Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  ottobre 23 Domenica calendario

Fonte: Mimmo Cosenza, Il Sole 24 Ore 2/10/2016 Testo Frammento IL BITCOIN PUÒ FUNZIONARE SENZA L’AUSILIO DI UNA AUTORITÀ CENTRALE? – La storia recente del denaro è stata lacerata da Nixon nel 1971 con il ritiro della convertibilità internazionale del dollaro in oro

Fonte: Mimmo Cosenza, Il Sole 24 Ore 2/10/2016 Testo Frammento IL BITCOIN PUÒ FUNZIONARE SENZA L’AUSILIO DI UNA AUTORITÀ CENTRALE? – La storia recente del denaro è stata lacerata da Nixon nel 1971 con il ritiro della convertibilità internazionale del dollaro in oro. Tanto cercata quanto attesa, quella scissione della storia detonò ugualmente nelle stanze dei bottoni come un nietzscheano “Dio è morto” in una canonica di campagna. Ben più silenziosa, e proprio nel giorno dei morti del 2008, fu la comunicazione, in una mailing list cyberpunk, di Satoshi Nakamoto: I’ve been working on a new electronic cash system that’s fully peer-to-peer, with no trusted third party. Era nato Bitcoin, anche se si dovette attendere il 3 gennaio 2009 per assistere all’estrazione della prima pepita d’oro digitale che voleva vendicare l’affronto di Nixon. Va sotto il nome di genesis block e porta in sé, come prova esadecimale temporale e incorruttibile, il riferimento al titolo in prima pagina di The Times di quello stesso giorno: Chancellor on brink of second bailout for banks. In tantissimi oggi stanno disperatamente cercando di separare il corpo dallo spirito, Bitcoin dalla Blockchain. Ma lo spirito di Bitcoin È la Blockchain e rimarrà per sempre in quell’annuncio nel giorno dei morti e in quella marca temporale nel giorno della nuova tentazione della Banca Centrale Inglese. Uno e trino: Immutabile, Trasparente e Distribuito. Non esiste Blockchain senza immutabilità delle transazioni passate, perchè nessuno può cambiare il passato senza rovinare se stesso insieme agli altri. Come nell’eterno ritorno dell’uguale: una volta, o è per sempre, oppure non è nulla. Non esiste Blockchain senza trasparenza di tutte le transazioni, della prima come dell’ultima. Solo gli attori delle transazioni sono (pseudo)protetti: si dice il peccato, non il peccatore. Viceversa sarebbe delazione. Non esiste Blockchain senza controllo distribuito. Può anche essere che Dio non giochi a dadi, ma la Blockchain si. Così come nel gioco dei dadi il risultato del prossimo lancio non ubbidisce a nessuno, perchè ogni numero ha sempre la stessa probabilità di uscire di tutti gli altri, anche il controllore delle transazioni di Bitcoin è scelto dal caso e nessun umano è ancora riuscito a sottometterlo. E forse questo il motivo per cui in tanti si ostinano a voler separare la Blockchain da Bitcoin? Se la democrazia rappresentativa è la peggiore forma di governo possibile con l’eccezione di tutte le altre forme già sperimentate, neppure Churchill si stupirebbe se un giorno potesse vedere la distribuzione discreta uniforme, su cui si basano Bitcoin e l’intera criptografia, contaminare nuove forme di governo e di controllo. Fa una certa impressione vedere paesi senza governo da mesi, come la Spagna, crescere il triplo dell’Italia, cosa che in passato fece anche il Belgio. Molti ritengono che il merito della crescita della Spagna non sia dell’assenza di governo, come l’anti-politica populista vorrebbe far credere, ma di chi aveva precedentemente definito le nuove regole prima di perderne la guida. Che la ragione sia l’una o l’altra, la percezione dell’efficacia e dell’efficienza delle istituzioni centralizzate non ne esce certo rinforzata. Nakamoto, sfruttando caso e incentivazione economica, ha dimostrato di poter risolvere il problema del controllo di ciò che è considerato vero o falso dalla maggioranza nel contesto delle transazioni peer-to-peer, senza bisogno di un’autorità giudicante centrale, cosa fino a quel momento considerata impossibile. Bitcoin ha aggiunto alla storia dell’uomo uno di quegli scatti in avanti ottenuti attraverso il coraggioso superamento dei divieti di infrangere proibizioni dettate dalle consuetudini umane cementatesi con il tempo nel suo immaginario collettivo. Altri tabù verranno superati. Fonte: Marta Serafini, Corriere della Sera 15/9/2016 Testo Frammento LA PIÙ GRANDE MINIERA MONDIALE DEI BITCOIN È IN CINA – A Kongyu, nella regione tibetana di Garze, la chiamano tutti «The Mine», la miniera. Ma qui non si estrae niente. Tra cieli blu, turbine elettriche e fiumi, sulle montagne del Sichuan occidentale, a venti chilometri dal resto della civiltà, ha sede la più importante centrale di controllo delle transazioni in bitcoin. Niente oro o diamanti, dunque. La ricchezza di «The Mine» è la moneta virtuale, il cui scambio passa attraverso i microprocessori collocati in questa centrale. «Quando i bitcoin sono stati creati erano considerati un’idea cripto punk e libertaria», ha spiegato al Washington Post Eric Mu, capo marketing della HaoBtc, colosso proprietario dell’impianto. Il sogno era che l’economia potesse svincolarsi dal controllo di banche e governi. Oggi, diciassette anni dopo, mentre il mondo ancora si interroga sull’identità di Shatoshi Nakamoto, lo pseudonimo dietro cui si cela l’inventore della cripto moneta, per ironia della sorte, questo mercato da 9,2 miliardi di dollari è finito sotto il controllo cinese. A favorire la Cina in questa partita, la produzione dei microprocessori più economici e più adatti alla gestione del mercato dei bitcoin. Inoltre, nonostante il governo di Pechino abbia vietato alle banche il commercio di bitcoin nel 2013, ai singoli imprenditori è permesso fare transazioni in cripto moneta, con il risultato – secondo un rapporto di Goldman Sachs – che l’80 per cento del volume di scambi in bitcoin ha coinvolto la moneta cinese, lo yuan. A far cadere la scelta sul Tibet come sede di «The Mine» ha giocato invece la presenza di elettricità e di manodopera a buon mercato necessaria a far funzionare i microprocessori. Lasciate indietro dunque l’Irlanda e la Mongolia, individuate in prima battuta come sedi di «The Mine», il cervellone dei bitcoin è approdato sul Tetto del mondo. La routine della miniera dei bitcoin è «semplice», spiega ancora Mu. Alle 7.50 ogni mattina si tiene una riunione operativa per stabilire gli obiettivi e discutere le criticità. Chi arriva tardi viene sanzionato (ma non è dato sapere come). Poi, nel pomeriggio, c’è spazio per qualche attività ricreativa. Quasi nessuno dei dieci operai assunti lascia «The Mine» «perché nei dintorni non c’è assolutamente niente da fare», come confessa il manager cinese sul sito Coindesk.com. Ad attirare qui la mano d’opera, paghe più alte che nelle centrali idroelettriche della regione. Così per meno di mille dollari al mese c’è chi vive qui, tra turbine e microprocessori, aspettando con ansia il mese di ferie concesso. Fonte: Stefano Agnoli e Massimo Sideri, Corriere della Sera 11/9/2016 Testo Frammento CONIO, LA PRIMA AZIENDA CHE VENDE IN BITCOIN – Quella di Conio è una storia di vecchi amori. «Mio nonno era contadino: vorrei mettere insieme tecnologia e agricoltura» aveva detto Vincenzo Di Nicola subito dopo avere venduto, nel 2013, la sua start up sui pagamenti GoPago ad Amazon per una cifra mai svelata. Ma Di Nicola non ce l’ha fatta a restare lontano dalla monetica: ora ha fondato una società di intermediazione sulla moneta peer-to-pee r, il bitcoin, con Christian Miccoli, un altro imprenditore che, esattamente come lui, non ce la fa a restare lontano da questo mondo. Miccoli è il padre del famoso Conto arancio di Ing. Uno startupper e un banchiere. Missione nella loro testa: permettere anche ai piccoli risparmiatori che non si interessano di tecnologia e che non sanno cos’è una blockchain di acquistare e vendere bitcoin. «Oggi il bitcoin è una moneta per iniziati e viene descritta solo nel suo aspetto tecnologico. Ma al risparmiatore interessa solo la semplicità nella gestione ed è quello che vogliamo permettere con Conio» racconta lo stesso Miccoli. Dunque Conio non sarà una borsa come Btc China, solo per citare la più importante. Ma una società che offrirà dei prodotti con dentro i bitcoin. La prima in Italia. Fino a oggi, in effetti, l’unico modo di possedere dei bitcoin – oltre al «mining» cioè alla produzione della criptomoneta attraverso le reti torrent – era quello di fare un bonifico in una delle Borse europee o asiatiche e iniziare a fare trading sulle piattaforme. «Il dilemma era però la tassazione» spiega Maurizio Dattilo, dell’omonimo studio di commercialisti a Milano. «Fino a oggi io stesso, per prudenza, avrei consigliato a un cliente di mettere i guadagni ottenuti grazie ai bitcoin nella dichiarazione dei redditi». Proprio per risolvere questo dilemma Dattilo ha presentato un interpello all’Agenzia delle Entrate ottenendo una risposta molto precisa: «Per quanto riguarda la tassazione ai fini delle imposte sul reddito dei clienti della Società, persone fisiche che detengono i bitcoin al di fuori dell’attività d’impresa, si ricorda che le operazioni a pronti (acquisti e vendite) di valuta non generano redditi imponibili mancando la finalità speculativa» si legge nel documento fresco di pubblicazione. Dunque: niente tasse. Niente capital gain. Niente. Un risultato non da poco se si considera che le fluttuazioni dei bitcoin possono essere notevoli. Solo negli ultimi dodici mesi siamo passati da una quotazione di circa 220 dollari per bitcoin a oltre 600 (ragione per cui bisogna fare molta attenzione, visto che, come sono saliti i bitcoin, in passato, sono anche scesi drasticamente, soprattutto quando è emersa qualche frode come il crac della Borsa giapponese, Mt Gox, due anni fa). Inoltre, ciliegina sulla torta, niente Iva, in quanto il bitcoin come valuta non può essere considerato un bene. Unica accortezza: per evitare di essere considerati speculatori, e uscire così dalla definizione data nel documento, bisognerebbe evitare di tenere una giacenza media di 51 mila euro per sette giorni. L’Agenzia, comunque, non ne fa cenno. La sensazione è che per ora si sia aperta una finestra molto favorevole che non è detto che rimanga. Per Dattilo e Miccoli si tratta anche di un ottimo risultato per il Paese: «L’Italia è il primo Paese, sicuramente in Europa, che ha dato una interpretazione chiara dal punto di vista fiscale sulla compravendita dei bitcoin. È una pietra miliare. Anche negli Stati Uniti bisogna mettere i guadagni nella dichiarazione dei redditi, vista l’incertezza interpretativa. Questo documento dell’Agenzia rende più facile l’adozione dei bitcoin in Italia». Il bitcoin nel nostro Paese non ha mai scaldato particolarmente gli animi, almeno non quello dei piccoli risparmiatori. Per la moneta senza banca si apre ora la prova del mercato. Blockchain, la complessa tecnologia alla base dei bitcoin, ha appena cominciato a rimodellare il settore finanziario. Fonte: Massimo Sideri, La Lettura 28/8/2016 Testo Frammento BITCOIN, «LA BANCA CENTRALE SONO IO» – Di tanto in tanto, generalmente in concomitanza con qualche notizia bizzarra, con qualche mitomane che cerca di passare per il genio che lo ha inventato o, più spesso, con qualche frode, sui media rispunta il famigerato bitcoin. Anche quest’estate, in agosto, il casus belli è stato un furto: 72 milioni di dollari sono scomparsi dai conti degli utenti di una piccola borsa di Hong Kong, Bitfinex. I soliti ignoti al lavoro in versione web. Le indagini sono in corso e chissà se si arriverà mai a qualcosa. Ma per alcuni questa è già la riprova che il bitcoin è il nuovo «sterco del diavolo», la moneta medievale da cui stare lontani trattata dai libri di Jacques Le Goff: i danari pagati a Giuda per il più alto dei tradimenti rimangono sempre nell’aria. Nonostante tutto, per altri, resta l’invenzione del secolo. L’ennesima. Ciò che non cambia è il contesto del dibattito: all’opinione pubblica la moneta elettronica viene presentata più come un’arte negromantica fuori tempo massimo che come un fenomeno economico. Eppure dopo anni di «scomunica» ufficiale da parte della sacra finanza, quella delle banche, è proprio la sua natura socio-economica, ancor prima di quella tecnologica, che sta risollevando l’interesse per quella che potrebbe essere la base delle transazioni future. Quest’anno nel disinteresse comune il World Economic Forum ha detto che l’80 per cento delle banche potrebbe lanciare dei progetti basati su una blockchain entro il 2017. La vera gallina dalle uova d’oro non sarebbe tanto il bitcoin in quanto valuta, ma la blockchain, la catena che si viene a formare dall’unione in Rete di milioni di computer: è una sorta di database accessibile a tutti, ma che nessun singolo ha il potere informatico di cambiare. O meglio: il costo per modificare tutte le infinite periferie della blockchain sarebbe così alto da annullare qualunque tipo di guadagno. La rivoluzione del bitcoin è qui: la memoria della sua produzione, della distribuzione e della proprietà non è in qualche server centralizzato, un bunker inaccessibile come quello delle banche o dei servizi di pagamento come Paypal, ma ovunque. Letteralmente. La blockchain in qualche maniera è l’anti-banca. Ed è forse questo essere l’antimateria che crea l’attrazione gravitazionale che la finanza tradizionale subisce. Per capire il fenomeno bisogna estrarre il bitcoin dalla sua sfera alchemica, per riportalo alla pura transazione economica. Sforzo non facile perché per migliaia di anni la moneta ha avuto alcune caratteristiche essenziali che noi le riconosciamo e che oggi il denaro peer-to-peer, cioè creato da pari a pari attraverso le reti condivise di computer, sembra avere tradito. La prima è quella ricordata da Jorge Luis Borges nella raccolta di poesie La moneta di ferro : «Ecco qui la moneta di ferro. Interroghiamo le due opposte facce e avremo la risposta». Grazie alle due immancabili facce, testa o croce, la moneta è stata per secoli strumento del caso laddove il bitcoin – che, per inciso, nonostante la diffusa abitudine di usare la maiuscola come se fosse un prodotto, andrebbe minuscolo come tutte le valute – non ne ha nessuna. Non si può lanciarlo in aria per avere un verdetto. Non si può cercare in esso la fortuna. La seconda caratteristica è che da sempre il conio è stato il simbolo stesso del potere centralizzato. La tradizione vuole che la moneta sia nata con Creso, re di Lidia, nel VI secolo a.C., un’origine incerta proprio come accade per la e-moneta che ancora cerca il suo padre, noto con lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto. Da Creso in poi chiunque abbia avuto un potere lo ha manifestato stampando la propria effigie su una moneta: i persiani, i greci, i romani, i barbari che usurpavano il potere negli incerti confini dell’impero del IV-V secolo dopo Cristo, Carlo Magno, le Città-Stato come le moderne economie. Nessuno del popolo o della borghesia poteva sperare in tanto. Al contrario il fascino per molti ignoto del bitcoin risiede proprio nell’avere disatteso questa legge che sembrava scolpita nella pietra della politica monetaria: oggi chiunque può decidere di scendere con il proprio computer nelle cosiddette «miniere» del conio, proprio come in passato si doveva scendere sottoterra a cercare l’oro, materia prima della moneta. Chiunque può partecipare al conio scaricando uno dei molti software che si trovano nelle reti Torrent, come Slush, vincendo il proprio pezzettino di moneta. E nessuno può pensare di essere un neo Sforza, Gonzaga o de’ Medici. O, al contrario, tutti possono sognarlo almeno un po’ partecipando al conio. Quello che vende è un sogno: «La Banca centrale sono io». A ben vedere l’unica essenza della moneta tradizionale che ritroviamo nel bitcoin è l’incrollabile fiducia in essa. Da quando nel 1931 il sistema monetario internazionale ha abbandonato definitivamente il Gold Standard, che imponeva di immagazzinare un pari quantitativo di oro per tutta la moneta in circolazione, tutti noi lavoriamo per avere a fine mese dei pezzi di carta e delle monete di materiale vile. Crudele ma vero. La vera moneta è la fiducia nel sistema e il bitcoin, in qualche maniera, ha assorbito questa magia. Per paradosso a dimostrarlo ci sono proprio i furti come quello avvenuto a Hong Kong: la valuta crolla ma poi si riprende sempre come era già accaduto nel 2014 quando era fallita la stessa borsa di Tokyo, Mt. Gox, al tempo la più grande al mondo. Nonostante le perdite, oltre 600 milioni andati in fumo, la moneta ha superato indenne il crac. «Solo un miracolo potrà ridarmi i miei bitcoin, ma io credo ancora in questa moneta», aveva testimoniato allora all’Afp Aaron Gotman a Tokyo, pur avendo perso in Mt. Gox la bellezza di 200 mila dollari. Fiducia, cieca ma non irrazionale: nessuno ha perso fede nelle lire nonostante i furti in banca. Per alcuni, è bene sottolinearlo, rimane comunque una sorta di schema Ponzi in cui gli ultimi resteranno con il cerino in mano. L’algoritmo che ne gestisce la produzione è un puzzle che diventa sempre più complicato da risolvere, giorno dopo giorno. Così il primo a scendere nella miniera ha guadagnato milioni facilmente – per la vulgata in rete, alimentata da alcuni documenti di cui nessuno, per ora, è riuscito a dimostrare l’autenticità, questa operazione sarebbe stata portata a termine dallo stesso padre della moneta – mentre oggi bisogna tenere un computer attaccato alla Rete per giorni per potere guadagnare pochi centesimi. Sia come sia, il bitcoin rimane una moneta immatura che non risente, come tutte le altre, dell’ordine al caos imposto con la riforma monetaria carolingia, da cui deriva quella «libbra» diventata poi la lira che ritroviamo in tanti Paesi: tanto che non ha dei sottomultipli. Ma per ora è un enorme laboratorio mondiale per studiare come potrebbe essere un mondo alla rovescia dove per difendere le informazioni non le dovremo chiudere in un fortino segreto in Alaska ma, al contrario, le dovremo dare a tutti, così che i molti possano essere i guardiani dei pochi (furbi o ladri che siano). Ecco il vantaggio per le banche: potrebbero tagliare dai loro bilanci gli enormi costi per gestire i bunker dei segreti e usare tutti i computer in rete per «esternalizzare» la gestione dei dati. Di certo la blockchain sarebbe un sistema basato sulla fiducia nell’umanità, forse un’utopia da perseguire nella speranza che non avesse ragione lo storico dell’economia Carlo Cipolla nel trattato, Allegro ma non troppo, che rimane il suo lascito più famoso: tutti noi sottovalutiamo il numero degli stupidi in circolazione. Fonte: Filippo Santelli, la Repubblica 25/8/2016 Testo Frammento LE GRANDI BANCHE COPIANO IL BITCOIN – Finirà come tante altre utopie libertarie? La promessa del bitcoin, la moneta virtuale più famosa al mondo, era questa. Creare una valuta senza banche centrali, governata dal rigore di un algoritmo e dalle decisioni dei singoli utenti. La fine della storia minaccia di essere diversa. Perché sul bitcoin, o meglio sulla tecnologia contabile che sta alla sua base, la blockchain, per anni affare da visionarie startup, accaniti idealisti o, secondo i critici, loschi trafficanti, ora sono le grandi banche, sempre loro, a allungare le mani. Le ultime a lanciarsi, ha rivelato il Financial Times, sono niente meno che Ubs, Deutsche Bank, Santander e Bny Mellon. Colossi che si sono uniti per lanciare entro l’inizio del 2018 un’infrastruttura di scambio, con relativa unità di conto virtuale, con cui regolare le pendenze finanziarie. Citigroup, JpMorgan e Goldman Sachs nel frattempo lavorano alla loro moneta. Mentre già nel 2017 dovrebbe arrivare la versione di R3, il consorzio newyorchese di cui fanno parte 40 big globali del credito, tra cui gli italiani Intesa Sanpaolo e Unicredit. Il motivo di tanto interesse è presto detto: risparmiare. Ogni giorno gli operatori della finanza si scambiano miliardi di dollari in liquidità e strumenti di investimento. La blockchain è un registro contabile che frammenta le informazioni tra tutti i nodi della rete, senza un’autorità centrale che le controlli. Permetterebbe di togliere di mezzo gli attuali sistemi di compensazione, che con i loro intermediari costano alle banche circa 80 miliardi di euro l’anno. «Pensiamo ai pagamenti internazionali, alla compravendita di titoli o alla finanza a supporto delle imprese che importano ed esportano», spiega Daniele Savaré, responsabile dei sistemi informatici che regolano i flussi di denaro di Unicredit. Un trasferimento verso l’India, che oggi richiede giorni e un partner locale, con la blockchain sarebbe diretto e istantaneo. «Più veloce, sicuro e efficiente». Per il sistema del credito farebbero tra 15 e 20 miliardi di dollari risparmiati l’anno, stimano gli analisti, non proprio noccioline in questi tempi difficili. La banca italiana lavora a diverse applicazioni della tecnologia, con il suo team interno, attraverso partnership con startup e nel consorzio R3. Ogni applicazione della blockchain infatti richiede un’infrastruttura su misura. E la sfida tra le banche, o gruppi di banche – come il progetto di Ubs, Santander e Deutsche conferma – è far sì che i loro protocolli diventino lo standard di settore. Magari con il decisivo bollino di garanzia delle Banche centrali. «In questo di decentrato non c’è più nulla», obietta Antonio Simeone, 32 anni, che con la sua startup Euklid si occupa di trading finanziario in bitcoin. «Dopo avere snobbato e poi ignorato la tecnologia, ora gli istituti cercano di emularla». Con dettagli diversi però, dicono gli adepti della prima ora, in cui si nasconderebbe il diavolo. Nella blockchain messa a punto da R3, per esempio, la transazione è visibile solo tra le parti, non pubblica: altro che trasparenza. E se per i bitcoin sono i singoli utenti a validare gli scambi, ricevendo una ricompensa in sonante moneta virtuale, nella versione dell’alta finanza i “nodi” della rete sono di proprietà dei giganti del credito. Che per questo lavoro, almeno in teoria, potrebbero cominciare a chiedere una tassa, proprio come oggi fanno Visa o PayPal. E passi, finché si tratta dei loro affari. Molto meno quando i pagamenti dovessero coinvolgere i correntisti. O la blockchain essere applicata agli altri settori in cui, sulla carta, il suo registro di proprietà distribuito calza a pennello. Come l’economia della condivisione, dove potrebbe consentire di creare nuovi tipi di contratti. O la salute, con una nuova cartella clinica decentrata, a disposizione di diversi istituti di cura, ma senza pericoli per la privacy. Per non parlare poi del rischio che, in questa corsa all’oro (virtuale), ogni gruppo di banche dia vita a una blockchain diversa, ognuna con il suo linguaggio e incapace di comunicare con le altre. Il sogno originario del bitcoin, in fondo, era anche questo, uno strumento di scambio globale. Andrà a finire come tante altre utopie universali? Filippo Santelli, la Repubblica 25/8/2016 Fonte: Joanne Chu, MilanoFinanza 9/8/2016 Testo Frammento IL BAIL-IN DEL BITCOIN – Bitfinex, la piattaforma di scambio di valuta digitale che la scorsa settimana ha bruciato 65 milioni di dollari cadendo vittima di un attacco hacker, ha in programma la distribuzione delle perdite tra tutti gli utenti, incluso chi non è stato direttamente colpito dalla violazione. In un comunicato di domenica ha informato che i costi saranno condivisi, o «spalmati su tutti i conti e gli asset» dei clienti, e ognuno si assumerà circa il 36%. «Accedendo alla piattaforma, i clienti potranno osservare la percentuale di perdita generalizzata del 36,067%», fa sapere l’azienda, con la precisazione che presto pubblicherà un più completo resoconto. «Questa è la migliore approssimazione di quanto potrebbe accadere in un contesto di liquidazione». In aggiunta, la piattaforma di Hong Kong riserverà ai clienti una compensazione in gettoni di credito. La decisione di Bitfinex fa seguito alla rapina informatica di circa 120 mila bitcoin per un controvalore di 65 milioni di dollari avvenuta martedì scorso, uno dei più grandi furti nella breve storia della chiacchierata criptovaluta. L’hack si va a sommare a un episodio pressoché simile che a giugno è costato circa 60 milioni di dollari al rivale Ethereum. Nel 2014 la fiducia degli investitori nei bitcoin era già stata compromessa da un’altra grave breccia nella sicurezza informatica del servizio giapponese Mt.Gox. Con il rapido ritorno alla prudenza degli investitori su questo genere di trading, stando a CoinDesk, il prezzo del bitcoin ha accusato un crollo del 12% nel corso della settimana in cui si è verificato l’illecito. Bitfinex farà pervenire a tutti i clienti coinvolti un gettone Bfx, accreditando a ciascuno la singola perdita. Il gettone potrà essere riscattato per intero da Bitfinex o eventualmente scambiato, su richiesta, con azioni iFinex, la società cui fa capo. Inoltre, il gruppo è in contatto con numerosi potenziali investitori per la messa a punto di una strategia di risarcimento completo della clientela. Fondata nel 2013, secondo bitcoinity.org Bitfinex è la quinta piattaforma di scambio al di fuori della Cina continentale. L’azienda, che dopo gli ultimi sfortunati eventi ha dovuto bloccare tutte le transazioni, nonché depositi e prelievi di gettoni digitali, domenica prevedeva di tornare online nell’arco di 24-48 ore con funzionalità limitata. (The Wall Street Journal – Trad. Giorgia Crespi) Joanne Chu, MilanoFinanza 9/8/2016 Fonte: Il Foglio 5/8/2016 Testo Frammento EDITORIALI/3 – C’È UN GROSSO BUCO NEI BITCOIN – L’ennesimo attacco hacker a una piattaforma di trading di Bitcoin sta sollevando molti dubbi sull’affidabilità della popolare criptovaluta. Bitfinex, una delle più grandi piattaforme di scambio con base a Hong Kong, ha comunicato martedì una violazione dei suoi sistemi di sicurezza con furto di bitcoin per un valore pari a 65 milioni di dollari che ha costretto gli amministratori a congelare tutti gli account dei clienti. L’episodio si aggiunge a una decina di fallimenti di piattaforme di scambio – il più fragoroso è quello di Mt Gox nel 2014 – in un quadro che preoccupa gli operatori per la tenuta del sistema Bitcoin. I cybercriminali non fanno distinzione tra bitcoin, dati personali, delle industrie o delle banche: ogni asset digitale è a rischio. Evidentemente però le prassi di cybersecurity degli intermediari non sono all’altezza dei volumi scambiati e degli associati depositi fiduciari. E’ paradossale nel mondo Bitcoin – per sua natura un bene incensurabile, inconfiscabile, che rende potenzialmente ogni utente indipendente, come fosse la banca di se stesso – che non si forniscano adeguate garanzie ai risparmiatori. Non esiste per Bitcoin l’equivalente del fondo di garanzia dei depositi. In un ecosistema giovane si verificano peraltro fenomeni bizzarri che alimentano confusione: viene bucata la sicurezza di un exchange e di conseguenza bitcoin perde valore, come se l’euro si svalutasse perché una banca è stata rapinata. La moneta, reale e virtuale, è sinonimo di fiducia. La comunità degli utenti e degli amministratori di piattaforme dovrebbe impegnarsi a difendere una moneta nata nel 2009 con grandi ambizioni globali ma ancora fragile e instabile. Il Foglio 5/8/2016 Fonte: Filippo Santelli, la Repubblica 4/8/2016 Testo Frammento LA CRIPTOMONETA È ANCORA FRAGILE – Rieccoci. Si è aperta una nuova falla nella rete dei bitcoin, la valuta virtuale più scambiata del pianeta. Martedì Bitfinex, sede a Hong Kong, terza piattaforma al mondo per monte delle transazioni, ha annunciato che 119.756 “monete” sono state sottratte dai portafogli dei suoi clienti. Ai prezzi correnti fanno 77 milioni di dollari volatilizzati: è la seconda spaccata digitale più ricca della storia, dopo quella da 450 milioni che ha portato nel 2014 alla bancarotta della giapponese Mt. Gox. «Stiamo collaborando con le autorità per stabilire l’origine dell’intrusione», si legge nel comunicato affisso sulla homepage di Bitfinex, che nel frattempo ha bloccato le operazioni, compresa la possibilità di ritirare il proprio gruzzolo. Generando così un’ondata di vendite su un mercato di suo già parecchio volatile. Il prezzo del bitcoin è precipitato in un giorno del 20%, sotto quota 520 dollari. La criptomoneta insomma si rivela ancora instabile: «Le tecnologie sono mature per evitare questi incidenti, ma devono anche essere usate in modo appropriato», spiega Antonio Simeone, che con la sua startup Euklid sviluppa algoritmi di trading con tecnologia bitcoin. Bitfinex disponeva di un avanzato sistema multifirma per autorizzare le transazioni, ma pare conservasse tutte le chiavi nello stesso server, alla portata dell’hacker di turno. Leggerezze del genere potrebbe essere il regolatore a prevenirle, dice Simeone, fissando standard minimi di sicurezza. La piattaforma europea Bitstamp per esempio, dopo aver subito un furto da 5 milioni di euro, ha trasferito la sede in Lussemburgo dove ora è il primo istituto di pagamento in bitcoin autorizzato e vigilato. Bitfinex si è già presa la responsabilità dell’errore: «L’incidente non ha mostrato debolezze nella struttura della blockchain», ha detto un rappresentante della società riferendosi alla tecnologia contabile decentrata (quindi meno cara e più sicura) alla base della moneta. Innovazione che anche le maggiori banche mondiali, comprese Intesa e Unicredit, sperimentano all’interno del consorzio R3. Non sarà un furto con destrezza a farle desistere. Fonte: ALBERTO BRAMBILLA, Il Foglio 22/6/2016 Testo Frammento BANCA D’ITALIA ABBRACCIA I BITCOIN – Roma. Mentre ai piani alti delle banche europee ci si arrovella sui possibili rivolgimenti derivanti dall’eventuale Brexit, la Banca d’Italia ha approfondito con suoi funzionari, operatori di mercato, accademici e banchieri le potenzialità e le criticità di un’altra rivoluzione della finanza, quella digitale. Ieri mattina la Banca d’Italia ha ospitato per la prima volta un seminario a porte chiuse con l’intenzione di ragionare sulla Blockchain, tecnologia sottostante alla valuta virtuale Bitcoin. Dalla discussione è emerso che la Banca centrale italiana incoraggia senza preconcetti il dialogo con gli intermediari intenzionati a sviluppare una nuova tecnologia che promette, tra l’altro, di abbattere i costi operativi per le banche. La Banca d’Italia ha mostrato una posizione neutrale e aperta verso gli intermediari bancari che intendono usare la tecnologia Blockchain. La nuova tecnologia che promette di cambiare il sistema con cui si possono effettuare transazioni finanziarie nel prossimo futuro è stata l’argomento del seminario “La tecnologia Blockchain: nuove prospettive per i mercati finanziari” tenutosi ieri mattina presso la sede di Roma della Banca centrale e riservato a funzionari di Palazzo Koch, operatori di mercato, accademici e banchieri. Il governatore Ignazio Visco ha aperto i lavori (aveva un discorso preparato, ma sovente ha parlato a braccio) affermando che le innovazioni, in quanto tali, implicano cambiamenti, a volte repentini e a volte lunghi, ma con i quali si deve comunque fare i conti. Persone presenti alla conferenza a porte chiuse riferiscono che Visco ha parlato della Blockchain come la promessa di una rivoluzione epocale di cui però al momento non è chiara l’entità e per questo è da seguire con attenzione. Visco avrebbe detto di non essere un fan della Blockchain com’è stato riportato dalla stampa – con una battuta ha replicato di essere tifoso solo della Sampdoria. La Banca d’Italia s’è detta comunque aperta alla discussione con gli intermediari. Domenico Gammaldi, condirettore centrale e capo del Servizio supervisione sui mercati e sul sistema dei pagamenti, chiudendo il seminario ha detto che per l’Istituto non è possibile regolamentare l’uso della tecnologia e che verranno esaminati i progetti che qualunque intermediario vorrà sottoporre. A quel punto ci si chiederà: che obiettivi si pone un ipotetico progetto? Che problemi ha? Quale forma societaria vuole darsi? Una new company o una realtà ibrida? Per Banca d’Italia entrambe le strade sarebbero percorribili, senza preconcetti. Secondo Gammaldi, l’importante è tutelare la difesa dei risparmiatori e garantire l’interoperabilità delle piattaforme di pagamento. Le istituzioni finanziarie e i regolatori dei mercati finanziari (Esma, Iosco) e monetari (Federal reserve, Bank of England, Banca centrale europea, Bank of Canada) in tutto il mondo sembrano desiderosi di sfruttare la tecnologia Blockchain, ultimamente esaltata dai media. La Blockchain funziona come un libro mastro digitale che registra le transazioni tra due o più soggetti quando esse sono validate da una moltitudine di entità che per il loro lavoro di autentificazione delle operazioni vengono remunerate in bitcoin, la più popolare e diffusa valuta virtuale nata nel 2008. La Blockchain è affascinante perché renderebbe possibile bypassare le autorità centralizzate, dalle banche agli studi notarili. I sostenitori ritengono che la Blockchain possa abbassare di miliardi di euro i costi delle transazioni finanziarie per le banche e attenuare i ritardi burocratici nelle contrattazioni. Gli scettici, moderando l’entusiasmo, evidenziano alcuni problemi. Ferdinando Ametrano, intervenuto a titolo accademico in qualità di professore dell’Università Bicocca di Milano (è anche Head of Blockchain and virtual currencies in Intesa Sanpaolo), è critico della Blockchain senza Bitcoin. Ametrano ritiene infatti che questa tecnologia abbia senso solo come supporto al Bitcoin, la moneta privata che rappresenta l’oro digitale. Nella sua presentazione, Ametrano ha ridimensionato la vulgata secondo la quale la Blockchain è un sistema di certificazione diffusa applicabile in qualsiasi contesto a prescindere dal Bitcoin. Per Ametrano la creazione di un libro mastro non può esistere senza che la comunità di soggetti che validano le transazioni sia remunerata per farlo con un asset nativo digitale presente in quantità finite, come appunto è il Bitcoin. Pensare questo significa compiere lo stesso errore logico che nel 1994 commettevano gli imprenditori che volevano andare online senza andare in internet. Senza contare che un libro mastro al quale si aggiungono dei “blocchi” di transazioni non consente la correzione di eventuali errori o potenziali frodi; la Blockchain a differenza di un normale database informatico aperto non consente modifiche retroattive. Paolo Tasca, direttore del Centre for Blockchain Technologies della University College di Londra, è sembrato invece ottimista su un Blockchain funzionante a prescindere da un asset digitale sottostante per una molteplicità di operazioni che disintermediano un’autorità istituzionale – dal catasto, al trading, all’anagrafe per esempio. Al seminario erano presenti top manager di Unicredit, Intesa Sanpaolo e Banca Sella. Daniele Savarè, Head of product line cash management di Unicredit, ha spiegato che la sua banca ha cominciato a fare prove concrete sulla trasmissione di valore attraverso nuove tecnologie. Mario Costantini, Chief innovation officer di Intesa Sanpaolo, ha detto che il suo istituto valuta sia le Blockchain che operano con asset digitali nativi (pubbliche e permissionless, senza permesso, come Bitcoin) sia quelle senza asset (private e permissioned, che richiedono controllo dei regolatori). Unicredit e Intesa fanno parte con altre 40 banche del consorzio R3, società di servizi tecnologico-finanziari che studia le ricadute pratiche del Blockchain. Pietro Sella, amministratore delegato del Gruppo Sella, ha sollevato il tema dell’unità digitale di valore, toccando quindi i collegati dirompenti temi monetari. DI ALBERTO BRAMBILLA, Il Foglio 22/6/2016 Fonte: Paul Vigna, MilanoFinanza 15/6/2016 Testo Frammento CON BREXIT RIPARTE LA CORSA AL BITCOIN – Dopo il balzo del 21% osservato nel corso del fine settimana, due giorni fa il prezzo del bitcoin ha toccato il massimo da due anni, trattando oltre quota 700 dollari per la prima volta dal 2014. L’impennata ha anticipato di qualche giorno un evento eccezionale detto halving, un adeguamento del protocollo progettato per controllare la creazione di nuove monete. L’ultima volta che la valuta ha scambiato a questi livelli (secondo CoinDesk il massimo di ieri equivaleva a 719 dollari) era il febbraio 2014, nel corso della discesa dal picco di 1.147 dollari toccato nel dicembre 2013. Lanciato nel 2009, il bitcoin è una moneta digitale che funziona su una rete decentrata di computer e non è sostenuta o controllata da alcun governo. Il volume di scambi è in crescita ma resta debole rispetto ad altri mercati dei capitali, quindi una modesta attività di trading può innescare ampie oscillazioni dei prezzi. Stando a Coincap, tra domenica e lunedì pomeriggio sono passati di mano circa 400.000 bitcoin, per un valore di circa 279 milioni di dollari. Al recente incremento possono avere contribuito altri fattori. Quello del bitcoin è un investimento speculativo popolare in Cina. Con una connotazione simile all’oro in quanto riserva di valore, spesso gode di una spinta nel momento in cui gli investitori sono alla ricerca di beni rifugio. Probabilmente il principale elemento chiave a spiegazione del movimento, tuttavia, è un evento raro nel mondo bitcoin che si presenterà nell’arco di un mese: l’halving. In sintesi, il bitcoin è stato progettato per essere eseguito da una rete di computer che confermano in modo indipendente le transazioni. Per assicurarsi che i soggetti siano disposti a contribuire con la propria potenza di calcolo, è stato pensato un premio per ogni blocco di transazioni confermato: un lotto di bitcoin neocostituiti. Poiché questo processo assomiglia in qualche modo a una miniera fisica, i partecipanti sono soprannominati minatori. Al rilascio, il sistema prevedeva un tetto: non più di 21 milioni di bitcoin sarebbero mai stati prodotti (finora sono stati estratti circa 15,7 milioni). Per garantire che i bitcoin fossero estratti nel corso di un lungo periodo di tempo (per gran parte del prossimo secolo) sono stati programmati degli speed bump. Uno è costituito da un gap di circa 10 minuti tra i blocchi confermati. L’altro è un reset quadriennale del premio di estrazione, un evento chiamato halving. Quindi il premio è dimezzato ogni quattro anni. Quando i bitcoin sono nati il premio era di 50 bitcoin. Nel 2012 è stato tagliato a 25 e in meno di 30 giorni sarà nuovamente ridotto a 12,5. Per la precisione mancano circa 26 giorni, ma resta da capire cosa accadrà nel corso di questo dimezzamento. Da un lato, dovrebbe avere un effetto domanda e offerta abbastanza prevedibile: con il taglio dell’offerta, la domanda dovrebbe far salire i prezzi. A quanto pare, questo è quanto sta avvenendo al momento, visto che gli operatori stanno essenzialmente facendo front-running sul dimezzamento. D’altra parte, la rete è cambiata in questi quattro anni. All’epoca dell’ultimo halving, il 28 novembre 2012, era ancora piccola, per lo più una cosa da hobbisti, e i minatori utilizzavano ancora computer desktop e schede grafiche. Oggi si tratta di operazioni di milioni di dollari e il dimezzamento del premio potrebbe devastare i modelli di business. Un miner, lo svedese KnCMiner, ha già presentato istanza di tutela giudiziaria dai creditori. Negli ultimi due anni, buona parte del mining e del trading del bitcoin è stato localizzato in Cina. Quattro dei cinque maggiori minatori sono situati nell’ex Celeste Impero. Anche gran parte del trading è legato al Dragone: un buon 85% dei volumi di negoziazione di ieri era nominato in yuan, mentre la quota assimilabile al biglietto verde equivaleva al 12%. Peraltro, il rialzo ha aiutato un’altra criptovaluta che già stava macinando un buon 2016: Ether, la moneta sottostante a una rete emergente simile al bitcoin, Ethereum. Questa segue il modello bitcoin e sposta il focus dalle transazioni in valuta alle applicazioni di web hosting. In sella al rally del bitcoin, lunedì scorso il prezzo di Ether è aumentato del 14%, a 17,14 dollari. Quest’anno i prezzi di Ethereum avevano già messo a segno un rialzo di quasi il 1.400%, passando da 95 centesimi nel mese di gennaio a 14,17 dollari fino a venerdì scorso. Grandi corporation del calibro di Microsoft e Deloitte negli ultimi mesi hanno iniziato a utilizzare la piattaforma. E il mese scorso la startup Dao ha raccolto Ether per circa 150 milioni di dollari mediante una campagna di crowdfunding, la maggiore mai registrata in assoluto. (The Wall Street Journal) Fonte: Francesca De Benedetti, la Repubblica 12/6/2016 Testo Frammento BITCOIN O CIVIL MONEY, COME CI CAMBIERÀ IL DENARO DIGITALE. INTERVIST A GEERT LOVINK, IL CRITICO DEI MEDIA OLANDESE – Cambierà le tasche e le teste: il denaro digitale ci libererà dal portafogli, e magari dalle banche, nel giro di dieci anni. Il futuro comincia oggi e siamo a un bivio. Potremmo ritrovarci sul telefonino qualcosa di simile al bitcoin, la prima moneta nativa digitale, che promise di essere il denaro di tutti ed è stata profitto per pochi. Oppure possiamo scegliere un “civil money”, un denaro digitale civico, democratizzare gli scambi, liberare freelance e precari dalla condanna del lavoro gratis. Così dice Geert Lovink immaginando il futuro insieme a noi. Il critico dei media olandese ci ha già visto giusto nel 2012 quando dipinse le ombre di internet in Ossessioni collettive (Egea). Ora raccoglie i frutti delle sue intuizioni e torna in libreria con L’abisso dei social media, da noi anticipato a ottobre. Sul fronte dei social Lovink ormai è stato raggiunto da schiere di disillusi. Ma i capitoli dedicati al denaro digitale parlano di un futuro da disegnare: è presto per arrendersi al pessimismo. Non a caso il professore ha coinvolto geek, artisti e attivisti nel progetto di ricerca MoneyLab. Nel Regno Unito i pagamenti elettronici superano quelli in contanti. Il primo ministro indiano Narendra Modi dice di voler trasformare l’India in una società “cashless”. Quando diremo addio alla banconota? «Sistemi di pagamento e valute diverranno in gran parte, se non del tutto, digitali. Le nuove tecnologie governeranno il nostro portafogli entro dieci o al massimo vent’anni. Il sistema monetario non cambierà con una riforma ma con un terremoto: ci sarà una crisi, un’emergenza e le élite proveranno a imporre un nuovo sistema. Con il bitcoin è andata più o meno così: la prima criptovaluta è stata lanciata dopo la crisi del 2008». Il denaro digitale in un’equazione: meno Stato, meno banche, più telefonini e… più disoccupati. Perché? «Dagli anni Settanta il legame tra Stato e denaro si è sempre più allentato, fino alla finanziarizzazione attuale. Il digitale promette di portare quel processo agli estremi liberando il denaro dall’intermediazione di Stato e banche: la tecnologia “blockchain” (dove il registro dei conti non viene gestito dalla banca ma dalla rete, dagli utenti nel loro complesso) consente di operare transazioni senza autorità intermediarie. Nel Sud del mondo gli operatori telefonici fanno già le veci delle banche e i pagamenti sono sempre più via telefonino. Blockchain sarà un “killer” di posti di lavoro nei settori bancario e amministrativo». Il bitcoin è nato in reazione alla crisi del 2008 e al malcontento verso le istituzioni. Prometteva di liberare il denaro dal potere delle banche. Chi ha avvantaggiato davvero? «L’uso primario era criminale: droga, scambi illegali. Dietro la criptomoneta c’era un gruppo di “geek”, poi sono arrivati speculatori e imprenditori. Chi vuol far soldi con il Btc non lo usa: lo compra e lo rivende quando vale di più. Sarà anche senza Stato né banche, ma bitcoin non è esente da scelte politiche: è stato concepito per non superare i 21 milioni di Btc e con una vocazione deflazionistica. Bitcoin è un avatar delle classi privilegiate. Dicono “via i banchieri corrotti, basta tasse” ma usano una logica da start up che non ha nulla a che fare con le istanze dei movimenti sociali. Anzi puntano a accumulare valore chiusi nel loro circoletto». Bitcoin non è un sistema democratico, dice lei. Perché? «Non gode di fiducia sociale e non è una vera rete paritaria “peer-to-peer”. Ha una gerarchia minatori-utenti. Per “estrarre” bitcoin bisogna risolvere problemi informatici sempre più complessi, con apparecchiature sempre più costose e inquinanti. Chi lo fa, i cosiddetti “minatori”, è il vero intermediario. Opera sempre più su larga scala – è sempre più difficile diventare minatori – e ottiene il potere di condizionare il mercato». Il nobel Paul Krugman disse che bitcoin è il male. Altri dicono che ha potenziale ma è troppo compromesso. E Lovink? «Bitcoin ha troppi limiti per poter diventare la moneta alternativa. È stato un test, una “scultura sociale” come avrebbe detto Beyus. Ma invece di urlare che è il male, usiamone il potenziale. Certo, la tecnologia in sé non basta a democratizzare la finanza, anche le grandi banche usano blockchain. Ma quello stesso sistema può aiutarci a decentrare gli scambi e la rete, ora che è in mano a pochi big. Bisogna congegnare sistemi di pagamento peer-to-peer facili da usare. Nell’era del free, la vera rivoluzione sarà cominciare a “darci valore” da pari a pari». Lei quale alternativa auspica? «Un “civil money”digitale. Denaro civico amministrato magari non dallo Stato ma neppure dal grande business, semmai da terzo settore e società civile. L’Europa può spezzare l’asse Wall Street-Silicon Valley proponendo nuovi sistemi di pagamento decentralizzati. Immagino ad esempio un sistema digitale di micropagamenti col telefonino a favore di artisti, produttori di contenuti e della galassia di precari vittime dell’economia del free. Se vogliamo ripensare il denaro, dovremo farlo insieme a loro». ---------------- blob I Bitcoin hanno ottenuto molte attenzioni dei media negli ultimi anni sia per i successi ottenuti dalla valuta, sia per la storia misteriosa intorno alla loro ideazione e creazione. Oggi molti siti li accettano come valuta per fare acquisti online e si stima che ce ne siano circa 15,5 milioni in circolazione. Al cambio attuale ogni Bitcoin vale circa 449 dollari, ma le quotazioni cambiano di continuo in base alla loro produzione e al numero di scambi che vengono effettuati online. Fino a poco tempo fa i venture capitalist (gli imprenditori che si occupano di investimenti allo stesso tempo molto rischiosi ma potenzialmente molto promettenti) parlavano di come Bitcoin – una popolare moneta virtuale che funziona in modo piuttosto complicato – avrebbe rivoluzionato il sistema monetario globale e tolto ai governi il controllo delle transazioni monetarie. Oggi la valuta lotta per la sua sopravvivenza. Questa realtà è venuta alla luce lo scorso 14 gennaio, quando Mike Hearn – uno dei suoi influenti sviluppatori – ha definito Bitcoin un fallimento e ha detto di aver venduto tutti i suoi Bitcoin. Il prezzo di Bitcoin è sceso del dieci per cento dopo solo un giorno dall’annuncio, una brutta notizia per chi ci sta rimettendo dei soldi. Bitcoin aveva un grande potenziale, ma oggi è troppo compromesso per essere rimesso in sesto. È necessario trovare un’alternativa. La maggior parte dei sistemi monetari e di transazioni sono poco trasparenti, inefficienti e costosi. Prendete la borsa americana Nasdaq, per esempio, tra le più tecnologicamente avanzate al mondo. Per comprare o vendere un’azione di Facebook bisogna aspettare diversi giorni prima che la transazione sia completata e saldata. È inaccettabile: dovrebbero volerci millisecondi. In Venezuela per fare la spesa in un supermercato i cittadini devono aspettare in fila tutto il giorno, a causa dell’iperinflazione che ogni giorno fa perdere molto valore al denaro nelle loro tasche. I lavoratori migranti del paese che inviano denaro alle loro famiglie in Messico, India o Africa, sono truffati dalle agenzie di trasferimento di denaro, che applicano commissioni dal cinque al dodici per cento. Anche negli Stati Uniti i sistemi di pagamento elettronico e le società che gestiscono le carte di credito applicano commissioni dall’uno al 2,5 per cento sul valore di ogni transazione. Si tratta di un grande peso sull’economia. Bitcoin era nato con dei seri difetti. Era poco regolato e anonimo, ed era diventato in breve tempo uno strumento per spacciatori e cani sciolti. Le alte oscillazioni dei prezzi favorivano speculazioni spericolate. La maggior parte dei Bitcoin era posseduta dal piccolo gruppo che aveva iniziato a promuoverli, e la moneta digitale era stata paragonata a uno “schema Ponzi” (un modello economico piramidale ingannevole, basato sul reclutamento continuo di nuovi investitori). Le transazioni concluse su Bitcoin avevano gravi falle nella sicurezza. Poi gli investitori in capitale di rischio si sono fatti prendere la mano: molti di loro avevano iniziato a comprare grandi quantità di Bitcoin, promuovendolo come un’innovazione rivoluzionaria capace di sostenere lo sviluppo di diverse innovazioni finanziarie, dal mobile banking ai trasferimenti di denaro istantanei e illimitati. Hanno anche iniziato a investire milioni di dollari in start-up legate a Bitcoin, nella speranza di raccogliere fortune ancora maggiori. Bitcoin non era però pronto per prendersi la scena. Le critiche di Hearn hanno rivelato una realtà da incubo: un lungo e preoccupante elenco di difetti. I “miner” (utenti che si occupano di verificare le transazioni) cinesi di Bitcoin controllano il cinquanta per cento della capacità di creazione di moneta, e sono collegati al resto dell’ecosistema di Bitcoin attraverso il grande firewall della Cina. L’intero sistema ne risulta rallentato – l’equivalente di una cattiva connessione wi-fi in un hotel, ha spiegato Hearn – e offre alla Cina una posizione di vantaggio sulla moneta globale. Il sistema di distribuzione di Bitcoin è in grado di gestire solo poche transazioni al secondo, causando l’imprevedibilità dei tempi di completamento delle transazioni e una serie di altre caratteristiche decisamente poco auspicabili per un sistema monetario. Nei momenti di picco del traffico, per esempio, le commissioni di Bitcoin possono superare quelle delle carte di credito. Come se non bastasse, all’interno della comunità di Bitcoin sembra essersi scatenata una guerra civile. I membri censurano i dibattiti e attaccano i server degli altri utenti. Un comitato ristretto di sviluppatori principali – che controllano il codice alla base di Bitcoin – si è trasformato in una specie di Inquisizione che ne decide il futuro. Si tratta di un duro colpo per la reputazione – e i portafogli – degli investitori, anche se c’è chi tra loro si ostina a difendere Bitcoin. È tempo di ammettere che Bitcoin nella sua forma attuale va rottamato, e sfruttare le innovazioni della tecnologia alla base del sistema: blockchain. Blockchain è una sorta di libro mastro delle transazioni – presente in molti computer nel mondo – che consente la creazione di monete digitali e banche virtuali. Se usato correttamente, secondo me, si dimostrerà un modello migliore per le transazioni e le verifiche rispetto a quello attualmente in uso nel sistema finanziario globale e in molte altre attività, come le votazioni, i registri pubblici, la verifica di autenticità delle opere d’arte e le cessioni di immobili. Grazie ai fallimenti di Bitcoin, abbiamo capito come le comunità digitali non dovrebbero funzionare. Abbiamo visto come i “libri mastri” possano essere hackerati. Lo spreco di un sistema di mining che consuma gigawattora di elettricità e ha portato alla creazione di enormi parchi server in Cina, al solo scopo di elaborare numeri per l’attività di mining di Bitcoin. Dobbiamo imparare da progetti di tecnologia open source di successo come Linux Foundation, che funziona soprattutto perché si è dimostrato un ente neutrale in grado di governare progetti di tutti tipi, diventati troppo grandi per essere gestiti in modo disorganizzato da piccoli gruppi di persone. Dobbiamo anche ripensare alcuni aspetti di blockchain, seguendo le linee guida indicate da Hearn e dai fedeli di Bitcoin. E ricordiamoci di cosa ha trasformato alcuni investitori in fanatici di Bitcoin: l’avidità. È questo, secondo me, il motivo principale del fallimento di Bitcoin: nato per garantire condizioni eque e un sistema di transazioni più efficiente, Bitcoin si è successivamente logorato, innescando una battaglia tra parti interessate al denaro. All’inizio, Bitcoin è stato un esperimento nobile. Ora rappresenta una distrazione. È arrivato il momento di costruire un sistema più razionale, trasparente, solido e responsabile, per spianare la strada verso un futuro più prospero per tutti noi. © The Washington Post 2016 «Una moneta regionale di Internet». Fino a un paio di anni fa, così la Bce liquidava il fenomeno delle cripto-valute. Come però c’insegna il fresco Nobel Bob Dylan, i tempi stanno cambiando. Ed ecco quindi finire nel mirino dell’Eurotower il Bitcoin e i suoi fratelli. Rivela la Reuters che la banca centrale guidata da Mario Draghi, chiamato oggi a fugare ogni dubbio su propositi di tapering anticipato, ha inviato lunedì scorso a Bruxelles un parere legale con cui consiglia di non promuovere l’uso delle valute virtuali, sprovviste dello status giuridico di moneta. La mancanza del «patentino», suggerisce la Bce, dovrebbe indurre la Commissione europea a dare un giro di vite alla moneta elettronica attraverso l’introduzione di nuove e più stringenti regole. Ma qual è il timore dell’istituto di Francoforte? In sostanza, un minor utilizzo del denaro «vero» se il Bitcoin dovesse prendere piede. In questo caso, si potrebbe verificare una riduzione significativa dei bilanci delle banche centrali. Con il risultato di una perdita di controllo sull’offerta di moneta e, in definitiva, sulla capacità di influenzare i tassi di interesse a breve termine. l valore dei Bitcoin è sceso molto negli ultimi due anni: ora un Bitcoin vale circa 360 euro, mentre alla fine del 2013 era arrivato oltre i 700. Bitcoin è una valuta digitale: esiste solo online e non ha un corrispettivo materiale. È stata creata nel 2009 da Satoshi Nakamoto, nome di fantasia che fino a oggi ha garantito l’anonimato agli inventori. C’è stato inizialmente un grande entusiasmo attorno ai Bitcoin, seguito da un certo scetticismo quando la valuta ha cominciato a perdere di valore: tuttavia i Bitcoin sono sempre più utilizzati, anche da grandi banche, e il numero “in circolazione” è cresciuto moltissimo (in modo quasi automatico, poi vediamo perché). Nel suo lungo articolo di copertina di questa settimana, l’Economist ha spiegato perché la vera rivoluzione di Bitcoin non sia tanto la valuta in sé quanto il modo in cui funziona: il meccanismo per cui i Bitcoin funzionano senza nessun organo centrale che svolga la funzione di garante – come invece funziona per le valute normali – sfruttando invece un sistema “peer-to-peer” (ci arriviamo) che potrebbe essere utilizzato anche in campi completamente diversi da quello finanziario. Partiamo dall’inizio: normalmente la moneta viene stampata dalle banche centrali dei singoli paesi. Nei paesi che adottano l’euro questo compito è affidato alla Banca Centrale Europea (BCE). Quando due persone effettuano una transazione – Mario compra un gelato da Anna – è la banca centrale a garantire ad Anna che i soldi di Mario abbiano un valore, e che quindi lei li potrà riutilizzare per pagare altre cose. Il meccanismo si basa quindi su un rapporto di fiducia tra gli agenti del mercato – tanti Mario e tante Anna – e un organismo terzo che fa da garante che i soldi abbiano il valore che dicono di avere. Nel sistema Bitcoin invece non ci sono banche centrali: il funzionamento del meccanismo è garantito da tutti gli agenti, sempre i vari Mario e Anna. Un meccanismo di questo tipo è definito “peer-to-peer”: ne sono un esempio i sistemi per scaricare file Torrent, come Popcorn Time. Questi sistemi funzionano grazie agli stessi utenti che ne usufruiscono, che agiscono sia da “clienti” che da “serventi”: nel caso di Popcorn Time, in soldoni, chi scarica un film in streaming stava contemporaneamente caricando il film per qualche altro utente. I vantaggi del peer-to-peer I Bitcoin usano lo stesso meccanismo per la garanzia delle transazioni. Se si effettuano transazioni online con valute classiche – Mario compra un prodotto dal sito di Anna – ci sono organismi terzi, le banche, che garantiscono che i soldi passino da Mario ad Anna. Per avere questa garanzia Mario e Anna pagano alla banca una piccola percentuale della somma che stanno scambiando, sotto forma di commissione. Se Mario e Anna avessero effettuato la transazione in Bitcoin non avrebbero avuto nessun organo terzo a garantire il passaggio di denaro – questo compito sarebbe stato svolto dagli altri utenti Bitcoin – e non avrebbero pagato nessuna commissione. Come funzionano i Bitcoin Il meccanismo peer-to-peer di Bitcoin è abbastanza complesso, c’entrano alcuni tipi di algoritmi chiamati “hash” che generano numeri che iniziano con un certo numero di zeri. In pratica però il funzionamento si può capire se si fa un paragone con un libro mastro: ogni utente Bitcoin è connesso con tutti gli altri e detiene una copia di una sorta di libro mastro chiamato blockchain (catena di blocchi). Nel blockchain sono registrate tutte le transazioni di tutti gli utenti di sempre, da quando sono nati i Bitcoin. Quando Mario paga Anna in Bitcoin, riprendendo l’esempio di prima, la transazione viene inviata per la conferma a tutti gli altri utenti Bitcoin (qui per utente si intende in realtà il programma installato sul computer dell’utente). Ogni utente riceve nello stesso tempo diverse transazioni (definite blocco, tutte insieme) che attendono conferma, e comincia a verificare se siano corrette in base all’ultima versione di blockchain che ha, quella più aggiornata. In questo modo, visto che ogni utente è a conoscenza di ogni transazione, si evita per esempio che uno stesso utente possa spendere due volte gli stessi Bitcoin: se da un utente partono due richieste di registrazione si considera la prima. Il computer dell’utente che per primo riesce a fare “quadrare i conti” tra blocco delle transazioni che chiedono conferma e il blockchain aggiornato, lo comunica a tutti gli altri: a questo punto le nuove transazioni vengono convalidate e inserite nel blockchain come nuovo blocco. Da questo momento in poi si procederà nello stesso modo, ma utilizzando il blockchain aggiornato con l’ultimo blocco. E così via. Generalmente ogni transazione viene convalidata in meno di 10 minuti. Il sistema di controllo peer-to-peer rende sostanzialmente impossibile truccare il proprio portafogli Bitocoin: nel blockchain sono iscritti i dati delle transazioni di Mario in ogni istante, legati a quelli di Sergio, Fabio, Giulia e di tutti gli altri utenti. Per truccare il proprio portafogli bisognerebbe ritoccare quello di tutti gli altri utenti e riscrivere il blockchain. Perché funziona Cosa dovrebbe spingere ogni utente Bitcoin ad adoperarsi perché il meccanismo continui a funzionare? C’è un piccolo, grande incentivo: l’utente che fa “quadrare i conti” con blockchain riceve come premio 25 Bitcoin, pari al momento a circa 9000 euro. Far quadrare i conti richiede un grande dispendio di energia per far lavorare un computer con calcoli molto complessi (il certo numero di zeri di cui si parlava prima) quindi il premio in denaro serve per ripagare alcuni utenti, detti “minatori”, che si occupano di questo. Con questo sistema a premi vengono anche creati nuovi Bitcoin, senza rischio di inflazione. Oltre ai Bitcoin Il sistema Bitcoin sembra funzionare piuttosto bene, è sicuro e economico. Sicuro perché è sostanzialmente impossibile falsificare il blockchain, visto che tutti gli utenti vigilano. Economico perché elimina le commissioni. Secondo l’Economist si potrebbe copiare lo stesso meccanismo in ambiti completamente diversi, dove gli organismi garanti non riescono a operare in modo efficiente. Nel mercato immobiliare per esempio: molti paesi hanno registri catastali poco aggiornati, o aggiornati in modo errato, che causano impicci legali (persone che si vedono espropriate della propria casa) per errori di trascrizioni e cose simili. Con un sistema come quello di Bitcoin, tutti i proprietari potrebbero condividere un registro perennemente aggiornato. In generale il meccanismo blockchain potrebbe essere applicato a tutti quei mercati che sono regolati da un organismo centrale che iscrive le transazioni in un registro o nei casi in cui il funzionamento è basato su un unico immenso database centrale (in un campo affine a quello dei Bitcoin, questo è il caso di PayPal). Un settore che si sta già attivando per cercare di risolvere i propri problemi con il blockchain è quello bancario, proprio quello che potrebbe perdere più soldi dall’espansione dei Bitcoin: quando le banche devono effettuare operazioni finanziare fra di loro impiegano moltissimo tempo per eseguire tutti i controlli del caso, e rischiano di rimanere senza soldi in momenti di difficoltà. Con un sistema di blockchain privato, solo per loro, potrebbero ridurre di molto tempi e costi di queste operazioni. Anche alla borsa di New York stanno sviluppando un sistema blockchain per registrare gli scambi di quote. Cos’è il Bitcoin, la moneta elettronica di cui si sente più parlare? Come funziona? E’ una tecnologia che ha anche altre applicazioni? E’ destinata a rimanere un “giocattolo” per esperti di alta tecnologia o diventerà presto una moneta di uso comune per tutti? Bitcoin è un protocollo informatico, come la posta elettronica, ma mentre la posta elettronica manda informazioni, quindi soltanto cose da sapere, “scambio di informazioni”, Bitcoin è un protocollo informatico che permette lo scambio di proprietà, e quindi può servire per comprare cose, scambiare, fare qualsiasi tipo di scambio di proprietà. Fino adesso ci sembrava di avere uno scambio di proprietà su internet, per esempio nel e-commerce, ma quello che avevamo era soltanto uno scambio di informazioni tramite controparti di cui ci dovevamo fidare, che svolgevano il vero scambio di proprietà in maniera tradizionale “dietro il sipario”. Invece con Bitcoin abbiamo la possibilità di scambiare direttamente proprietà su internet. La Blockchain è l’invenzione che ha permesso la creazione di Bitcoin. Bitcoin si basa su alcune tecnologie che esistevano già quando è stato creato, tra cui quella che alcuni usano tutti i giorni come firma digitale, alcune innovazioni come i database distribuiti; mancava un pezzo per creare Bitcoin, per creare la trasmissione di valore su internet. Questo pezzo si chiama Blockchain, è un sistema particolare, nato esattamente per bitcoin, ma che potrebbe essere utilizzato non solo per far funzionare Bitcoin, ma anche per far funzionare una serie di cose diverse, come ad esempio la “Data Certa”. Io oggi per apporre una “Data Certa” sui documenti, per provare che esistono in una certa data, abbiamo bisogno di notai, di timbri, di uffici postali; la Blockchain, nata per sostenere il sistema Bitcoin, può fare queste cose direttamente in maniera libera, con libero accesso da parte di tutti, senza chiedere permesso a nessuno. In particolare la BlockChain è la spina dorsale del sistema Bitcoin. Gli sviluppi più interessanti della tecnologia Blockchain sono, oltre Bitcoin, la possibilità di scambiare altre forme di proprietà nel mondo digitale, un domani si può immaginare lo scambio diretto di quelli che oggi sono titoli, azioni, obbligazioni, buoni sconto, punti fedeltà, miglia aeree, qualsiasi cosa che sia effettivamente “scarsa” può essere trasmessa usando la Blockchain. Inoltre sarà possibile usare la Blockchain per, appunto, certificare documenti, certificare date, certificare stesure di contratti, garantire che delle informazioni non vengano mai cambiate o modificate, o manipolate, quindi una sorta di registro notarile senza nessun notaio, aperto a tutti, e accessibile da tutto il mondo, da chiunque. L’atteggiamento di stati e banche è molto diverso caso per caso. Alcuni stati, diciamo così “occidentali” stanno studiando il fenomeno con un misto di sospetto, di attesa e di apertura. Gli Stati Uniti sono in realtà il centro tecnologico ma sono anche il centro del controllo finanziario in questo momento, e stanno cercando di imbrigliare il fenomeno, mentre ci sono alcuni stati come il Regno Unito o la Svizzera in cui sembra che il fenomeno venga lasciato più libero di svilupparsi spontaneamente in modo aperto. La maggior parte delle banche sta cercando di ricrearsi in casa il fenomeno, esattamente come le grandi compagnie di telecomunicazioni facevano negli anni ’90 quando è arrivato internet. All’inizio di internet, invece di accettare la novità, la maggior parte delle grosse industrie esistenti cercavano di ricrearsela in casa, una loro versione “personale” di internet, fino a quando si sono accorti che la tecnologia non poteva essere imbrigliata ed hanno accettato l’internet che conosciamo oggi. La stessa cosa sta accadendo con Bitcoin: per ora la maggior parte delle banche vuole farsi una blockchain in casa. Presto si renderanno conto che quello che possono fare è fornire i loro servizi in un mondo diverso, cambiato dalla tecnologia Blockchain in generale. In Italia abbiamo una situazione particolare con un grande gruppo bancario che sta studiando Bitcoin direttamente, senza mascherarlo sotto blockchain private ed altri tipi di chimere di questo genere. Le nuove tecnologie governeranno il nostro portafogli entro dieci o al massimo vent’anni. Il sistema monetario non cambierà con una riforma ma con un terremoto: ci sarà una crisi, un’emergenza e le élite proveranno a imporre un nuovo sistema. Con il bitcoin è andata più o meno così: la prima criptovaluta è stata lanciata dopo la crisi del 2008». il denaro digitale ci libererà dal portafogli, e magari dalle banche, nel giro di dieci anni. Il futuro comincia oggi e siamo a un bivio. Potremmo ritrovarci sul telefonino qualcosa di simile al bitcoin, la prima moneta nativa digitale, che promise di essere il denaro di tutti ed è stata profitto per pochi. Oppure possiamo scegliere un “civil money”, un denaro digitale civico, democratizzare gli scambi, liberare freelance e precari dalla condanna del lavoro gratis. Così dice Geert Lovink immaginando il futuro insieme a noi. Il critico dei media olandese ci ha già visto giusto nel 2012 quando dipinse le ombre di internet in Ossessioni collettive (Egea). Ora raccoglie i frutti delle sue intuizioni e torna in libreria con L’abisso dei social media, da noi anticipato a ottobre. Sul fronte dei social Lovink ormai è stato raggiunto da schiere di disillusi. Ma i capitoli dedicati al denaro digitale parlano di un futuro da disegnare: è presto per arrendersi al pessimismo. La promessa del bitcoin, la moneta virtuale più famosa al mondo, era questa. Creare una valuta senza banche centrali, governata dal rigore di un algoritmo e dalle decisioni dei singoli utenti. Il digitale promette di portare quel processo agli estremi liberando il denaro dall’intermediazione di Stato e banche: la tecnologia “blockchain” (dove il registro dei conti non viene gestito dalla banca ma dalla rete, dagli utenti nel loro complesso) consente di operare transazioni senza autorità intermediarie. Nel Sud del mondo gli operatori telefonici fanno già le veci delle banche e i pagamenti sono sempre più via telefonino. Blockchain sarà un “killer” di posti di lavoro nei settori bancario e amministrativo». Chi vuol far soldi con il Btc non lo usa: lo compra e lo rivende quando vale di più. Sarà anche senza Stato né banche, ma bitcoin non è esente da scelte politiche: è stato concepito per non superare i 21 milioni di Btc e con una vocazione deflazionistica. Bitcoin è un avatar delle classi privilegiate. Dicono “via i banchieri corrotti, basta tasse” ma usano una logica da start up che non ha nulla a che fare con le istanze dei movimenti sociali. Anzi puntano a accumulare valore chiusi nel loro circoletto». La Blockchain funziona come un libro mastro digitale che registra le transazioni tra due o più soggetti quando esse sono validate da una moltitudine di entità che per il loro lavoro di autentificazione delle operazioni vengono remunerate in bitcoin, la più popolare e diffusa valuta virtuale nata nel 2008. In sintesi, il bitcoin è stato progettato per essere eseguito da una rete di computer che confermano in modo indipendente le transazioni. Per assicurarsi che i soggetti siano disposti a contribuire con la propria potenza di calcolo, è stato pensato un premio per ogni blocco di transazioni confermato: un lotto di bitcoin neocostituiti. Poiché questo processo assomiglia in qualche modo a una miniera fisica, i partecipanti sono soprannominati minatori. Al rilascio, il sistema prevedeva un tetto: non più di 21 milioni di bitcoin sarebbero mai stati prodotti (finora sono stati estratti circa 15,7 milioni). Per garantire che i bitcoin fossero estratti nel corso di un lungo periodo di tempo (per gran parte del prossimo secolo) sono stati programmati degli speed bump. Uno è costituito da un gap di circa 10 minuti tra i blocchi confermati. L’altro è un reset quadriennale del premio di estrazione, un evento chiamato halving. Quindi il premio è dimezzato ogni quattro anni. Quando i bitcoin sono nati il premio era di 50 bitcoin. Nel 2012 è stato tagliato a 25 e in meno di 30 giorni sarà nuovamente ridotto a 12,5. Per la precisione mancano circa 26 giorni, ma resta da capire cosa accadrà nel corso di questo dimezzamento. Da un lato, dovrebbe avere un effetto domanda e offerta abbastanza prevedibile: con il taglio dell’offerta, la domanda dovrebbe far salire i prezzi. A quanto pare, questo è quanto sta avvenendo al momento, visto che gli operatori stanno essenzialmente facendo front-running sul dimezzamento. Lanciato nel 2009, il bitcoin è una moneta digitale che funziona su una rete decentrata di computer e non è sostenuta o controllata da alcun governo. Il volume di scambi è in crescita ma resta debole rispetto ad altri mercati dei capitali, quindi una modesta attività di trading può innescare ampie oscillazioni dei prezzi. La Blockchain è affascinante perché renderebbe possibile bypassare le autorità centralizzate, dalle banche agli studi notarili. I sostenitori ritengono che la Blockchain possa abbassare di miliardi di euro i costi delle transazioni finanziarie per le banche e attenuare i ritardi burocratici nelle contrattazioni. Gli scettici, moderando l’entusiasmo, evidenziano alcuni problemi. Per capire il fenomeno bisogna estrarre il bitcoin dalla sua sfera alchemica, per riportalo alla pura transazione economica. Sforzo non facile perché per migliaia di anni la moneta ha avuto alcune caratteristiche essenziali che noi le riconosciamo e che oggi il denaro peer-to-peer, cioè creato da pari a pari attraverso le reti condivise di computer, sembra avere tradito. Il conio è sempre stato il simbolo stesso del potere centralizzato. La tradizione vuole che la moneta sia nata con Creso, re di Lidia, nel VI secolo a.C., un’origine incerta proprio come accade per la e-moneta che ancora cerca il suo padre, noto con lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto. Da Creso in poi chiunque abbia avuto un potere lo ha manifestato stampando la propria effigie su una moneta: i persiani, i greci, i romani, i barbari che usurpavano il potere negli incerti confini dell’impero del IV-V secolo dopo Cristo, Carlo Magno, le Città-Stato come le moderne economie. Nessuno del popolo o della borghesia poteva sperare in tanto. Al contrario il fascino per molti ignoto del bitcoin risiede proprio nell’avere disatteso questa legge che sembrava scolpita nella pietra della politica monetaria: oggi chiunque può decidere di scendere con il proprio computer nelle cosiddette «miniere» del conio, proprio come in passato si doveva scendere sottoterra a cercare l’oro, materia prima della moneta. Chiunque può partecipare al conio scaricando uno dei molti software che si trovano nelle reti Torrent, come Slush, vincendo il proprio pezzettino di moneta. E nessuno può pensare di essere un neo Sforza, Gonzaga o de’ Medici. O, al contrario, tutti possono sognarlo almeno un po’ partecipando al conio. Quello che vende è un sogno: «La Banca centrale sono io». A ben vedere l’unica essenza della moneta tradizionale che ritroviamo nel bitcoin è l’incrollabile fiducia in essa. Da quando nel 1931 il sistema monetario internazionale ha abbandonato definitivamente il Gold Standard, che imponeva di immagazzinare un pari quantitativo di oro per tutta la moneta in circolazione, tutti noi lavoriamo per avere a fine mese dei pezzi di carta e delle monete di materiale vile. Sul bitcoin, o meglio sulla tecnologia contabile che sta alla sua base, la blockchain, per anni affare da visionarie startup, accaniti idealisti o, secondo i critici, loschi trafficanti, ora sono le grandi banche, sempre loro, a allungare le mani. Le ultime a lanciarsi, ha rivelato il Financial Times, sono niente meno che Ubs, Deutsche Bank, Santander e Bny Mellon. Colossi che si sono uniti per lanciare entro l’inizio del 2018 un’infrastruttura di scambio, con relativa unità di conto virtuale, con cui regolare le pendenze finanziarie. Citigroup, JpMorgan e Goldman Sachs nel frattempo lavorano alla loro moneta. Mentre già nel 2017 dovrebbe arrivare la versione di R3, il consorzio newyorchese di cui fanno parte 40 big globali del credito, tra cui gli italiani Intesa Sanpaolo e Unicredit. Il motivo di tanto interesse è presto detto: risparmiare. Ogni giorno gli operatori della finanza si scambiano miliardi di dollari in liquidità e strumenti di investimento. La blockchain è un registro contabile che frammenta le informazioni tra tutti i nodi della rete, senza un’autorità centrale che le controlli. Permetterebbe di togliere di mezzo gli attuali sistemi di compensazione, che con i loro intermediari costano alle banche circa 80 miliardi di euro l’anno. «Pensiamo ai pagamenti internazionali, alla compravendita di titoli o alla finanza a supporto delle imprese che importano ed esportano», spiega Daniele Savaré, responsabile dei sistemi informatici che regolano i flussi di denaro di Unicredit. Un trasferimento verso l’India, che oggi richiede giorni e un partner locale, con la blockchain sarebbe diretto e istantaneo. «Più veloce, sicuro e efficiente». Per il sistema del credito farebbero tra 15 e 20 miliardi di dollari risparmiati l’anno, stimano gli analisti, non proprio noccioline in questi tempi difficili. Per alcuni, è bene sottolinearlo, rimane comunque una sorta di schema Ponzi in cui gli ultimi resteranno con il cerino in mano. L’algoritmo che ne gestisce la produzione è un puzzle che diventa sempre più complicato da risolvere, giorno dopo giorno. Così il primo a scendere nella miniera ha guadagnato milioni facilmente mentre oggi bisogna tenere un computer attaccato alla Rete per giorni per potere guadagnare pochi centesimi. La vera moneta è la fiducia nel sistema e il bitcoin, in qualche maniera, ha assorbito questa magia. Per paradosso a dimostrarlo ci sono proprio i furti come quello avvenuto a Hong Kong: la valuta crolla ma poi si riprende sempre come era già accaduto nel 2014 quando era fallita la stessa borsa di Tokyo, Mt. Gox, al tempo la più grande al mondo. Nonostante le perdite, oltre 600 milioni andati in fumo, la moneta ha superato indenne il crac. In un ecosistema giovane si verificano peraltro fenomeni bizzarri che alimentano confusione: viene bucata la sicurezza di un exchange e di conseguenza bitcoin perde valore, come se l’euro si svalutasse perché una banca è stata rapinata. La moneta, reale e virtuale, è sinonimo di fiducia. La comunità degli utenti e degli amministratori di piattaforme dovrebbe impegnarsi a difendere una moneta nata nel 2009 con grandi ambizioni globali ma ancora fragile e instabile. per ora è un enorme laboratorio mondiale per studiare come potrebbe essere un mondo alla rovescia dove per difendere le informazioni non le dovremo chiudere in un fortino segreto in Alaska ma, al contrario, le dovremo dare a tutti, così che i molti possano essere i guardiani dei pochi (furbi o ladri che siano). «Oggi il bitcoin è una moneta per iniziati e viene descritta solo nel suo aspetto tecnologico. Ma al risparmiatore interessa solo la semplicità nella gestione ed è quello che vogliamo permettere con Conio». Missione in testa: permettere anche ai piccoli risparmiatori che non si interessano di tecnologia e che non sanno cos’è una blockchain di acquistare e vendere e soprattutto pagare in bitcoin. Come con ogni altra moneta, oltre a pagare in bitcoin, si può guadagnare coi bitcoin. Una speculazione come un’altra: compro oggi un bitcoin ad un determinato prezzo e pure interessante: non si pagano tasse per esempio, no capital gain, bolli o Iva. Nulla, almeno per ora. Ha scritto di recente l’Agenzia delle Entrate: «Per quanto riguarda la tassazione ai fini delle imposte sul reddito, le operazioni a pronti (acquisti e vendite) di valuta non generano redditi imponibili mancando la finalità speculativa (se la giacenza media non supera i 51.000 euro, ndr)». Le fluttuazioni possono però essere notevoli. Solo negli ultimi dodici mesi siamo passati da una quotazione di circa 220 dollari per bitcoin a oltre 600 (ragione per cui bisogna fare molta attenzione, visto che, come sono saliti i bitcoin, in passato, sono anche scesi drasticamente, soprattutto quando è emersa qualche frode come il crac della Borsa giapponese, Mt Gox, due anni fa). Per alcuni il bitcoin è lo sterco del diavolo (prova ne sono i furti via web di cui ogni tanto è vittima), altri invece lo considerano l’invezione del secolo (l’ennesima). Ciò che non cambia è il contesto del dibattito: all’opinione pubblica la moneta elettronica viene presentata più come un’arte negromantica 2.0 che come un fenomeno economico. Invece quest’anno, nel disinteresse comune, il World Economic Forum ha detto che l’80 per cento delle banche potrebbe lanciare dei progetti basati su una blockchain entro il 2017. La vera gallina dalle uova d’oro non sarebbe tanto il bitcoin in quanto valuta, ma la blockchain, la catena che si viene a formare dall’unione in Rete di milioni di computer: è una sorta di database accessibile a tutti, ma che nessun singolo ha il potere informatico di cambiare. O meglio: il costo per modificare tutte le infinite periferie della blockchain sarebbe così alto da annullare qualunque tipo di guadagno. La rivoluzione del bitcoin è qui: la memoria della sua produzione, della distribuzione e della proprietà non è in qualche server centralizzato, un bunker inaccessibile come quello delle banche o dei servizi di pagamento come Paypal, ma ovunque. Letteralmente. ITALIA In Italia il bitcoin non ha mai scaldato particolarmente gli animi, almeno non quello dei piccoli risparmiatori. E anche la banca d’Italia... Roma. Mentre ai piani alti delle banche europee ci si arrovella sui possibili rivolgimenti derivanti dall’eventuale Brexit, la Banca d’Italia ha approfondito con suoi funzionari, operatori di mercato, accademici e banchieri le potenzialità e le criticità di un’altra rivoluzione della finanza, quella digitale. Ieri mattina la Banca d’Italia ha ospitato per la prima volta un seminario a porte chiuse con l’intenzione di ragionare sulla Blockchain, tecnologia sottostante alla valuta virtuale Bitcoin. Dalla discussione è emerso che la Banca centrale italiana incoraggia senza preconcetti il dialogo con gli intermediari intenzionati a sviluppare una nuova tecnologia che promette, tra l’altro, di abbattere i costi operativi per le banche. CINA Negli ultimi due anni, buona parte del mining e del trading del bitcoin è stato localizzato in Cina. Quattro dei cinque maggiori minatori sono situati nell’ex Celeste Impero. Anche gran parte del trading è legato al Dragone: un buon 85% dei volumi di negoziazione di ieri era nominato in yuan, mentre la quota assimilabile al biglietto verde equivaleva al 12%. A Kongyu, nella regione tibetana di Garze, la chiamano tutti «The Mine», la miniera. Ma qui non si estrae niente. Tra cieli blu, turbine elettriche e fiumi, sulle montagne del Sichuan occidentale, a venti chilometri dal resto della civiltà, ha sede la più importante centrale di controllo delle transazioni in bitcoin. Niente oro o diamanti, dunque. La ricchezza di «The Mine» è la moneta virtuale, il cui scambio passa attraverso i microprocessori collocati in questa centrale. Quando i bitcoin sono stati creati erano considerati un’idea cripto punk e libertaria, Oggi, diciassette anni dopo, mentre il mondo ancora si interroga sull’identità di Shatoshi Nakamoto, lo pseudonimo dietro cui si cela l’inventore della cripto moneta, per ironia della sorte, questo mercato da 9,2 miliardi di dollari è finito sotto il controllo cinese. A favorire la Cina in questa partita, la produzione dei microprocessori più economici e più adatti alla gestione del mercato dei bitcoin. Inoltre, nonostante il governo di Pechino abbia vietato alle banche il commercio di bitcoin nel 2013, ai singoli imprenditori è permesso fare transazioni in cripto moneta, con il risultato – secondo un rapporto di Goldman Sachs – che l’80 per cento del volume di scambi in bitcoin ha coinvolto la moneta cinese, lo yuan. A far cadere la scelta sul Tibet come sede di «The Mine» ha giocato invece la presenza di elettricità e di manodopera a buon mercato necessaria a far funzionare i microprocessori. Lasciate indietro dunque l’Irlanda e la Mongolia, individuate in prima battuta come sedi di «The Mine», il cervellone dei bitcoin è approdato sul Tetto del mondo. La routine della miniera dei bitcoin è «semplice». Alle 7.50 ogni mattina si tiene una riunione operativa per stabilire gli obiettivi e discutere le criticità. Chi arriva tardi viene sanzionato (ma non è dato sapere come). Poi, nel pomeriggio, c’è spazio per qualche attività ricreativa. Quasi nessuno dei dieci operai assunti lascia «The Mine» «perché nei dintorni non c’è assolutamente niente da fare», come confessa il manager cinese sul sito Coindesk.com. Ad attirare qui la manodopera, paghe più alte che nelle centrali idroelettriche della regione. Così per meno di mille dollari al mese c’è chi vive qui, tra turbine e microprocessori, aspettando con ansia il mese di ferie concesso. ---------- ----- È il sistema Blockchain (quello del libro mastro) la vera grande rivoluzione che sta alla base del successo dei Bitcoin. Un meccanismo che potrebbe essere utilizzato anche in ambiti completamente differenti dalle monete virtuali, per far funzionare una serie di cose dove gli organismi garanti non riescono a operare in modo efficiente. Vediamo alcuni esempi di come e dove potrebbe essere utilizzato. Nel mercato immobiliare, per esempio. Molti paesi hanno registri catastali poco aggiornati, o aggiornati in modo errato, che causano impicci legali per errori di trascrizioni e cose simili. Con un sistema come quello di Blockchain tutti i proprietari potrebbero condividere un registro perennemente aggiornato. Altro esempio, la “Data Certa”. Oggi per poter provare che un documento esiste da una certa data, abbiamo bisogno di notai, timbri, uffici postali; la Blockchain può fare queste cose direttamente in maniera gratuita, con libero accesso da parte di tutti da casa propria, senza chiedere permesso a nessuno. In generale il meccanismo Blockchain potrebbe essere applicato a tutti quei mercati che sono regolati da un organismo centrale che iscrive le transazioni in un registro o nei casi in cui il funzionamento è basato su un unico immenso database centrale. E, manco a dirlo, si prevede che Blockchain possa essere un perfetto e spietato killer di posti di lavoro oltre che nel settore bancario anche in quello amministrativo. ------ pezzo per la verità Cara Bce, vengo da internet, mi chiamano Bitcoin, e la banca centrale adesso sono io Entro pochi anni le nuove tecnologie cambieranno anche il nostro sistema monetario. E non sarà una riforma ma un vero e proprio terremoto. Ecco cos’è, perché funziona e come si usa la criptomoneta più famosa al mondo. BATTUTE 6534 Qualche giorno fa la Bce di Mario Draghi ha invitato l’Unione europea a non promuovere l’uso delle valute virtuali. La mancanza dello stato giuridico di moneta, suggerisce la Bce, dovrebbe indurre la Commissione a dare un giro di vite alla loro diffusione. Eppure dal 2015 a oggi la quotazione di un bitcoin, la moneta virtuale più diffusa al mondo, è passata da 200 a oltre 600 dollari (+200%). E che il suo andamento sia rimasto costante, nonostante qualche guaio capitato in questi ultimi due anni, è una conferma di una sopravvenuta stabilità. Non è allora che la Bce teme il bitcoin anche perché se dovesse prendere piede potrebbe causare una riduzione significativa del suo bilancio? Con il risultato di una perdita di controllo sull’offerta di moneta in tempi in cui l’unica politica della Bce, con il nobile scopo di risollevare economie e inflazione, è quella di stampare più moneta possibile? INIZIO Partiamo dall’inizio. Normalmente la moneta viene stampata dalle banche centrali dei singoli paesi. Quando due persone effettuano una transazione – Tizio paga Caio – è quest’organismo centrale a garantire a Caio che i soldi di Tizio abbiano quel valore. Nel sistema bitcoin invece non ci sono banche centrali: il funzionamento del meccanismo è garantito solo dagli agenti, i vari Tizio e Caio. Un sistema di questo tipo è definito «peer-to-peer»: pari a pari. Hanno una struttura simile i siti che usiamo per scaricare file da internet: chi scarica un film in streaming spesso sta contemporaneamente caricando il film a qualche altro utente. Ma mentre i siti di download permettono lo scambio di informazioni (il film), il sistema che sta alla base dei bitcoin permette lo scambio di proprietà (la moneta). COMMISSIONI In molti oggi pensano di avere uno scambio di proprietà su internet semplicemente perché acquistano o vendono prodotti online, ma quello che hanno è soltanto uno scambio di informazioni tramite controparti di cui si fidano, che poi svolgono il vero scambio di proprietà in maniera tradizionale. Infatti, se si effettuano transazioni online con valute classiche – Tizio compra qualcosa sul sito di Caio – ci sono organismi terzi – le banche, le carte di credito, PayPal – che garantiscono che i soldi passino da Tizio a Caio. Per avere questa garanzia i due pagano una percentuale della somma che stanno scambiando sotto forma di commissione. Se invece avessero effettuato la transazione in bitcoin non avrebbero avuto nessun organismo terzo a garantire il passaggio di denaro e non avrebbero pagato nessuna commissione. PAGAMENTO Come il meccanismo «peer-to-peer» di bitcoin riesca ad essere certo e a prova di bomba è abbastanza complicato. Il funzionamento si può però capire se si fa un paragone con un libro mastro della contabilità. Ogni utente detiene una copia digitale di un libro mastro chiamato «Blockchain» (catena di blocchi). Qui sono registrate tutte le transazioni da quando sono nati i bitcoin. Quando ci sono nuove transazioni queste vengono inviate, a blocchi, a tutti gli altri utenti che cominciano a verificare se siano corrette in base alle informazioni presenti sull’ultima versione del libro mastro. In questo modo si evita per esempio che un utente possa spendere due volte gli stessi soldi o usare soldi che non sono suoi. Chi per primo riesce a fare quadrare i conti tra blocco delle transazioni che chiedono conferma e l’ultima versione del libro, lo comunica a tutti gli altri: a questo punto le nuove transazioni vengono convalidate e il pagamento si chiude. Da questo momento in poi si procederà nello stesso modo ma utilizzando il «Blockchain» aggiornato con l’ultimo blocco di transazioni. E così via. MINATORI Ma cosa spinge le persone ad adoperarsi perché il meccanismo continui a funzionare? C’è un piccolo, grande incentivo. Per assicurarsi che gli utenti siano disposti a contribuire con la potenza di calcolo dei propri computer, è stato pensato un premio per coloro che fanno quadrare i conti: un lotto di bitcoin neocostituiti. Poiché questo processo di conio assomiglia in qualche modo a una miniera fisica, i partecipanti sono soprannominati «minatori» (vedi articolo sotto). SUPERMERCATO Non si deve essere per forza dei «minatori» per usare i bitcoin: se il venditore li accetta, posso decidere di avvalermi della valuta virtuale anche solo per una transazione. Mettiamo di essere al supermercato. Riempo il carrello e vado alla cassa. Ma invece di dare la carta di credito per pagare, tiro fuori lo smartphone e faccio una foto al codice mostrato dal registratore di cassa. Clicco «conferma» sul telefonino e la transizione viene eseguita (compresa la conversione da euro a bitcoin, se non ne posseggo nessuno). I proprietari del supermercato, a loro volta, possono mantenere la cifra in bitcoin o decidere di ricambiarla subito in euro. In questo caso la convenienza sta nella velocità di scambio (il venditore riceve i soldi in pochi minuti e non parecchi giorni dopo come succede con le carte di credito) e nella mancanza di commissioni (che generalmente girano intorno al 2% della transazione). Il rischio sta nelle fluttazioni del cambio. INVESTIMENTO C’è chi non usa il bitcoin come mezzo di pagamento ma come investimento, per provare a fare soldi. Nient’altro speculazione come con qualsiasi altra moneta: compro oggi un bitcoin ad un determinato cambio con la mia moneta tradizionale e spero di rivenderlo a un cambio più favorevole. Investimento rischioso (vista la maggiore volatilità rispetto a monete come dollaro ed euro) ma pure interessante: non si pagano tasse, per esempio. Ha scritto di recente l’Agenzia delle Entrate: «Per quanto riguarda la tassazione ai fini delle imposte sul reddito, le operazioni a pronti (acquisti e vendite) di valuta non generano redditi imponibili mancando la finalità speculativa (se la giacenza media non supera i 51.000 euro)». TERREMOTO Per ora il bitcoin resta un enorme laboratorio per studiare come potrebbe essere un mondo alla rovescia dove per difendere le informazioni le dovremo dare a tutti. Ma ci sono tutti i segnali per poter affermare che, entro dieci-vent’anni, le nuove tecnologie cambieranno anche il nostro portafogli. E se, manco a dirlo, si prevede che il sistema che sta a monte delle monete virtuali possa essere un perfetto killer di posti di lavoro nel settore bancario e in quello amministrativo, la netta impressione è che un denaro sottratto all’intermediazione della politica e degli istituti centrali non sarà il risultato di una riforma monetaria ma di un vero e proprio terremoto. ----- Come funziona una miniera dove si estraggono i Bitcoin BATTUTE 2350 Il bitcoin è stato concepito per non superare i 21 milioni di pezzi. Finora ne sono stati estratti circa 16. Per garantire che fossero estratti nel corso di un lungo periodo di tempo (per gran parte del secolo) sono stati programmati dei «rallentatori di velocità». Uno è costituito dal gap di circa dieci minuti tra i blocchi confermati nel sistema «Blockchain». L’altro è il dimezzamento ogni quattro anni del premio di estrazione. Quando i bitcoin sono nati il premio ai «minatori» per ogni blocco di transazioni confermato era di 50 bitcoin. Nel 2012 è passato a 25, nel 2016 a 12,5. Così il primo a scendere nella miniera, quando gli utenti collegati erano pochissimi, ha guadagnato milioni facilmente, mentre oggi bisogna tenere un computer attaccato alla rete per giorni per potere guadagnare pochi centesimi. E a nove anni dalla sua invenzione, mentre il mondo ancora si interroga sull’identità di Shatoshi Nakamoto, lo pseudonimo dietro cui si cela l’inventore della cripto moneta, per ironia della sorte, questo mercato da 10 miliardi di dollari è finito sotto il controllo cinese. Negli ultimi anni, buona parte dell’estrazione e del trading del bitcoin si è infatti localizzato in Cina: vengono dal Dragone quattro dei cinque maggiori «minatori» e l’85% circa dei volumi di negoziazione è nominato in yuan. «The Mine», la più importante centrale di controllo delle transazioni in bitcoin, ha sede a Kongyu, nella regione tibetana di Garze. Niente oro o diamanti, la ricchezza di «The Mine» è la moneta virtuale, il cui scambio passa attraverso i microprocessori collocati in questa centrale. A favorire la Cina in questa partita, la produzione dei microprocessori più economici e più adatti alla gestione del mercato monetario virtuale. La routine della miniera è semplice. Ha scritto Marta Serafini sul Corriere della Sera che alle 7.50 ogni mattina si tiene una riunione operativa per stabilire gli obiettivi e discutere le criticità. Chi arriva tardi viene sanzionato (ma non è dato sapere come). Nel pomeriggio, c’è spazio per qualche attività ricreativa. Quasi nessuno dei dieci operai lascia «The Mine» «perché nei dintorni non c’è assolutamente niente da fare». Così per meno di mille dollari al mese (paga comunque più alta di quella di un operaio medio) c’è chi vive estraendo nuovi bitcoin aspettando con ansia il mese di ferie concesso.