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 2016  ottobre 23 Domenica calendario

DA GHEDDAFI ALL’ISIS: 5 ANNI DI DANNAZIONE PER SIRTE

Era il settembre 2011 quando per più di un mese i razzi e i carri armati dei ribelli hanno martoriato la città di Sirte, colpevole di essere il feudo natale e l’ultimo bastione della resistenza di Gheddafi. All’interno, nascosto fra i traballanti edifici, il Colonnello con i suoi più fedeli sostenitori, fino a quello storico 20 ottobre, dove con l’aiuto degli attacchi della coalizione, i guerriglieri di Misurata l’hanno stanato, catturato e ucciso.
Dopo 8 mesi di battaglie, con la fine della guerra è scomparso anche il sogno della Jamahiriya, la Libia di Gheddafi, modellata nei decenni di potere, a sua immagine e somiglianza.
La peggiore fra le guerre, quella intestina contro i propri fratelli, ha liberato il paese dal satrapo che per 42 anni ha giocato con il mondo, lasciando però vuoti difficili da colmare in ogni strato della Società.
Ricordo la speranza nelle voci stanche e negli occhi lucidi dei combattenti dopo mesi di battaglie, mischiate a un sentimento di confusione sul futuro. Lo spirito di avventura, il coraggio e l’incoscienza, sono tipici dei giovani guerriglieri che non hanno mai imbracciato un fucile prima di venire attraversati dal desiderio di libertà, un fiume in piena capace di annebbiare anche le vere ragioni della lotta. Una necessità più importante della vita stessa, per il quale si è disposti anche a morire. Un’utopia difficile da rincorrere, ma così forte da trascinare un paese in uno scontro civile.
Sono passati 5 anni, la guerra è cambiata ma la storia si ripete. La speranza del passaggio da uno stato dittatoriale a uno democratico ha lasciato il posto all’odio e alla disgregazione, e il sogno di libertà si è trasformato in un incubo che ha le sembianze del nero spettro dello Stato Islamico.
I guerriglieri di Misurata, alleati al governo di Tripoli e appoggiati alla coalizione internazionale, da mesi lottano contro i militanti dell’Isis, terzi incomodi in una diatriba che ha lacerato il paese: da una parte l’ex governo di Transizione, il Nuovo congresso nazionale federale con base a Tripoli; dall’altra il governo riconosciuto di Tobruk e del generale Haftar, vecchia conoscenza americana. Nell’alternanza di poteri e interessi internazionali, le vere forze militari rimangono i gruppi armati che sotto l’egida del generale di turno, cercano di dividersi un paese in frantumi, disgraziato dalla sua più grande fortuna: il petrolio.
In questo scacchiere politico, con la presenza di un doppio governo e l’assenza di uno spirito nazionale – vero motore della rivoluzione del 2011 – ora divorato dalla sete di potere, i miliziani dello Stato islamico sono riusciti a insediarsi nel paese e conquistare terreno, da Derna a Sirte.
Quella di oggi è una guerra ancora più sporca. Lo Stato islamico ha preso il controllo delle città libiche affabulando la popolazione e poi imponendo, attraverso il terrore e le uccisioni pubbliche, le loro regole e modus vivendi. Ora abbandonati e quotidianamente sotto attacco, resistono nell’unico quartiere rimasto in loro controllo, il Distretto 3 di Sirte.
Come spettri, oltre i cecchini, usano armi non convenzionali per resistere all’assedio, come le booby trap, Ied e auto-bomba. Perciò i guerriglieri di Misurata, senza training né organizzazione militare, faticano ad avanzare e conquistare nuove posizioni nonostante l’aiuto dell’aviazione di Tripoli e di quella internazionale.
Ho assistito a due grandi offensive, che in entrambi i casi hanno lasciato circa 50 persone ferite e 10 uccise, senza che i combattenti di Misurata conquistassero nuove posizioni. Nonostante ciò, la nuova guerra ha le stesse forme e le stesse sofferenze di quella del passato. A Sirte ci sono gli stessi quartieri, strade e edifici, ma invecchiati di 5 anni, come gli occhi di chi è tornato a combattere. Le case, devastate nel 2011 da un fuoco incessante durato settimane, sono un cumulo di macerie: pensavo fosse impossibile vedere così tanta distruzione.
Alla battaglia del passato si sommano le piaghe del nuovo conflitto, lasciando un paese in ginocchio, dove la mancanza di un governo nazionale e di sentimento comune verso una vera rinascita, la rendono facile preda delle politiche internazionali e terreno fertile per le incursioni dei gruppi islamici radicali.