi? «Non leggo recensioni, mi fanno solo incazzare». E allora di che cosa ha paura? «Di quanto è cambiato il mio mondo. Negli ultimi dieci anni leggo cose che mi piacciono e non arriveranno mai in scena e altre delle quali mi chiedo: a che servono? Allora penso che sono obsoleto. Forse non ho capito nulla. Mi ricordo una frase di Gian Maria Volonté, che considero un maestro, in Porte aperte, tratto dall’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia, il film più importante della mia vita: “A me di fare il mio lavoro così non interessa più”. E io lo capisco». Si sente vecchio? «No, mi sento Peter Pan, quando fai il mio lavoro e racconti le vite degli altri ti scordi della tua. Ma poi succede come a Orson Welles che un giorno disse: "Sono arrivato a Los Angeles a 18 anni e mi sono seduto su una panchina, mi sono alzato e ne avevo 68”». In Squadra antimafia Reitani sembra l’unico che non ha paura di morire. È così? «È un vampiro, uno che ha vissuto per 40 anni in preda alla vendetta, gli hanno ucciso moglie e figlio. Ha qualcosa del Conte di Montecristo. Non ha paura di morire, perché è come se fosse già morto». E gli attori che vivono tante vite, hanno paura di morire? «Quelli che si sentono fanciulli hanno una presunzione d’immortalità. Se hai praticato le tenebre artisticamente, nella vita non le temi. Mi ricordo che da bambino andavo a vedere i morti. A ripensarci sembrava una scena di Pietro Germi». Commedie amarissime, senza lieto fine. «Non c’è il lieto fine. Io cerco ancora quella carezza che da piccolo mia madre non mi ha dato. La vita è una partita che si gioca in un campo da squash. Faticosissima. Alla fine ti arrendi, ti perdoni».