Marco Cicala, il venerdì 21/10/2016, 21 ottobre 2016
L’UOMO CHE NON SAPEVA DI ESSERE FITZGERALD– [Pietro Citati] ROMA. In fatto di romanzieri americani, da ragazzi ci si divideva – ma senza troppa animosità – tra hemingwayani e fitzgeraldiani
L’UOMO CHE NON SAPEVA DI ESSERE FITZGERALD– [Pietro Citati] ROMA. In fatto di romanzieri americani, da ragazzi ci si divideva – ma senza troppa animosità – tra hemingwayani e fitzgeraldiani. A 86 anni Pietro Citati, lui, resta risolutamente fitzgeraldiano. Nel 2006, all’autore di Tenera è la notte dedicò un bel saggio biografico, La morte della farfalla, che ora viene riproposto da Adelphi. «Quando nel 1936» scrive Citati in apertura, «Francis Scott Fitzgerald pubblicò L’incrinatura (The Crack-Up), i suoi amici, e i suoi nemici si indignarono profondissimamente». Ritenevano che in quello scritto, raccontando i propri fallimenti, FSF si fosse messo a nudo oltre ogni tollerabile decenza. Senonché, ricorda doverosamente Citati, «la letteratura non ha molto a che fare con la decenza o il decoro». E perciò L’incrinatura è un capolavoro. A partire dalla leggendaria asserzione d’attacco, che recita: «Naturalmente la vita intera non è che un processo di disgregazione». Citati, la vita non è che un processo di disgregazione? «La mia spero di no. Quella di Fitzgerald certamente sì». Beveva di brutto. «Sì, ma se per un Poe o un Baudelaire l’alcol era uno strumento di conoscenza per spingersi oltre la realtà, Fitzgerald beveva solo per superare il proprio complesso di inferiorità. Non si sentiva all’altezza né come scrittore né come uomo». Per questo si riconosceva nel Lord Jim di Conrad. «Lo vedeva come un emblema del fallimento. Ma Lord Jim immagina di essere un fallito. Non lo è. Fino alla fine riesce a salvare gli altri. Esattamente come Fitzgerald che non era inferiore a nessuno, sia come scrittore che come uomo. Ad esempio fu un bravissimo padre. Vedi le bellissime lettere alla figlia Scottie». Ma allora perché si buttava tanto giù? Forse perché, a differenza dell’amico-rivale Hemingway, non aveva fatto la guerra, la Prima, e l’autostima virile ne aveva risentito? «Non so se c’entrasse la guerra. Però pensava di non aver fatto abbastanza esperienze. E anche qui sbagliava. Scrittori come Flaubert, Proust o Kafka non avranno fatto più di due o tre grandi esperienze in tutta la loro vita. Il genio non ha bisogno di esperienza perché è in se stesso esperienza. I geni conoscono tutta la realtà anche se non hanno fatto niente. Fitzgerald aveva perciò tutta l’esperienza necessaria. Si pensi a Tenera è la notte. Difficile immaginare un romanzo che contenga più esperienza. È tra i quattro o cinque più belli del Novecento». È libro sull’effimero, lei scrive, e sui pericoli del fascino moderno. «Cesare, Augusto, Ovidio, esercitavano fascino. Ma il fascino antico non racchiudeva negatività. Quello moderno invece nasconde qualità distruttive. E autodistruttive». La morte della farfalla sono due biografie al prezzo di una: quella di Scott o e quella di Zelda. Fitzgerald non è concepibile senza la moglie? «Come uomo no. Ma per il romanziere Zelda è solo un frammento di realtà». Eppure Scott la invidiava. Si considerava inferiore anche a lei. «Zelda possedeva un’intelligenza naturale della quale Fitzgerald, ancora a torto, pensava di essere privo. Zelda non era colta, ma dotata di un certo gusto artistico. Le sue prove letterarie furono molto modeste, per non dire pessime». Quando di notte tornavano a casa più o meno ubriachi, si buttavano sul letto e parlavano, parlavano. Chiacchieravano fino all’alba. Quelle conversazioni, scrive Scott: «erano qualcosa di essenziale nei nostri rapporti, un tipo di vicinanza che non raggiungevamo mai nel mondo ordinario del matrimonio». Tra sperperi, gelosie, tradimenti fu pur sempre una storia d’amore come non se ne fabbricano più. «Grandissima e infelicissima. Da entrambe le parti. Anche a seguito di questo amore lei finirà pazza». Come spesso gli infelici, Fitzgerald è capace di momenti di felicità lancinante. «In lui è difficile sciogliere l’infelicità dalla felicità. Perché l’infelicità lo fa essere felice e la felicità infelice. La sua vita è un rimando continuo di parti». Lei lo accosta a Leopardi. «In entrambi l’infelicità è attraversata da lampi vertiginosi di felicità. Ma Leopardi è stato più costantemente infelice di Fitzgerald». Che negli anni ruggenti conobbe uno straordinario successo. Guadagnò un mucchio di quattrini. «Moltissimi, specialmente con i racconti. Ma a partire dalla grande crisi del ’29 tutto si capovolge. Non viene più pagato o pochissimo. Per gli uomini degli anni Trenta Fitzgerald non è che la personificazione degli anni Venti e di quella felicità folle che precipitò nel grande crac. È espressione di un tempo irreparabilmente finito. Però proprio nel momento in cui è più disprezzato lui scrive Tenera è la notte, la sua cosa più bella». Anche Gatsby non scherza. «È chiuso, conciso, “tacitiano”, di una concentrazione perfetta. Ma Tenera è la notte è infinitamente più ricco». Lei a che età ha scoperto i grandi americani? «Verso i quindici anni. Cominciai con Hemingway». Che però non le sta simpatico. «Non molto. Nel fondo provava odio e invidia per Fitzgerald che sapeva essere più bravo di lui. Con Scott si comportò in modo abbastanza abietto. Comunque Addio alle armi è un libro davvero molto bello, il suo migliore». Gli americani viventi li legge? Eventualmente, chi le piace? «Non mi incantano. A chi pensa?» Non so, Philip Roth... «Bah...». Franzen. «Ampiamente sopravvalutato». Corre voce che lei abbia smesso di leggere i contemporanei negli anni Ottanta. Invece continua a tenerli d’occhio... «Qualcuno. La scuola cattolica di Edoardo Albinati è un ottimo libro. Volevo scriverne ma è così lungo che quando ho finito di leggerlo erano già uscite tutte le recensioni». Scrivere – diceva Scott Fitzgerald – è «nuotare sott’acqua e trattenere il respiro». «Fitzgerald non era un grande teorico, ma quella formula è quanto di più esatto si possa dire del genio artistico. Ha a che fare con la sobrietà, il non dire tutto, l’omettere. Non c’è grande scrittore che non abbia omesso. L’omissione è arte. È l’essenza del genio. Non si può imparare». Mentre insegnare a scrivere si può? «La grande scrittura non si insegna. Si può insegnare a scrivere decorosamente». E magari a leggere. «Beh, la critica dovrebbe essere anche un modo per insegnare a leggere...». Goethe, Tolstoj, Kafka, Proust, Leopardi... Nei suoi libri più importanti lei si confronta con i grandi autori fino all’immedesimazione. Però pochi anni fa scrisse un libro sui Vangeli ed Eugenio Scalfari commentò: stavolta Citati si identifica con Dio... (Sorriso) «No, l’idea di autore onniscente mi è perfettamente estranea. Da Proust a Musil, i grandi scrittori del Novecento sono spesso onniscenti. Io assolutamente no». Da Mondadori ha in uscita un nuovo libro di saggi, Sogni antichi e moderni. «Che parla di tutto». Tutto tutto? «Giobbe, il Cantico dei cantici, il Cristianesimo, Ovidio, Plutarco, il medioevo, i vichinghi, la pittura... E poi Nerval, Nietzsche, il teologo Dietrich Bonhoeffer». Tanta roba in effetti. «Il libro raccoglie, rielaborati, gli interventi dell’ultimo decennio. Dentro ci sono 2.500 anni di letteratura». Esiste un capolavoro che lei non abbia letto? «Dovrei rileggere la Divina Commedia. Non lo faccio da tanto tempo». No, intendevo se c’è un grande libro che lei non abbia proprio mai letto... (Sospiro di riflessione) «Boh, no, non credo che ci sia. Anzi no: non c’è». Marco Cicala