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 2016  ottobre 20 Giovedì calendario

IL SENATO RENZIANO? UN CAOS DI RICORSI


A chiacchiere, Matteo Renzi li descrive come ectoplasmi della politica chiamati a fare semplice atto di presenza in Parlamento. E invece quei vecchi e potenti senatori, che i sostenitori del Sì promettono di ridurre a lombrichi della politica, proprio grazie alla riforma Boschi potrebbero trasformarsi in tanti piccoli Rambo appostati nella palude del Palazzo, pronti a muoversi nelle pieghe dei regolamenti per far scattare la guerriglia sulle leggi in arrivo dalla Camera.
Insomma, altro che approvazione velocissima delle leggi: il grande bluff della riforma costituzionale si annida proprio tra i poteri del nuovo Senato, quello che viene annunciato come «cancellato» e invece sopravviverà a se stesso, rischiando di creare ingorghi e conflitti istituzionali senza precedenti. Intorno al famigerato articolo 70 si muove infatti il baricentro della legge costituzionale renziana, incentrato sulla necessità di ridurre i tempi di approvazione delle leggi «eliminando» la lettura del Senato. Il quale, in realtà, conserva il potere di approvazione delle leggi che riguardano le modifiche costituzionali, i trattati Ue, le leggi elettorali, i referendum e le norme sugli enti locali. Qui il bicameralismo sarà anche più blindato di prima.
E su tutte le altre leggi ordinarie? Palazzo Madama non scomparirebbe affatto in caso di vittoria del Sì. Anzi, il futuro di qualsiasi disegno di legge sarebbe affidato a un manipolo di 30-35 persone: basterà che un terzo dei 100 componenti del Senato chieda di esaminare il ddl (entro dieci giorni) per poterlo modificare nei 30 giorni successivi, con un voto a maggioranza assoluta (51 persone in tutto). Almeno le lungaggini si ridurranno? Non contateci. Nella precedente legislatura, il tempo medio di approvazione di un disegno di legge di origine governativa, in seconda lettura al Senato, era stato di 52 giorni: il risparmio di tempo, con la riforma Boschi, sarebbe in tutto di una decina di giorni. Perfino il teorema sulla lentezza del Senato è smontato dai numeri: nei primi sei mesi di legislatura i ddl di iniziativa parlamentare, quelli che in genere hanno vita più dura, hanno richiesto in media 197 giorni per l’approvazione a Palazzo Madama, contro gli oltre 200 di Montecitorio. Fatto sta che Renzi martella gli italiani sui tempi delle interminabili «navette» tra i due rami del Parlamento. Perché? Difficile da capire: nella scorsa legislatura su un totale di 390 ddl diventati legge ben 301 sono passati con una sola tappa in entrambi i rami, con una media di 150 giorni contro i 120 stimati dal governo con la nuova procedura.
Ma il pasticciaccio brutto del «bicameralismo imperfetto» si consuma anche su altri aspetti, ancora più gravi. Ai nuovi senatori toccherà esprimersi sulle leggi che riguardano gli enti locali, ma se da Palazzo Madama arriveranno proposte di modifica, la Camera dovrà approvarle nuovamente a maggioranza assoluta; invece, sulle leggi di bilancio, il Senato potrà solo proporre modifiche. Un papocchio: alcuni costituzionalisti hanno contato fino a dieci possibili varianti nei vari processi legislativi. E c’è di più: l’articolo 70 e i successivi vanno letti anche immaginando che alla Camera possa esserci una maggioranza politica e al Senato un’altra su base «regionale». Scenari da apocalisse, spiegati dal costituzionalista Massimo Villone, esponente del comitato per il No di Libertà e giustizia: «Immaginate che con l’Italicum vinca il Movimento 5 stelle e abbia la maggioranza alla Camera. Ma al Senato? Su base regionale, considerando anche che le scadenze degli enti locali, con rispettive nomine, non coincidono con il voto delle politiche, il Pd potrebbe avere
una sua maggioranza. A quel punto Palazzo Madama diventerebbe una roccaforte dell’opposizione con l’obiettivo di bloccare le leggi in arrivo da Montecitorio...». Tale intenzione si può tradurre in fatti? Sì, proprio la riforma renziana apre le porte al potenziale conflitto tra i due rami del Parlamento e quello tra gli enti locali e lo Stato. Per esempio: l’articolo 70 stabilisce che i due presidenti decidano insieme le questioni di competenza «sulla base dei rispettivi regolamenti». E se i presidenti non fossero d’accordo? Qui la riforma tace. E apre la strada alla possibilità che le singole Camere, su iniziativa dei parlamentari, possano ricorrere alla Consulta su ogni atto conteso. Ma non basta. Se le Regioni o le province a Statuto speciale contestassero le competenze che lo Stato avoca a sé, potrebbero dichiararsi parte lesa e fare ricorso, anche in questo caso alla Consulta «in via principale». Ma anche nel merito degli atti amministrativi gli enti potrebbero sollevare un «conflitto di attribuzione».
Infine i sindaci: anche a loro la riforma offre la possibilità di ricorrere davanti al Tar, che a sua volta sarebbe chiamato a sollevare un giudizio di costituzionalità. Se poi si considera che le leggi che disciplinano l’elezione dei parlamentari possono essere sottoposte al giudizio preventivo della Consulta proprio su ricorso dei senatori, è evidente che c’è poco da stare sereni...