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 2016  ottobre 21 Venerdì calendario

L’AUTOGUFO

Malgrado la nostra congenita gufaggine, accentuatasi notevolmente da quando il presidente del Consiglio ha preso di mira quei simpatici animali notturni, ci auguravamo con tutto il cuore il massimo successo della spedizione a guida italiana della sonda Schiaparelli su Marte. Ma le speranze si sono ridotte al lumicino tre giorni fa, quando abbiamo letto la seguente dichiarazione del noto portafortuna che siede ogni tanto a Palazzo Chigi: “La visita di Stato negli Usa si conclude con la visita al cimitero di Arlington. Oggi ripartiamo per l’Italia, dopo le emozioni della giornata di ieri. Ma intanto il nostro Paese vive un’altra pagina di orgoglio. L’Europa infatti arriva su Marte, con una missione a leadership italiana e la sonda Schiaparelli. Un grande sogno europeo, reso possibile dalla straordinaria qualità dei ricercatori italiani che ho incontrato qualche giorno fa a Torino. Viva chi ci prova, viva chi si mette in gioco, viva chi innova”. In quel preciso istante abbiamo avuto come l’impressione che le chance della missione si fossero ridotte a zero, come quelle di Federica Pellegrini e Vincenzo Nibali alle Olimpiadi di Rio dopo il saluto beneaugurante di Renzi. Infatti ieri, puntuale come un funerale, è giunta dal Pianeta Rosso la ferale notizia: la capsula spaziale s’è schiantata.

Non che tra il post renziano e la fine ingloriosa della sonda ci sia un nesso causale, questo mai: possiamo forse credere a queste superstizioni? Ma da chi stana gufi in ogni dove per additarli al pubblico ludibrio, un po’ di sana prudenza sarebbe lecito attenderla. La stessa prudenza che il nostro capo del governo aveva appena usato quando Obama ha auspicato la vittoria del Sì al referendum in Italia (anche se non è parso proprio pronto a scommetterci, infatti ha aggiunto che Renzi deve restare anche se vince il No). Mentre la stampa e le tv di regime esultavano a edicole e reti unificate per il decisivo endorsement, Palazzo Chigi si mostrava più cauto. Forse memore di quel che accadde qualche mese fa quando Obama, in visita a Londra, intimò ai britannici di votare contro la Brexit al referendum del 23 giugno. Risultato: trionfo della Brexit. La stessa cosa, mutatis mutandis, era accaduta l’anno scorso in Grecia, quando Renzi si schierò con la Germania per il Sì al referendum indetto da Tsipras sul piano di austerità della Troika europea e naturalmente vinse il No. Pare infatti che i popoli chiamati al voto tendano bizzarramente a decidere da sé, secondo i propri interessi, che il più delle volte collidono con quelli delle cancellerie estere.

Il che spiega come mai il ddl Boschi&Verdini piace un sacco a Obama, al suo ambasciatore a Roma, a Jp Morgan, a Marchionne e ad altri extracomunitari, ma molto meno agli italiani. Almeno a quelli che hanno capito su che diavolo si vota: l’abolizione delle elezioni per il Senato. Roba che in America, se qualcuno osasse proporla, verrebbe lapidato sulla pubblica piazza. Infatti anche la Costituzione Usa del 1789 prevede un bicameralismo pressoché perfetto, con navetta obbligatoria delle leggi tra Camera e Senato. In origine i senatori erano nominati dai parlamenti dei vari Stati (un po’ come nel ddl Boschi&Verdini dai Consigli regionali), mentre i deputati erano eletti dal popolo. Poi, nel 1913, fu approvato il XVII emendamento che introduceva l’elezione diretta dei senatori. Gli emendamenti alla Carta americana sono stati appena 27 in 227 anni: l’ultimo è del 1992, per vietare ai parlamentari del Congresso di aumentarsi lo stipendio. I Paesi seri aggiornano le proprie Costituzioni per allargare la partecipazione dei cittadini, non per restringerla. L’Italia invece va a passo di gambero: aveva senatori eletti e ora, se vince il Sì, non li avrà più. Eppure Obama ha deciso che ciò che in America sarebbe una bestemmia, in Italia sarebbe una benedizione. Per lui e per chi verrà dopo, si capisce. Da 70 anni l’Italia è una piccola colonia americana, governata da marionette che ogni tanto vanno a prendere ordini a Washington. Ma provate voi a dare ordini a un premier che poi deve tornare in patria e convincere la Camera e il Senato ad approvare le direttive della Casa Bianca, il presidente della Repubblica a firmarle, la magistratura a non eccepire la loro incostituzionalità, la Consulta a ritenerle legittime, la libera stampa (ove mai esistesse) ad avallarle e i cittadini a digerirle. Non si finisce più.

Molto meglio avere a Roma un uomo solo al comando che si nomina la maggioranza dei deputati (con l’Italicum) e dei senatori (tramite le Regioni amministrate dal suo partito), il capo dello Stato e qualche membro della Consulta e del Csm a sua immagine e somiglianza. Basta telefonare a lui e tutti gli altri scattano sull’attenti. Si fa prima e si risparmia pure sulla bolletta del telefono. Il guaio è che, a furia di endorsement internazionali, si rischia di insospettire i cittadini: che gliene frega a Obama, a Jp Morgan e alle cancellerie europee se cambiamo la Costituzione o ce la teniamo stretta? Se continuiamo a eleggere i nostri parlamentari o se li facciamo nominare da un pugno di capipartito? Una domanda oggi, una domanda domani e alla fine qualcuno potrebbe trovare la risposta esatta. Restiamo dunque in fiduciosa attesa dei Sì di Merkel, Rajoy, Hollande, Juncker, ma anche – non poniamo limiti alla provvidenza – di Putin, Erdogan, al-Sisi e magari pure del presidente cipriota Anastasiades. Intanto, per non farci mancare nulla, Repubblica mostra la foto di quattro masai del Kenya accanto al manifesto “BastaunSì”, reclutati da tal Pasquale Tiritò, proprietario di un resort di lusso a Malindi, dunque “coordinatore di ‘Kenya per il Sì’”. Sono soddisfazioni.