Giuliano Malatesta, il venerdì 21/10/2016, 21 ottobre 2016
QUELLA LIBRERIA BELLA COME UN ROMANZO
James Joyce non arrivava mai prima di mezzogiorno, e aveva spesso bisogno di soldi. La «signorina Stein», come la chiamava ironicamente Hemingway, «occhi bellissimi e la corporatura massiccia di una contadina», si presentava sempre accompagnata dal suo barboncino bianco. Scott Fitzgerald era solito accomodarsi a leggere nella veranda assolata mentre l’autore di Fiesta faceva incetta, naturalmente a credito, di letteratura russa: Turgenev, l’edizione di Guerra e Pace di Constance Garnett e Il Giocatore e altri racconti di Dostoevskij. Nei primi anni Venti, quando sembrava che Parigi fosse il centro del mondo, quella che sarà in seguito etichettata un po’ forzatamente come la Generazione Perduta frequentava una piccola libreria al 12 di Rue de l’Odéon. Si chiamava Shakespeare and Company e l’aveva aperta nel 1919 Sylvia Beach, una ragazza del New Jersey figlia di un pastore presbiteriano che era arrivata in Francia durante la Guerra e che in seguito diventerà una delle donne più conosciute di tutta Parigi per aver avuto l’intuizione di pubblicare, tra le altre cose, l’Ulisse di Joyce, nonostante il monumentale lavoro dello scrittore irlandese fosse stato giudicato osceno e messo al bando sia in America che in Gran Bretagna. In quegli anni Shakespeare and Company divenne il punto di riferimento della cultura anglo-americana parigina e per quei giovani e squattrinati scrittori un luogo di ritrovo essenziale che funzionava invariabilmente da banca, circolo letterario, club house o anche semplice rifugio consolatorio, quando magari c’era da sfogarsi per un diniego di un potenziale editore che poteva far presagire un futuro non particolarmente brillante. Poi la storia seguì il suo corso e la libreria fu costretta a chiudere nel 1941, sotto la minaccia dei nazisti che avevano occupato la città.
Quando un visionario e stravagante ragazzo di nome George Whitman arrivò a Parigi nel secondo dopoguerra, dopo aver girato mezzo mondo con la zaino in spalla, conosceva perfettamente la storia di Sylvia e sembrava affetto dalla stessa spasmodica fissazione per i libri e per tutto quello che gli ruotava intorno. Frequentava dei corsi alla Sorbonne, passava gran parte del tempo a collezionare testi di seconda mano che rimediava nei bouquinistes, le librerie a cielo aperto lungo la Senna create da Enrico IV, e sognava di mettere in piedi «un’utopia socialista mascherata da libreria». Ci riuscì nel 1951, quando per poco più di 500 dollari acquistò, al 37 di rue de la Bûcherie, all’ombra di Notre Dame, tre umide stanze senza elettricità dalle quali non si sarebbe mai più separato. Shakespeare and Company era tornata in vita.
«Quando lo vidi a Parigi per la prima volta stava vendendo libri fuori dalla sua stanza di albergo agli studenti americani e sembrava già in preda ad una strana forma di bibliomania», ricorda divertito Lawrence Ferlinghetti nel bellissimo libro (Shakespeare and Company, Paris: a History of the Rag & Bone Shop of the Heart, curato da Krista Halverson) pieno di ricordi, storie, lettere d’archivio e fotografie che raccontano dall’interno la seconda vita della libreria inglese più famosa d’Occidente. Dove ancora oggi si può leggere sul muro del primo piano il motto scritto anni addietro dal proprietario: «Non essere inospitale con gli stranieri, potrebbero essere degli angeli mascherati». George pensava che fosse di Yeats, invece era una citazione dalla Bibbia. Ma non faceva granché differenza perché Whitman credeva che tutti i buoni libri fossero in fondo delle Bibbie, nel senso che portano con sé qualcosa di trascendente.
Se la libreria di Sylvia Beach era in qualche modo associata alla Generazione Perduta quella di George Whitman è stata per lungo tempo la casa dei ragazzi della beat generation, che arrivarono a Parigi nell’autunno del ’57 e si installarono nella Rive gauche, in un lurido hotel senza nome, in seguito ribattezzato “hotel beat”, allora conosciuto per le sue atmosfere liberal e per le stanze economiche affittate da una certa Madame Rachou, che in mancanza di contante si faceva pagare con non meglio precisate opere d’arte. Uno dei fedelissimi della libreria era William Burroughs, che non rinunciava mai al rito pomeridiano del sunday tea, durante il quale si lamentava costantemente per non riuscire a trovare compagnie gradevoli che non fossero quelle dei libri. Allen Ginsberg passava serate intere a conversare con Whitman sullo scibile umano, mentre di Gregory Corso si ricorda soprattutto una celebre performance di lettura completamente nudo davanti a oltre mille persone. Al termine della quale il padrone di casa servì con disinvoltura fruit punch e biscottini vari.
«Ho creato questo posto come uno scrittore scriverebbe un romanzo, costruendo ogni stanza come un capitolo», raccontava Whitman, che cominciò più di una volta a scrivere personalmente la storia della libreria, non superando mai pagina cinque. Troppe suggestioni, impossibili da sistematizzare su carta per uno come lui. Dalle corrispondenze private con Graham Greene e Lawrence Durrell alle incursioni notturne di Henry Miller, che una volta si presentò a sorpresa intorno a mezzanotte, bottiglia in mano, per quello che lui chiamava un rendez-vous; dai travestimenti della Callas, ossessionata dalla privacy, ai monologhi di Roland Barthes, che fece impazzire la platea raccontando dei suoi trascorsi romani, quando dalla stanza del suo Hotel passava le giornate appollaiato contro il muro per origliare i discorsi dei vicini. La scrittrice Anaïs Nin addirittura lasciò le sue volontà sotto il letto di Whitman, mentre anni dopo un Bruce Chatwin di ritorno da uno dei suoi famosi viaggi in Patagonia scrisse sul libro degli ospiti: «From the end of the world to the center of it».
La libreria era anche una fucina di idee. Oltre alle numerose presentazioni, Whitman organizzava seminari e ospitava la redazione di alcune riviste d’avanguardia, come la Merlin, messa in piedi da un gruppetto di giovani bohémien che pubblicavano Sartre e Jean Genet e che si vantavano di aver scoperto Samuel Beckett. Anche quelli della Paris Review erano di casa a Rue de la Bûcherie, compreso Peter Matthiessen, uno dei fondatori della rivista che in seguito si rivelò essere un agente della Cia. D’altronde in quegli anni di guerra fredda la paranoia era ai massimi e praticamente ogni americano all’estero o era sorvegliato o sospettato di essere un agente segreto. Incluso George Whitman, che aveva immaginato la sua libreria come una sorta di meraviglioso centro sociale letterario. Qualcosa di veramente simile a un’utopia socialista, un luogo aperto a tutti dove si poteva passare l’intera giornata a suonare il pianoforte o a sfogliare libri su panche imbottite che la sera si trasformavano silenziosamente in letti per chiunque non avesse voglia, o possibilità, di tornare a casa. In cambio bisognava solo lavorare due ore, scrivere una pagina di autobiografia e promettere di leggere almeno un libro al giorno. George chiamava questi ospiti tumbleweed, riferendosi a quelle piante senza radici che rotolano attraverso le pianure americane spazzate dal vento. «Siamo tutti vagabondi senza fissa dimora», ripeteva spesso. Si stima che dagli anni Cinquanta abbiano dormito lì circa 30 mila persone. Una tradizione che continua ancora oggi che la libreria è gestita dalla figlia Sylvia, abile nel traghettare Shakespeare and Company verso la modernità senza rinunciare alla propria storia. Con il tempo è riuscita persino nell’impresa di catalogare i libri in ordine alfabetico. «Mio padre li sistemava in base a misteriosi “interesting marriages”» racconta. George Whitman se n’è andato nel dicembre 2011, a 98 anni. Andava ancora tutti i giorni in libreria. È sepolto nel cimitero di Père-Lachaise, tra Jim Morrison e Abelardo ed Eloisa. Gli sono sempre piaciuti i matrimoni interessanti.
Giuliano Malatesta